(da appunti dattiloscritti non rivisti da Giussani)
25 novembre 1982
La mia è una grande emozione perché non credevo di vedere un gruppo così folto a Pisa.
Io sono un po’ impacciato perché mi crea un disagio l’entrare così di improvviso in una realtà alla cui vita non mi è dato immediatamente di partecipare; non vorrei essere artificioso e astratto perché ha diritto di parlare alla nostra vita chi in qualche modo la condivida, però in “qualche modo” anch’io condivido la vostra vita.
Ma, in quale modo?
Adesso, sentendovi cantare due fra le più belle canzoni del Movimento (la “Nuova Auschwitz” e la “Ballata dell’uomo vecchio“) mi si inquietava un pò l’animo perché pensavo: questi canti li canto con lo stesso loro cuore ed essi esprimono il mio animo come possono esprimere il loro.
Quando avete cantato in la “Nuova Auschwitz”: “non è morto il male del mondo e noi tutti lo possiamo fare” avete cantato una cosa tremenda di cui il nostro tipo di esperienza e di coscienza fa particolarmente memoria; perché dire che “non è morto il male del mondo e noi tutti lo possiamo fare” significa dire una cosa cristiana che è la più profonda che si possa dire dell’uomo come uomo: nel catechismo si chiamava “peccato originale” e tradotto in termini semplici significa che l’uomo da solo non è capace di essere uomo. All’inizio di un anno, come in ogni inizio, il dovere dell’intelligenza è quello di richiamarsi lo scopo delle azioni che si stanno per intraprendere, del cammino che si sta per ricominciare, del tempo che si sta per passare.
Io credo che, innanzi tutto, quello che mi fa partecipare della vostra vita è, in modo più consapevole, se volete, più critico, ma esistenzialmente totalmente condividente le vostre tristezze, le vostre delusioni, le vostre umiliazioni e i vostri rimorsi, è, dicevo, proprio la coscienza di questa ricchezza poverissima che è la nostra vita di uomini, che si annida dentro o che sta nel cuore di quella parola che pronunciamo (senza pronunciarla) ad ogni azione consapevole: io.
Una “ricchezza poverissima”, direi miserabile. Una “ricchezza” perchè ha un impeto il cui termine, umanamente parlando, è addirittura ignoto (nel senso che ha un orizzonte senza fine).
Anche se campassimo due milioni di anni, tra un milione di anni avremo non risolto, ma aumentata la fame e sete di vita e di compiutezza o di felicità per cui ci alziamo, anche se non criticamente consapevoli, tutte le mattine. Una “ricchezza poverissima”, miserabile, perché è sempre sulla soglia, sul limitare di una caduta, è come sempre sulla soglia di una incompiutezza che è connivente. Come nel Vangelo di S. Giovanni è l’idea di peccato a cui vorrei alludere, nel suo significato per me più profondo che è il venir meno, è il segno noto di una incompiutezza; ma S. Giovanni va più alla radice della questione, usa la parola “menzogna”, cioè non vero.
E’ come se gli impeti nostri tendessero nella loro attuazione a non corrispondere alla verità dell’origine, ad essere “non veri”.
Comunque io capisco di dire cose a cui io sonò più abituato a riflettere che non voi, però il disagio di ciò che sto dicendo lo vivete voi forse più di me che posso essere un po’ irrigidito dall’età.
E’ una sofferenza, questa incompiutezza del proprio cuore (intendo per cuore quel progetto che le esigenze profonde che costituiscono il nostro volto interiore sempre determinano); perché l’esigenza dell’affezione produce il progetto o l’esigenza del giusto e del bello produce un progetto o l’esigenza della conoscenza che si attua (come) nel meccanismo della curiosità produce un progetto, progetti tutti come indipendenti (cfr. “Davanti a S. Guido” di G. Carducci).
Comunque quello che mi fa condividere la vostra vita è innanzi tutto, questo “sentimento” della mia umanità che nel suo aspetto profondo è come un impeto di vero, di bello, di giusto e praticamente, quotidianamente inadempiuto. E’ soltanto una grande obliterazione, è soltanto una grande dimenticanza o una grande distrazione che non permette di scoprire questo, quotidianamente; però quotidianamente noi sappiamo che c’è come qualcosa che resta, una reticenza anche dentro l’esplosione di una letizia, mentre la verità, una posizione vera, è là dove non sia necessario dimenticare o rinnegare qualcosa per mantenere e difendere tale letizia.
Al contrario l’errore per mantenersi e per difendersi ha sempre bisogno di rinnegare e di dimenticare qualcosa. Così anche la nostra letizia e la nostra esplosione di contentezza troppe volte lasciano perplessi perché sia la letizia che la contentezza hanno bisogno di dimenticare troppe cose, se non di rinnegare qualcosa per mantenersi, e allora, non sono più vere.
Come si arriva da una percezione della propria povertà o della propria incapacità, di questa ambiguità che abbiamo dentro (per cui diciamo: “ti voglio bene” e immediatamente decade come in un atteggiamento egoistico; oppure: abbiamo questa sete del Vero e la nostra ricerca, il nostro battito prende subito un corso dettato da un preconcetto, restando attaccati ad uno schema che abbiamo già in testa); come da questa situazione si può passare ad una gioia che nasce da uno sguardo all’esistenza e quindi a se stessi e a tutto il mondo senza che esso abbia bisogno di dimenticare o rinnegare niente?
Sul testo dell’equipe avrete certamente notato quel bellissimo brano di Rilke “Tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse un po’ come si tace una speranza ineffabile“; tutto cospira a farci dimenticare di noi stessi come si dimentica un’onta; questa è, in un poeta non cristiano, proprio l’idea del peccato originale con le notazioni che abbiamo rievocato. O “forse un po’ come si tace” (cioè si dimentica), dice, “una speranza ineffabile“. Non solo siamo portati a dimenticarci della nostra miseria, ma censuriamo anche un desiderio così grande che è impossibile.
Così è come se fossimo veramente spinti da tutte le parti a dimenticarci di quello che siamo, perché noi siamo proprio così: siamo il paradosso di un’onta e di una speranza ineffabile; il cuore dell’uomo, l’esistenza dell’uomo è così.
Che cosa può afferrare l’uomo e ricondurlo ad uno sguardo a sé che non abbia vergogna dell’onta e non abbia paura e perciò censuri una speranza troppo grande? (Il “sarebbe troppo bello!“).
La verità dell’uomo è come tesa tra questi due poli, per cui è come una cosa umilissima, ma non scoraggiata, perché lanciata, piena di desiderio.
Che cosa può ricondurci a guardare in faccia questa verità di noi stessi facendoci camminare con umiltà e nello stesso tempo con tua indomabile desiderio?
Che cosa può impedirci di andare fino alla fine di questa logica di dimenticanza, fino addirittura a definire che tutto è niente come quella grande espressione di Montale: “Forse un mattino andando in un’aria di vetro voltandomi vedrò compiersi il miracolo, il vuoto dietro di me, il nulla alle mie spalle, con un terrore di ubriaco. Poi s’accamperan di gitto alberi, case, colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto” che tutto è niente. Io me ne andrò zitto tra la gente che non si volta, che non capisce, che non riflette, che non guarda se stessa.
Questa tristissima nullificazione, per cui tutto è niente, (infatti ciò che si fa da sé, come nasce, muore, è niente) è l’estrema conseguenza di quella povertà miserabile di cui abbiamo parlato; ma non è uno scetticismo soltanto del grande spirito; è poi uno scetticismo che diventa molto pratico, un suggerimento molto pratico, per cui l’uomo fa ciò che gli pare e piace: perché è da quello scetticismo che l’uomo può venire disperato, ma può essere anche avvallato a fare ciò che gli pare e piace.
Che cosa da questa miseria, da questa ricchezza miserabile, da questa equivocità profonda, da questa possibilità così tesa, così incombente di menzogna da cui ci si salva con la distrazione o da cui si crede di salvarsi come in Montale, nella tristezza infinita di .questa bellissima poesia, definendo nulla tutto ciò che pure è (è una palese menzogna perché non può essere nulla ciò che è); che cosa, da tutto questo può renderci gioiosi, che cosa può rivelarci la verità dell’uomo in modo tale che in esso prevalga 1′ “indomabile speranza”?
La prima canzone che abbia fatto il Movimento è “Povera voce“.
Quando 25 anni fa cantavamo in gruppettini sparuti: “la nostra voce canta con un perché” non avevamo coscienza di proclamare un messaggio che negli anni che sarebbero passati sarebbe diventato veramente un messaggio di pochi, un messaggio raro, eccezionale: perché, astrattamente, teoricamente, tutti possono anche dire: “Io credo in Dio Padre Onnipotente”; ma che questo diventi cuore della vita, risuggerimento della vita, il centro per la vita; che questo diventi un motivo di vita, per quanto minimamente, ma consapevole, tendenzialmente critico, capace perciò di suggerire il motivo dei rapporti e il criterio dei rapporti: questo è di pochi.
“La nostra voce canta con un perché“: è come una profezia che ripetiamo, che siamo chiamati a ripetere; non cantiamo mai questo canto senza un’attenzione particolare; non è facile dire seriamente “peccato”, ognuno lo produce per se stesso, non c’è niente che come il peccato corrisponda alla natura del nostro cuore, della nostra vita. Allora come mai noi possiamo, pur consapevoli di quello che con il catechismo ho chiamato senza vergogna “peccato originale”, come possiamo passare al coraggio e alla gioia di affermare che la nostra voce? la voce cella nostra vita “canta con un perché“, ha un significato e perciò 1′ “indomabile speranza” è piena di ragione?
E non c’è contraddizione che la possa fermare; fra le espressioni più belle di S.Paolo è quella in cui descrive l’uomo cristiano che cammina sperando contro ogni speranza. Allora è questo il punto: che la verità sull’uomo nella sua interezza (perciò secondo il suo destino, la sua origine, la sua situazione) è stata recata nel mondo da un Uomo. Da quel giorno in cui, per un sentiero lungo il lago Genezareth, due giovani pescatori gli andarono dietro senza avere il coraggio di interloquirlo (e infatti fu Lui che, sentendosi pedinato si voltò e disse: “Che cosa volete?” e loro dissero: “Maestro, dove stai di casa?” e Lui rispose: “Venite a vedere” e andarono con Lui e rimasero tutto quel giorno. Poi tornarono e dissero, prima Andrea al fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia”); da quel giorno fino ad adesso questa è l’origine di una verità certa su di noi stessi e sull’uomo, fratello che troviamo amico o estraneo. Per questo, in noi, è come se avessimo riscoperto ed è come se riscoprissimo, perdonate, che in questo sta la nostra amicizia; per questo noi siamo messi insieme, ci rimettiamo continuamente insieme: per aiutarci a riprendere questa “memoria”, come ha detto Lui; ma a differenza della parola del vocabolario normale, memoria significa “riconoscimento di qualcosa di presente”, di una Realtà presente. Per questo noi quotidianamente cerchiamo di recuperare la coscienza di questa Presenza, senza la quale l’uomo o dimentica se stesso oppure si sente smarrito.
Per questo per noi la nostra compagnia è stata ed è continuamente un aiuto alla riscoperta di che cosa sia Cristo. Noi aderiamo a ciò che ci viene su dai secoli come un Annuncio e un Messaggio grande; noi aderiamo al contenuto di questo Messaggio, di questo Annuncio perché in qualche modo, come presentimento lontano, come percezione appena accennata o come esperienza già corposa, come esperienza già consistente, noi abbiamo, come dicevo, presentito, intuito o sperimentato che è nel rapporto con questa Presenza che la nostra vita di uomini diventa più chiara, diventa più luminosa, si fa capire di più; non abbiamo più timore di nulla, e cominciamo addirittura come ad attraversare la nostra ambiguità e la menzogna in cui tutto tende a degradare; ed è come un cammino in cui uno si sente umile perché: quanto manca all’orizzonte ultimo, quanto manca al destino ultimo! Ma ogni passo ci conduce.
Quando ho incominciato i primi gruppi mi sono fatto il proposito di dire una frase del Vangelo tutte le volte che parlavo, così io la ridico anche oggi per mantenere la promessa: “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù” E’ una indicazione estremamente semplice, ma sperimentabile: è un invito all’esperienza; è come se il messaggio che ci viene dato non potesse barare perché è una promessa che ti viene fatta: del centuplo quaggiù.
Spiegavo ai miei primi amici in classe: “centuplo quaggiù” significa che, seguendo questa Presenza, diventi cento volte più capace di voler bene a tuo padre e a tua madre, alla tua ragazza e al tuo ragazzo; cento volte di più cominci a gustare la ricerca del vero, lo studio, il lavoro; cento volte di più incominci a scoprire e ad amare gli amici e le persone che sarebbero state estranee, come normalmente avviene, diventano amiche; senti compagne tue le persone che gremiscono il tram che non ti degnano certo di uno sguardo e tu non sei estraneo a loro; e quanti nostri amici abbiamo visto non sentire più estranea neanche la morte, realizzando quello che in Carducci, nel bellissimo sonetto “S. Maria degli Angeli”, era come un disperato desiderio, quando egli esclamò rivolto a s. Francesco: “Potessi anch’io ripetere alla fine: Laudato sii o mi Signore per nostra còrporal sorella morte“.
Noi abbiamo visto in tutti questi decenni, non uno, non due, non tre, tanti: così che il dolore rimane come familiarità che non si perde più, come coscienza di una Presenza che ha soltanto da riscoprirsi come volto definitivo. “Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù“. Ma c’è una cosa peggiore della morte ed è il nostro male, permettetemi se lo richiamo, il nostro male, questa che a volte si sente bruciante incapacità ad essere veri. Dentro di questo penetra la Promessa che ci è stata fatta e noi non abbiamo più scandalo neanche del nostro male; il nostro male non ci definisce più, ciò che ci definisce è la speranza non in un nostro energumenismo, in un nostro volontarismo, ma in questa Presenza.
Per questo noi seguiamo questa Presenza che è l’unica che nella storia del pensiero umano abbia osato dire “Io sono la via, la verità e la vita”, un solo uomo “Io sono la via, la verità e la vita”; questo è il motivo per cui noi siamo insieme, questo è il motivo per cui ci rimettiamo insieme quest’anno, questo è lo scopo che ci prefiguriamo quest’anno: aiutarci, da qualunque punto partiamo, in qualunque stato d’animo ci troviamo, che noi abbiamo a camminare un po’ più dentro la familiarità con questa Presenza perché questa è la salvezza.
Salvare in latino si dice “servare” che in fondo vuol dire conservare, far essere, far sì che una cosa possa essere se stessa.
E’ quello che salva la vita che ci permette di essere vivi, cioè di essere uomini.
Quando, come spesso ancora cito, lo strumento di Giuliano l’Apostata, Vittorino, fece il discorso in cui improvvisamente annunciò la sua conversione dal paganesimo, di cui era il più grande e colto rappresentante, al cristianesimo, iniziò il suo discorso sul Rostro di Milano con queste parole: “Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo“. E’ per questo che noi aderiamo a ciò che ci è arrivato attraverso padre, madre, gli avi, attraverso questa stupenda e miracolosa o misteriosa storia della Chiesa, del popolo di Dio, di questa Presenza di Cristo nel tempo. Per questo riconosciamo e vogliamo aderire, vogliamo capire di più, vogliamo aderire con più consapevolezza e con più cuore, vogliamo aderire con una tenacia che non ci abbandoni alle ventate della nostra fragilità, che non ci disperda, per questo noi ci raduniamo in quel Nome (per usare un termine biblico), noi ci riuniamo in quel Nome anche quando non lo pronunciassimo, anche quando non ci pensassimo; ma questo è lo scopo come latente: esplicito o latente.
Ma voglio semplicemente, se mi perdonate, aggiungere una cosa.
Perché quest’anno non è l’anno scorso; quest’anno ci sono state delle circostanze, ci sono delle circostanze che lo qualificano in modo diverso che non l’anno scorso; ogni momento della storia se è vero lo è in una diversità degli istanti precedenti.
Ora quest’anno abbiamo avuto una eccezionale esperienza, quando abbiamo sentito il discorso che il Papa ci ha rivolto a Rimini.’
Quel discorso è una pietra miliare nella storia della nostra coscienza di uomini e di cristiani e se dovessimo porci la domanda: quale scopo il Papa ha dato alla nostra compagnia in quel discorso? resteremmo sorpresi, come lo siamo stati a Rimini, quando lui ha detto che lo scopo della nostra compagnia con tutto il suo indaffararsi, con tutte le sue iniziative, lo scopo è quello di creare una nuova civiltà, una civiltà – letteralmente dice – “della verità e dell’amore”.
Ma è stato uno shock sentir dire che lo scopo della fede o lo scopo dell’impegno cristiano fosse una “nuova civiltà”, perché una nuova civiltà non riguarda l’anima, non riguarda il Paradiso; la civiltà è una cosa del tempo e dello spazio, è una cosa che riguarda la carne e le ossa; è una cosa che riguarda i rapporti tra gli uomini e i rapporti degli uomini con le cose.
La civiltà è una modalità per guardare e giudicare il passato per utilizzarne le ricchezze nel presente, per costruire nel presente, per lanciare il progetto del futuro; la civiltà è una cosa di questo mondo e Lui ha tanto insistito e, non differentemente da quanto abbiamo fatto noi oggi, ha promesso a questo eccezionale invito una nota circa questa terribile situazione dell’uomo moderno, che ha raccolto tutte, le sue energie per sottomettere il mondo ai suoi scopi e non ci è riuscito: anzi, quanto più ha usato le sue energie per sottomettere il mondo, tanto più ha creato una situazione disumana nel mondo. Una contraddizione tremenda: è l’espressione più clamorosa del peccate originale, diremo secondo il linguaggio di prima. Una contraddizione che sembra inguaribile, dice il Papa, per la inesorabilità del male dell’uomo.
Allora che cosa occorre fare per salvare l’uomo, per rendere questa vita più umana?
Il Papa dice che “bisogna che noi andiamo a guardare all’Artefice della nostra Salvezza”, vale a dire stringerci intorno a Cristo per costruire una civiltà della Verità e dell’Amore. Da questa contraddizione, che sembra inarrestabile perché strutturalmente connessa al mistero del mie, è necessario che lo sguardo si volga “all’Artefice della nostra Salvezza” per generare una civiltà che nasca dalla verità e dall’amore!
Descrive in tre categorie la situazione di tutta la gente:
- “Per non agonizzare”; agonia è lo stentato sopravvivere;
- “Per non spegnersi nell’egoismo sfrenato”; la stragrande maggioranza che fa? Si spegne, spegne l’essere cosciente; spegne il cuore vivente nella distrazione dell’egoismo. E tutta la società è come una grande articolazione premurosa e ansiosa di provocare questa distrazione da sé: “Tutto cospira alla dimenticanza di sé come si dimentica un’onta o forse come si dimentica una speranza ineffabile” cioè inarrivabile, come dice Rilke. “Per non spegnersi nell’egoismo sfrenato“: le nostre giornate se non si ricordano di questo si spengono nell’egoismo sfrenato a meno che agonizzino o sopravvivano stentatamente.
- “Per non spegnersi all’insensibilità cieca al dolore degli altri”.
Le meschinità familiari, nell’ambito degli amici, nell’ambito del club o nell’ambito del paese, nell’ambito delle consorterie, dei comuni interessi, nell’ambito delle nazioni, dei partiti, degli schieramenti internazionali, tutto chiuso “nell’insensibilità cieca al dolore altrui”. E’ una cosa terribile come noi tutti, tutto l’Occidente, abbia sopportato con tranquillità ignobile la faziosità con cui è stato dapprima citato il Vietnam, poi dimenticato il Biafra o dimenticato il Vietnam perché aveva cambiato colore, od esaltato il Nicaragua o El Salvador, dimenticato l’Afghanistan e sottolineato altri momenti di dolore con una faziosità assoluta nell’insensibilità cieca al dolore degli altri .
“Fratelli e sorelle, costruite senza stancarvi mai questa civiltà. E’ la consegna che oggi vi lascio. Lavorate per questo, pregate per questo, soffrite per questo!“. Amici miei: lo scopo di quest’anno è segnato; il programma è segnato; proprio quel ritrovare noi stessi che ci faccia vivere la vita cento volte meglio, gustare la vita cento volte di più, non essere bloccati e scandalizzati dal nostro male: questo ritrovamento di sé ha uno scopo più grande che è quello di creare una civiltà della verità e dell’amore. Una civiltà: guardate come spiega il Papa, in un brano precedente tutto questo: che cosa vuol dire creare una civiltà della verità e dell’amore.
“La fede vissuta rende capaci di creare nuove forme di vita per l’uomo“. Ecco cos’è la civiltà della verità e dell’amore! La civiltà è una trama di nuove forme di vita. Abbiamo la consegna di creare nuove forme di vita, per l’uomo. Anzi, dopo dice, in modo mirabile: “Nuove forme di vita dove gli uomini siano pieni di desiderio di comunicare, di conoscere, di incontrare, di valorizzare“. La caratteristica di queste nuove forme di vita sta nel fatto che gli uomini che si sono dentro siano desiderosi di partecipare se stessi (comunicare), partecipare sì, cioè condividere; desiderosi di conoscere, perciò di essere leali nell’amore a scoprire la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, non secondo parzialità faziose, secondo preconcetti ideologici che restringono l’ampiezza di tutti i fattori che sono in gioco, (come fanno adesso: l’idea di uomo o di donna così degradatamele ridotta a biologia e a reattività; la politica così obbrobriosamente ricondotta alla affermazione accanita di una parte, così che “gli altri” sono tutti “fascisti” perché non la pensano come loro): uomini desiderosi di conoscere la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, capaci di incontrare.
L’incontro segna un rapporto che mi ha lasciato qualcosa dentro; perciò essere capaci di incontrare vuol dire capaci di seguire, di stare insieme, di ospitare (incontra veramente chi ospita, cioè chi sta insieme, chi si fa amico, chi si fa compagno) e di valorizzare; a differenza di tutti (se tu vali dieci e sbagli uno, ti condannano perché sbagli uno; esattamente l’opposto di Dio che, se tu sbagli 999 e fai uno su mille un po’ buono, ti dice “coraggio”, e costruisce su quell’uno su mille); la capicità di valorizzare, di imparare da tutto, di sollecitare tutti; di essere positivamente collaboratori di tutto: ragazzi, questo è il compito che ci ha dato il Papa. La civiltà nuova vuol dire creare nuove forme di vita per l’uomo, in cui all’uomo siano date queste quattro caratteristiche che studierete nella Scuola di Comunità.
Ma che cosa sono queste nuove forme di vita? Guido non lo conoscevo: ora siamo amici: questa è una nuova forma di vita; siete in classe; avete passato quattro anni nella scuola o due o tre rimanendo, come ho detto prima, totalmente estranei l’uno all’altro anche se eravate nello stesso banco, salvo la meschina connivenza dei compiti da fare o di qualche interesse in comune oltre a passare il tempo; invece, col dire : “Amico, abbiamo lo stesso destino, abbiamo la stessa fede”, oppure, “dobbiamo lavorare per l’uomo, per gli uomini dobbiamo diventar migliori, aiutiamoci a diventare migliori, camminiamo insieme”, nasce la comunità di istituto, di classe. Siete in 2 su 1000? Ho incominciato con 4 ragazzetti su 1200 e non erano miei scolari, erano in quarta ginnasio! Non importa! Ma questa è una nuova civiltà che incomincia ad emergere.
Oppure: fate una gita, a cui avete invitato i vostri amici e la impostate in modo diverso, più umano: questa è una piccola trama di una nuova forma di vita. Avete studiato insieme per aiutare il compagno che non riesce a studiare da solo: questa è nuova forma di vita; imparate da questo e provate a tornare a casa vostra e a guardare vostro padre e vostra madre, anche se sono pesanti, incomprensivi, anche se litigano fra loro (scusate l’ipotesi); a guardare vostro padre e vostra madre con un pensiero nuovo: che sono persone come voi, poveri esseri umani come voi. Perciò ecco la prima pietà, la prima comprensione verso loro; E quando, anche con fatica, prendete qualche spunto di aiuto maggiore in casa o di attenzione maggiore o anche il coraggio di una parola buona che non avete mai detto: questo è l’inizio di una nuova forma di vita. Le comunità, le cosiddette comunità che abbiamo creato, dovrebbero essere questa nuova forma di vita, anche se provvisoriamente esemplificata.
Create nell’università un punto di riferimento diverso; poi ritornate al vostro paese e magari con pochi amici ripetete e rivivete queste cose: è una nuova forma di vita nel vostro paese. Non si può saltare la prossimità, e moltiplicando queste esemplificazioni è come una rete che si dilata; ma chi andava a sapere, 25 anni fa, che mi sarei trovato a Pisa con tante persone a parlare di quello che viviamo in comune tutti. Era assolutamente inconcepibile e inimmaginabile, quando mi sono messo con quei quattro ragazzetti.
Ma l’esito di questa dilatazione non è un progetto nostro, è un desiderio per passione degli uomini, non per passione della propria idea.
Perciò, se volete, la consegna che ci ha dato il Papa innanzi tutto significa dei rapporti nuovi tra noi, una capacità di comunicare, un desiderio di comunicare, di conoscere, leale, obiettivo, di incontrare, cioè di ospitare e di accompagnare, di valorizzare, perdonando, rintuzzando e attraversando le antipatie o le malavoglie, valorizzando anche quel poco che si crede di vedere in tanto male o in tanto peso che una persona può rappresentare nell’ambito in cui viviamo. E’ una realtà nuova tra di noi. Ma credete forse che sia automatico per me il piombare da lontano e mettermi a parlare a persone estranee? Anche per il mio temperamento è veramente una cosa faticosissima. Sarebbe! Adesso lo è cento volte di meno, perché, anche se voi, perdonate, mi rideste in faccia, non mi siete più estranei e nessuno più vi toglie dall’orizzonte del mio animo. E questa è una nuova forma di vita!
Allora impareremo, in questo frangente della nostra esistenza, in questo frangente giovanile, ad avere un’intelligenza, una immaginazione ed un cuore che riuscirà magari a portare questa capacità di creazione di nuove forme di vita nei nostri paesi, nella realtà del lavoro; più ampia del lavoro, nella realtà politica (nel senso “grande” del termine). Il Papa ha indicato anche che cosa dobbiamo fare, cioè il metodo per arrivare a questo. Il metodo è la FEDE.
Cos’è la Fede? E’ riconoscere fra noi una Presenza di qualcosa di più grande che ha un nome: CRISTO, realmente presente tra noi, che investe il tempo e lo spazio (e nessuno lo fermerà). Ma il suo volto fisico, la forma fisica della sua presenza è la nostra unità, è la nostra compagnia come emergenza, come momento della grande compagnia che si chiama Corpo di Cristo; il Corpo di Cristo nella storia, la CHIESA; ma che cosa sarebbe la Chiesa se noi non la vivessimo nella nostra compagnia?
Il Papa ci disse, come ho scritto nella lettera dopo il Meeting, ci disse quando andammo a trovarlo prima del Meeting: “Voi siete senza patria” ed io ho capito molto tempo dopo cosa voleva dire, perché non è vero che il cristianesimo è senza patria; se il cristianesimo è istituzione, se il cristianesimo è autorità ecclesiastica, se il cristianesimo è sacramenti, pietà e liturgia, forma di pietà, se il cristianesimo è associazioni, questo cristianesimo è accettato dappertutto, perfino in Russia, in Cecoslovacchia, anche nell’est. Anzi all’est, a volte il prete, l’autorità ecclesiastica, è tra gli “impiegati” dello stato pagati meglio; se il cristianesimo fosse questo, la patria l’avrebbe dappertutto.
Quando il cristianesimo è senza patria? Il cristianesimo non è accettato quando ritorna ad essere quello che è; quando ritorna al suo cuore, quando ritorna ad essere il contenuto vero del suo annuncio, che è questo: c’è fra noi Dio; Dio è diventato una realtà umana, un uomo, e prosegue nella storia, ed è tra noi la sua forma umana. Noi tutti siamo piccoli, ma se fossimo cento volte più meschini, tra di noi c’è Qualcuno di più grande. Un extraparlamentare, un compagno di Guido dell’università Statale, ha detto: “La vostra compagnia non mi piace, ma c’è Qualcosa tra voi che mi tiene qui”; c’è Qualcosa di più che mi tiene qui.
Quello aveva esplicitato, espresso questo.
1) La Fede vissuta come riverbero dei primi incontri documentati nel Vangelo (gli incontri di Andrea e di Giovanni).
La Fede inizia e continua come continuità di quei primi incontri. E’ un incontro che rende la Fede matura, cioè capace di generare, non infantile: è un incontro! La nostra compagnia è questo incontro. In modo così diverso per ognuno, secondo l’età di ognuno: ma la nostra compagnia è questo incontro. Perciò anche qui non dico “ho fatto un incontro oggi” se non è stato qualcosa che mi è rimasto; un incontro è qualcosa che mi è rimasto. Perciò la. Fede vissuta come riverbero e continuità dei primi incontri documentati nel Vangelo vuol dire la Fede vissuta come sequela: il seguire la compagnia che abbiamo incontrato.
2) La Fede vissuta come certezza. Ma la certezza è un’opera dell’intelligenza, è un cammino dell’intelligenza; vuol dire che quello che la compagnia e l’incontro ci hanno detto, dobbiamo cercare di verificarlo, renderlo vero, trovarlo vero, applicandolo a tutti gli interessi della vita. Dalla mattina quando ci alziamo, allo studio che facciamo, all’amico che incontriamo, all’estraneo in cui ci imbattiamo, alla ragazza a cui vogliamo bene, ai genitori con cui stiamo. Allora vediamo che tutte queste cose possono essere vissute cento volte meglio, più umanamente e ciascuno diventa più umano, non ha più paura, non è con la testa rovesciata e fissata sul suo male passato; e il futuro non gli fa più paura, ma con speranza indomita cammina e se cade mille volte al giorno, mille volte si riprende. Una cosa dell’altro mondo, vale a dire: è un altro mondo, ma in questo mondo!
3) La Fede vissuta come domanda della presenza di Cristo in ogni occasione e situazione. Questo triplice fattore di metodo ci ha detto il Papa: il primo esterno, l’incontro e la sequela della compagnia; il seconde che è l’impegno di sé con la compagnia (verifica), la certezza che diventa una cosa tanto più certa quanto più applicabile, si vuole applicare. Il terzo: dà dentro il cuore, la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione ed occasione; così la preghiera non è più una cosa pietistica, ma diventa il contenuto della coscienza, il contenuto dell’autocoscienza, della coscienza di sé, abituale quasi com’è abituale la simpatia con cui dico “io”, anzi a volte di più (perché tante volte quando dico “io” non lo dico con simpatia). Allora si capisce che quello che chiamo preghiera è ‘ come un grido della propria carne vivente e può avvenire a scuola, dovunque, tacito: la domanda che Cristo diventi presente, si manifesti per rendere l’umanità più umana, per rendere me stesso più uomo, per rendere più vera la trama di rapporti della società, perché si crei una civiltà nuova.
Forse quello che ci occorre è un pizzico di eticità vera; dobbiamo essere morali; almeno un filo di moralità vera e la moralità è aderire a quell’impeto per cui la natura, la nostra madre, ci fanno nascere tesi a Qualcosa di più grande.
Anche sul testo dell’équipe c’è una frase di Kafka: “Non buttarsi via; anche se la salvezza non viene, voglio però essere degno ad ogni momento“.
Questa in fondo è una traduzione laica di quello che Cristo nel Vangelo chiama vigilanza, essere all’erta, essere vivi. La nostra compagnia quest’anno ci deve rendere, più vivi senza lasciarci abbandonare mai allo smarrimento, al sonno o più generalmente a quella cosa terribile che svuota l’uomo e svuota il mondo: la dimenticanza.