Nel Paese asiatico, tra i più poveri del mondo, le famose “banche dei poveri” non sono tutte uguali. Quelle fondate dalla Chiesa prestano denaro a tassi molto più bassi e vogliono educare. È questa la sola strada per vincere la povertà
di Piero Gheddo
Nel gennaio 2009 ho intervistato in Bangladesh il padre Giulio Berutti, missionario del Pime da 37 anni in Bengala, che dal 1996 dirige le banche parrocchiali nella diocesi di Dinajpur nate negli anni Venti: «Lo scopo della Grameen Bank è di produrre profitto e distribuire molti dividendi ai soci, il nostro scopo è di aiutare i poveri stimolandoli a risparmiare e ad usare il loro risparmio per produrre altra ricchezza».
Padre Giulio spiega: «I piccoli prestiti che fanno le Credit Union (cioè le banche della Chiesa) vengono restituiti col modico interesse del 12% annuale, molto più basso di quello che fanno le banche (del 22-24%) e meno della metà di quello che fa la famosa Grameen Bank di Yunus, che arriva a pretendere il 28% annuo di interesse sui prestiti.
Yunus in Bangladesh è criticato per l’eccessiva rigidità e durezza verso le famiglie che non sono in grado di restituire i prestiti a quell’altissimo tasso d’interesse (comunque inferiore a quello degli usurai!) e quindi gettando nella disperazione e degrado umano i poveri più incapaci. Però la Grameen Bank, nel quadro bengalese, ha molti meriti ed è una banca di puro capitalismo, mentre le Credit Union cristiane vogliono educare al risparmio la gente più povera».
Padre Berutti spiega che le Credit Union si rivolgono solo ai tribali, cioè la minoranza pagana e cristiana che è all’ultimo gradino della società bengalese; mentre la Grameen Bank si rivolge ai bengalesi, musulmani o indù, molto più evoluti dei tribali. Le Credit Union stanno facendo evolvere la cultura dei tribali, che è incapace di iniziative ed è chiusa alle novità.
I leader tradizionali sono preoccupati di conservare l’etnia, il villaggio, i costumi come li hanno trovati, non di svilupparli. L’ideale dei villaggi tribali è l’uniformità e la solidarietà, per cui non ci devono essere ricchi e poveri, ma tutti eguali. Questa mentalità ha elementi positivi, ma impedisce la formazione del capitale e della imprenditorialità.
Se un tribale ha bisogno di soldi chiede un prestito, ma resta sottinteso che non lo restituirà perché egli ha bisogno di quel denaro, l’altro no. Il fatto che nelle Credit Union il prestito debba essere restituito è qualcosa di rivoluzionario. Il dover mettere da parte ogni settimana cinque o dieci take (88 take valgono un Euro) per saldare il debito, comporta un salto culturale non indifferente.
La società tribale “Santal” ha i suoi valori: solidarietà, pazienza, uguaglianza di tutti, capacità di godere con poco, però è una società bloccata, che si propone di conservare la tradizione, non di migliorare la vita. Le Credit Union sono fondate sul principio che i prestiti vanno restituiti e vengono fatti per stimolare l’inizio di piccole attività che producono un nuovo reddito: allevamento e vendita di animali da cortile, produzione di uova, dolci, lavori in legno, ferro, paglia, fibre vegetali, acquisto di una macchina da cucire o di un rikshiò, ecc.
Com’è organizzata la banca dei poveri? In ogni parrocchia esiste la Credit Union e il parroco ne è il presidente. Della Credit Union parrocchiale fanno parte i comitati di villaggio della Credit Union, alla quale partecipano solo i tribali. Nella Credit Union di villaggio la gente partecipa, discute, entra in una nuova mentalità e cultura. La “banca i dei poveri” ha anche lo scopo di formare nuovi dirigenti dei tribali.
Non più gli anziani depositar! della tradizione, ma gente giovane, alfabetizzata, che non si preoccupa di salvaguardare le usanze tribali (come non sposarsi con persone di altre tribù, conservare l’uguaglianza assoluta fra tutti), ma promuove i valori d’unità e solidarietà inserendoli nel contesto del mondo d’oggi.
Il successo delle Credit Union è molto superiore al previsto. Secondo i dati del 2009, nella diocesi di Dinajpur, i soci titolari di un deposito sono 8.500. Le Credit Union sono 19, una per ogni parrocchia. «Da sette-otto anni – dice padre Berutti – abbiamo un capitale sociale del valore di circa 250 milioni di lire. Non penso che ci siano altri progetti di sviluppo che abbiano avuto risultati così buoni e creato un cambiamento di mentalità e di cultura così profondo.
A cosa è dovuto il successo? A due principi a cui ci atteniamo con rigore: 1) l’educazione dei risparmiatori attraverso corsi, riunioni, raduni. Bisogna far capire e accettare le nuove norme con pazienza e insistenza; 2) controllo, supervisione. La tentazione di approfittare dei prestiti per risolvere a breve scadenza problemi familiari e di villaggio è forte. L’unico modo per vincere questa tentazione è di far capire che la banca controlla quello che tu fai attraverso la supervisione. Le banche per i poveri del passato sono fallite perché il missionario fondava e avviava la banca, metteva delle regole e poi la lasciava andare, senza controlli dall’alto».
«Oggi – continua Berutti – abbiamo tre supervisori diocesani che sono incaricati di visitare mensilmente le Credit Union e nel raduno mensile della Credit Union parrocchiale si vede se le cose sono fatte bene e senza abusi di sorta. Una volta l’anno fanno il controllo fiscale e il bilancio annuale amministrativo; poi c’è l’assemblea dei soci a livello parrocchiale, in cui tutti i soci, o alcuni delegati dai villaggi, partecipano e decidono come dividere il guadagno. Impiegare il guadagno è il grosso problema, che dimostra come l’ostacolo principale allo sviluppo non è la mancanza di soldi, ma l’incapacità di usarli in modo produttivo.
Alcune di queste Credit Union hanno più soldi di quanti ne sanno investire e si limitano a lasciare il capitale in banche che danno interessi. I singoli soci, essendo piccoli contadini o mezzadri o piccoli artigiani, non hanno la creatività necessaria per fare investimenti produttivi. Hanno preso il piccolo prestito per i fertilizzanti, per irrigare i campi, per i pesticidi, debbono solo lavorare e aspettare che la natura produca il raccolto. I tribali, mettendosi assieme, potrebbero investire in piccole aziende artigianali. Invece, nelle riunioni non sanno dire altro che “Mettiamo i soldi in banca”, lo mi arrabbio, ma non hanno mentalità imprenditoriale, sono contenti così».
«In conclusione, dice padre Berutti, la banca dei poveri ha portato una maturazione nella comunità, perché oggi ci sono decine e decine di uomini e donne che sanno partecipare ad una riunione, discutere e spiegarsi, tenere i registri contabili. Nasce in questa brava gente la “self-confidence”, il rispetto di se stessi, la presa di coscienza di essere uomini e donne di valore, che è la molla di ogni sviluppo».
«La cultura “Santal” e tutte le culture asiatiche stanno subendo un impatto enorme dalla cultura occidentale, sono tutte in crisi. Gli anziani e i capi villaggio non controllano più i giovani. La povertà poi rende gelosi, invidiosi, la gente è d’animo piccino, aumenta la litigiosità. La vecchia tradizione controllava bene tutti questi aspetti, ora non più.
In passato non c’era nessuno che moriva di fame o che era senza lavoro, c’era poco per tutti e tutti avevano il necessario alla vita, ma era una società bloccata, che non si sviluppava. Il mondo moderno, che irrompe con le sue radio, televisioni, scuole, città frenetiche, industrie, distrugge l’ordine sociale tradizionale, la cultura e religione. Di qui la rivolta contro l’Occidente.
La “banca dei poveri” fa prendere coscienza del valore di ogni uomo. Nascono i nuovi leaders che stanno guidando le comunità tribali, non più orientati alla conservazione del passato, ma all’evoluzione della propria cultura per entrare nel mondo moderno