COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
ALLA RICERCA DI UN’ETICA UNIVERSALE:
NUOVO SGUARDO SULLA LEGGE NATURALE
* * *
CAPITOLO II: LA PERCEZIONE DEI VALORI MORALI
Tali comportamenti etici definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di una vita «secondo natura», cioè conforme all’essere profondo del soggetto umano. D’altra parte, alcuni comportamenti sono universalmente riconosciuti come oggetto di riprovazione: uccisione, furto, menzogna, collera, cupidigia, avarizia.
Questi appaiono come attentati alla dignità della persona umana e alle giuste esigenze della vita in società. Si è giustificati dunque nel vedere, attraverso tali consensi, una manifestazione di ciò che, al di là delle diverse culture, è l’umano nell’essere umano, cioè la «natura umana». Ma, al tempo stesso, si deve constatare che tale accordo sulla qualità morale di alcuni comportamenti coesiste con una grande varietà di teorie esplicative.
Si tratti delle dottrine fondamentali degli Upanishads per l’induismo, o delle quattro «nobili verità» per il buddismo, o del Dào di Lao-Tse, o della «natura» degli stoici, ogni sapienza o ogni sistema filosofico comprende l’agire morale all’interno di un quadro esplicativo generale che intende legittimare la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male. Abbiamo a che fare con una varietà di giustificazioni che rende difficile il dialogo e la fondazione di norme morali.
37. Tuttavia, indipendentemente dalle giustificazioni teoriche del concetto di legge naturale, è possibile scoprire i dati immediati della coscienza di cui esso vuole rendere conto. L’oggetto di questo capitolo è precisamente mostrare come si colgano i valori morali comuni che costituiscono la legge naturale. Vedremo poi come il concetto di legge naturale si basi su un quadro esplicativo che fonda e legittima i valori morali, in modo da poter essere condiviso da molti.
Per fare questo, appare particolarmente pertinente la presentazione della legge naturale in san Tommaso d’Aquino, perché, fra l’altro, colloca la legge naturale all’interno di una morale che sostiene la dignità della persona umana e riconosce la sua capacità di discernimento (44).
2.1. Il ruolo della società e della cultura
38. La persona umana soltanto progressivamente accede all’esperienza morale e diventa capace di dare a se stessa i precetti che devono guidare il suo agire. Vi giunge nella misura in cui, fin dalla nascita, è stata inserita in una rete di relazioni umane, a cominciare dalla famiglia, che le hanno consentito, a poco a poco, di prendere coscienza di se stessa e del reale che la circonda.
Ciò avviene in particolare con l’apprendimento di una lingua — la lingua materna — che insegna a nominare le cose e consente di diventare un soggetto consapevole di sé. Orientata dalle persone che la circondano, impregnata dalla cultura in cui è immersa, la persona riconosce certi modi di comportarsi e di pensare come valori da perseguire, leggi da osservare, esempi da imitare, visioni del mondo da accogliere.
Il contesto sociale e culturale esercita dunque un ruolo decisivo nell’educazioni ai valori morali. Tuttavia non si possono opporre tali condizionamenti alla libertà umana. Questi piuttosto la rendono possibile, perché attraverso di essi la persona può accedere all’esperienza morale, che eventualmente le consentirà di rivedere alcune delle «evidenze» che aveva interiorizzato nel corso del suo apprendistato morale.
D’altra parte, nel contesto della globalizzazione attuale, le società e le culture stesse devono inevitabilmente praticare un dialogo e uno scambio sinceri, fondati sulla corresponsabilità di tutti nei confronti del bene comune del pianeta: devono lasciare da parte gli interessi particolari per accedere ai valori morali che tutti sono chiamati a condividere.
2.2. L’esperienza morale: «Bisogna fare il bene»
39. Ogni essere umano che accede alla coscienza e alla responsabilità fa l’esperienza di una chiamata interiore a compiere il bene. Scopre di essere fondamentalmente un essere morale, capace di percepire e di esprimere il richiamo che, come si è visto, si trova all’interno di tutte le culture: «Bisogna fare il bene ed evitare il male». Su tale precetto si fondano tutti gli altri precetti della legge naturale (45).
Questo primo precetto è conosciuto naturalmente, immediatamente, con la ragione pratica, così come il principio di non contraddizione (l’intelligenza non può, simultaneamente e sotto il medesimo aspetto, affermare e negare una cosa di un soggetto), che è alla base di ogni ragionamento speculativo, è colto intuitivamente, naturalmente, con la ragione teorica, quando il soggetto comprende il senso dei termini usati. Tradizionalmente, tale conoscenza del principio primo della vita morale è attribuita a una disposizione intellettuale innata che si chiama la sinderesi (46).
40. Con questo principio, ci collochiamo immediatamente nell’ambito della moralità. Il bene che così si impone alla persona è infatti il bene morale, cioè un comportamento che, superando le categorie dell’utile, va nel senso della realizzazione autentica di quell’essere, insieme uno e diversificato, che è la persona umana.
L’attività umana è irriducibile a una semplice questione di adattamento all’«ecosistema»: essere umano significa esistere e collocarsi all’interno di un quadro più ampio che definisce un senso, valori e responsabilità. Ricercando il bene morale, la persona contribuisce alla realizzazione della sua natura, al di là degli impulsi dell’istinto o della ricerca di un piacere particolare. Questo bene rende testimonianza a se stesso ed è compreso a partire da se stesso (47).
41. Il bene morale corrisponde al desiderio profondo della persona umana che — come ogni essere — tende spontaneamente, naturalmente, verso ciò che la realizza pienamente, verso ciò che le consente di raggiungere la perfezione che le è propria, la felicità. Purtroppo il soggetto può sempre lasciarsi trascinare da desideri particolari e scegliere beni o porre gesti che vanno contro il bene morale che riconosce.
Può rifiutare di superarsi. È il prezzo di una libertà limitata in se stessa e indebolita dal peccato, una libertà che incontra soltanto beni particolari, nessuno dei quali può soddisfare pienamente il cuore dell’essere umano. Spetta alla ragione del soggetto esaminare se questi beni particolari possono integrarsi nella realizzazione autentica della persona: in tal caso saranno giudicati moralmente buoni e, in caso contrario, moralmente cattivi.
42. Quest’ultima affermazione è capitale. Fonda la possibilità di un dialogo con le persone appartenenti ad altri orizzonti culturali o religiosi. Valorizza l’eminente dignità di ogni persona umana sottolineandone la naturale disposizione a conoscere il bene morale che deve compiere.
Come ogni creatura, la persona umana si definisce con un fascio di dinamismi e di finalità che è anteriore alle libere scelte della volontà. Ma, a differenza degli esseri che non sono dotati di ragione, essa è capace di conoscere e di interiorizzare tali finalità e, quindi, di valutare, in funzione di esse, ciò che per lei è buono o cattivo.
Così riconosce la legge eterna, cioè il piano di Dio sul creato, e partecipa alla provvidenza di Dio in modo particolarmente eccellente, guidando se stesso e guidando gli altri (48). Questa insistenza sulla dignità del soggetto morale e sulla sua relativa autonomia si fonda sul riconoscimento dell’autonomia delle realtà create e raggiunge un dato fondamentale della cultura contemporanea (49).
43. L’obbligo morale che il soggetto riconosce non proviene dunque da una legge che gli sarebbe esteriore (pura eteronomia), ma si afferma a partire da lui stesso. Infatti, come indica la massima che abbiamo citato — «Bisogna fare il bene ed evitare il male» —, il bene morale determinato dalla ragione «si impone» al soggetto. Esso «deve» essere compiuto. Riveste un carattere di obbligazione e di legge. Ma il termine «legge» qui non rinvia né alle leggi scientifiche, che si limitano a descrivere le costanti di fatto del mondo fisico o sociale, né a un imperativo imposto arbitrariamente dall’esterno al soggetto morale.
La legge designa qui un orientamento della ragione pratica che indica al soggetto morale quale tipo di agire sia conforme al dinamismo innato e necessario del suo essere che tende alla sua piena realizzazione. Questa legge è normativa in virtù di un’esigenza interna allo spirito. Essa nasce dal cuore stesso del nostro essere come un invito alla realizzazione e al superamento di sé. Non si tratta dunque di sottomettersi alla legge di un altro, ma di accogliere la legge del proprio essere.
2.3. La scoperta dei precetti della legge naturale: universalità della legge naturale
44. Una volta posta l’affermazione di base che introduce nell’ordine morale — «Bisogna fare il bene ed evitare il male» — vediamo come avviene nel soggetto il riconoscimento delle leggi fondamentali che devono regolare l’agire umano. Tale riconoscimento non consiste in una considerazione astratta della natura umana, e neppure nello sforzo di concettualizzazione, che poi sarà proprio della teorizzazione filosofica e teologica.
La percezione dei beni morali fondamentali è immediata, vitale, fondata sulla connaturalità dello spirito con i valori e impegna sia l’affettività sia l’intelligenza, sia il cuore sia lo spirito. È un’acquisizione spesso imperfetta, ancora oscura e crepuscolare, ma che ha la profondità dell’immediatezza. Si tratta qui di dati dell’esperienza più semplice e più comune, che sono impliciti nell’agire concreto delle persone.
45. Nella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua natura, le quali sono altra cosa che semplici spinte cieche del desiderio. Avvertendo che i beni verso i quali tende per natura sono necessari alla sua realizzazione morale, formula a se stessa, sotto la forma di comandi pratici, il dovere morale di attuarli nella propria vita. Esprime a se stessa un certo numero di precetti molto generali che condivide con tutti gli esseri umani e che costituiscono il contenuto di quella che si chiama legge naturale.
46. Si distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali che agiscono nella persona umana (50). Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l’inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie.
Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l’inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società. A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare.
47. Per uscire da questa generalità e chiarire le scelte concrete da fare, bisogna ricorrere alla ragione discorsiva, che determina quali sono i beni morali concreti in grado di realizzare la persona — e l’umanità — e formula precetti più concreti capaci di guidare il suo agire. In questa nuova tappa la conoscenza del bene morale procede per ragionamento.
Esso all’origine è molto semplice: gli è sufficiente una limitata esperienza di vita e si mantiene all’interno delle possibilità intellettuali di ciascuno. Si parla qui dei «precetti secondi» della legge naturale, scoperti grazie a una più o meno lunga considerazione della ragione pratica, per contrasto con i precetti generali fondamentali che la ragione coglie spontaneamente e che sono chiamati «precetti primi» (51).
2.4. I precetti della legge naturale
48. Abbiamo identificato nella persona umana una prima inclinazione, che essa condivide con tutti gli esseri: l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Nei viventi c’è abitualmente una reazione spontanea dinanzi a una minaccia imminente di morte: si sfugge ad essa, si difende l’integrità della propria esistenza, si lotta per sopravvivere.
La vita fisica appare naturalmente come un bene fondamentale, essenziale, primordiale: da qui il precetto di proteggere la propria vita. Sotto l’enunciazione della conservazione della vita si profilano inclinazioni verso tutto ciò che contribuisce, in modo proprio all’uomo, al mantenimento e alla qualità della vita biologica: integrità del corpo; uso dei beni esterni che assicurano la sussistenza e l’integrità della vita, come il nutrimento, il vestito, l’alloggio, il lavoro; la qualità dell’ambiente biologico…
A partire da queste inclinazioni, l’essere umano si propone fini da realizzare, che contribuiscono allo sviluppo armonioso e responsabile del proprio essere e, quindi, gli appaiono come beni morali, valori da perseguire, obblighi da compiere e anche diritti da far valere. Infatti il dovere di preservare la propria vita ha come correlativo il diritto di esigere ciò che è necessario alla sua conservazione in un ambiente favorevole (52).
49. La seconda inclinazione, che è comune a tutti i viventi, riguarda la sopravvivenza della specie che si realizza con la procreazione. La generazione si inscrive nel prolungamento della tendenza a perseverare nell’essere. Se la perpetuità dell’esistenza biologica è impossibile all’individuo, è possibile per la specie e così, in una certa misura, si supera il limite inerente a ogni essere fisico. Il bene della specie appare così come una delle aspirazioni fondamentali presenti nella persona.
Ne prendiamo coscienza in particolare nel nostro tempo, quando certe prospettive come il riscaldamento climatico ravvivano il nostro senso di responsabilità dinanzi al pianeta come tale e alla specie umana in particolare. Questa apertura a un certo bene comune della specie annuncia già alcune aspirazioni proprie dell’uomo. Il dinamismo verso la procreazione è intrinsecamente legato all’inclinazione naturale che conduce l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo, dato universale riconosciuto in tutte le società.
Lo stesso avviene per l’inclinazione a prendersi cura dei figli e a educarli. Tali inclinazioni implicano che la permanenza della coppia dell’uomo e della donna e anche la loro fedeltà reciproca sono già valori da perseguire, anche se potranno manifestarsi pienamente soltanto nell’ordine spirituale della comunione interpersonale (53).
50. Il terzo insieme di inclinazioni è specifico dell’essere umano come essere spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia. Perciò bisogna riconoscergli una particolare importanza. L’inclinazione a vivere in società deriva anzitutto dal fatto che l’essere umano ha bisogno degli altri per superare i propri limiti individuali intrinseci e raggiungere la maturità nei diversi ambiti della sua esistenza.
Ma per manifestare pienamente la sua natura spirituale, ha bisogno di stringere con i suoi simili relazioni di amicizia generosa e di sviluppare un’intensa cooperazione per la ricerca della verità. Il suo bene integrale è così intimamente legato alla vita in comunità, che si organizza in società politica in forza di un’inclinazione naturale e non di una semplice convenzione (54).
Il carattere relazionale della persona si esprime anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o l’Assoluto. Essa si manifesta nel sentimento religioso e nel desiderio di conoscere Dio. Certamente, può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere l’esistenza di un Dio personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del senso presente in ogni essere umano.
51. A queste tendenze specifiche dell’uomo corrisponde l’esigenza avvertita dalla ragione di realizzare concretamente questa vita di relazione e di costruire la vita in società su basi giuste che corrispondano al diritto naturale. Ciò implica il riconoscimento della pari dignità di ogni individuo della specie umana, al di là delle differenze di razza e di cultura, e un grande rispetto per l’umanità dove essa si trova, anche nel più piccolo e nel più disprezzato dei suoi membri.
«Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Ritroviamo qui la regola d’oro, che oggi è posta come principio stesso di una morale della reciprocità. Il primo capitolo ci ha consentito di trovare la presenza di questa regola nella maggior parte delle sapienze come anche nel Vangelo stesso. San Girolamo manifestava l’universalità di parecchi precetti morali riferendosi a una formulazione negativa della regola d’oro.
«È giusto il giudizio che Dio scrive nel cuore del genere umano: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo ad altri”. Chi non sa che l’omicidio, l’adulterio, i furti e ogni tipo di cupidigia sono il male, poiché non vorremmo che ciò fosse fatto a noi? Se non sapessimo che queste cose sono cattive, non ci lamenteremmo mai quando ci sono inflitte» (55).
Alla regola d’oro si collegano diversi comandamenti del Decalogo, come pure molti precetti buddisti, e anche molte delle regole confuciane, o ancora la maggior parte degli orientamenti delle grandi Carte che indicano i diritti della persona.
52. Al termine di questa rapida esposizione dei princìpi morali che derivano dalla presa in considerazione, da parte della ragione, delle inclinazioni fondamentali della persona umana, siamo in presenza di un insieme di precetti e di valori che, almeno nella loro formulazione generale, si possono considerare come universali, poiché si applicano a tutta l’umanità.
Essi inoltre rivestono un carattere di immutabilità nella misura in cui derivano da una natura umana le cui componenti essenziali rimangono identiche nel corso della storia. Tuttavia può accadere che siano oscurate o anche cancellate dal cuore umano a motivo del peccato e dei condizionamenti culturali e storici che possono influenzare negativamente la vita morale personale: ideologie e propagande insidiose, relativismo generalizzato, strutture di peccato (56).
Bisogna dunque essere modesti e prudenti quando si invoca l’«evidenza» dei precetti della legge naturale. Ma si deve ugualmente riconoscere in questi precetti il fondo comune su cui si può basare un dialogo in vista di un’etica universale. I protagonisti di questo dialogo però devono imparare a non considerare i propri interessi particolari per aprirsi ai bisogni degli altri e lasciarsi interpellare dai valori morali comuni.
In una società pluralista, in cui è difficile intendersi sui fondamenti filosofici, questo dialogo è assolutamente necessario. La dottrina della legge naturale può portare il suo contributo a tale dialogo.
2.5. L’applicazione dei precetti comuni: storicità della legge naturale
53. È impossibile rimanere al livello generale che è quello dei princìpi primi della legge naturale. Infatti la riflessione morale ha bisogno di calarsi nel concreto dell’azione per gettarvi la sua luce. Ma quanto più affronta situazioni concrete, tanto più le sue conclusioni sono caratterizzate da una nota di variabilità e di incertezza.
Non è strano quindi che l’applicazione concreta dei precetti della legge naturale possa assumere forme differenti nelle diverse culture, o anche in epoche diverse all’interno di una stessa cultura. È sufficiente ricordare l’evoluzione della riflessione morale su questioni come la schiavitù, il prestito a interesse, il duello o la pena di morte.
A volte, tale evoluzione conduce a una migliore comprensione della richiesta morale. A volta anche, l’evoluzione della situazione politica o economica conduce a una nuova valutazione di norme particolari che erano state stabilite precedentemente. Infatti la morale si occupa di realtà contingenti che si evolvono nel tempo.
Benché sia vissuto in un’epoca di cristianità, un teologo come san Tommaso d’Aquino ne aveva una percezione molto netta. «La ragione pratica — scriveva nella Summa Theologiae — si occupa di realtà contingenti, nelle quali si attuano le azioni umane. Perciò, benché nei princìpi generali ci sia qualche necessità, quanto più si affrontano le cose particolari, tanto più c’è indeterminazione […]. Nell’ambito dell’azione la verità o la rettitudine pratica non sono le stesse in tutti nelle applicazioni particolari, ma soltanto nei princìpi generali; e in coloro per i quali la rettitudine è identica nelle proprie azioni, essa non è conosciuta ugualmente da tutti. […] E qui, quanto più si scende nei particolari, tanto più aumenta l’indeterminazione» (57).
54. Tale prospettiva rende conto della storicità della legge naturale, le cui applicazioni concrete possono variare nel tempo. Nello stesso tempo, apre una porta alla riflessione dei moralisti, invitando al dialogo e alla discussione. Questo è tanto più necessario, perché in morale la pura deduzione per sillogismo non è adeguata.
Quanto più il moralista affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione. Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc.
Il moralista (questa è la difficoltà del suo lavoro) deve ricorrere alle risorse combinate della teologia, della filosofia, come pure delle scienze umane, economiche e biologiche per riconoscere bene i dati della situazione e identificare correttamente le esigenze concrete della dignità umana. Al tempo stesso, egli dev’essere particolarmente attento a salvaguardare i dati di base espressi con i precetti della legge naturale che rimangono al di là delle variazioni culturali.
2.6. Le disposizioni morali della persona e il suo agire concreto
55. Per giungere a una giusta valutazione delle cose da fare, il soggetto morale dev’essere dotato di un certo numero di disposizioni interiori che gli consentano di essere aperto alle richieste della legge naturale e insieme ben informato sui dati della situazione concreta. Nel contesto del pluralismo, che è il nostro, siamo sempre più consapevoli del fatto che non si può elaborare una morale fondata sulla legge naturale senza unirvi una riflessione sulle disposizioni interiori o virtù che rendono il moralista adatto a elaborare un’adeguata norma di azione.
Ciò è ancora più vero per il soggetto impegnato personalmente nell’azione e che deve formulare un giudizio di coscienza. Perciò non è strano che oggi si assista alla rinascita di una «morale delle virtù» ispirata alla tradizione aristotelica. Insistendo così sulle qualità morali richieste per una riflessione morale adeguata, si comprende il ruolo importante che le diverse culture attribuiscono alla figura del saggio.
Egli gode di una particolare capacità di discernimento nella misura in cui possiede le disposizioni morali interiori che gli consentono di formulare un giudizio etico adeguato. Un discernimento di questo tipo deve caratterizzare il moralista quando si sforza di concretizzare i precetti della legge naturale, come pure ogni soggetto autonomo incaricato di fornire un giudizio di coscienza e di formulare la norma immediata e concreta della sua azione.
56. La morale non può dunque limitarsi a produrre norme. Deve anche favorire la formazione del soggetto, affinché questo, impegnato nell’azione, sia in grado di adattare i precetti universali della legge naturale alle condizioni concrete dell’esistenza nei diversi contesti culturali. Tale capacità è assicurata dalle virtù morali, in particolare dalla prudenza che integra la singolarità per guidare l’azione concreta.
L’uomo prudente deve possedere non soltanto la conoscenza dell’universale ma anche quella del particolare. Per indicare bene il carattere proprio di questa virtù, san Tommaso d’Aquino non esita a dire: «Se non ha che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che riguardano più da vicino l’operare» ( 58).
Con la prudenza si tratta di penetrare una contingenza che è sempre misteriosa per la ragione, di modellarsi sulla realtà nel modo più esatto possibile, di assimilare la molteplicità delle circostanze, di registrare il più fedelmente possibile una situazione originale e indescrivibile. Un tale obiettivo richiede diverse operazioni e abilità che la prudenza deve attuare.
57. Tuttavia l’individuo non deve perdersi nel concreto e nell’individuale, come è stato rimproverato all’«etica della situazione». Deve scoprire la «retta regola dell’agire» e stabilire un’adeguata norma di azione. Questa retta regola deriva da princìpi preliminari. Si pensa qui ai princìpi primi della ragione pratica, ma spetta anche alle virtù morali aprire e rendere connaturali la volontà e l’affettività sensibile ai diversi beni umani, e così indicare all’uomo prudente quali fini deve perseguire nel flusso del quotidiano.
A questo punto l’individuo sarà in grado di formulare la norma concreta che si impone e di conferire all’azione data un raggio di giustizia, di forza o di temperanza. Si può parlare qui dell’esercizio di una «intelligenza emozionale»: le potenze razionali, senza perdere la loro specificità, si esercitano all’interno del campo affettivo, così che la totalità della persona è impegnata nell’azione morale.
58. La prudenza è indispensabile al soggetto morale a motivo della flessibilità richiesta dall’adattamento dei princìpi morali universali alle diverse situazioni. Ma tale flessibilità non autorizza a vedere nella prudenza una sorta di facile compromesso nei confronti dei valori morali. Al contrario, proprio attraverso le decisioni della prudenza si esprimono per un soggetto le esigenze concrete della verità morale. La prudenza è un passaggio necessario per l’obbligo morale autentico.
59. C’è qui una prospettiva che, all’interno di una società pluralista come la nostra, riveste un’importanza che non si può sottostimare senza subirne notevoli danni. Infatti essa nasce dal fatto che la scienza morale non può fornire al soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e quasi automaticamente alla situazione concreta; soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione.
Ma al tempo stesso essa non abbandona mai la coscienza alla sola soggettività: si apre alla verità morale in modo tale che il suo giudizio sia adeguato. La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione.