La Croce quotidiano 7 marzo 2017
In quasi tutti i Paesi dell’Ue la cittadinanza si acquisisce principalmente attraverso lo “Ius sanguinis”, eppure le sinistre (soprattutto sindacali) insistono sulla necessità di approvare la riforma che vorrebbe l’acquisto della cittadinanza in base al luogo di nascita, invece che in base alla nazionalità dei genitori. La complessità del tema, però, è tale da rendere opportune alcune precisazioni
di Giuseppe Brienza
“Ius soli” è un’espressione giuridica che, dal latino, significa «diritto del suolo». Perché ne parliamo oggi? Perché questo principio di acquisizione della cittadinanza, basato esclusivamente sulla nascita del figlio di stranieri sul “suolo” nazionale, a prescindere quindi dalla sua discendenza (“Ius sanguinis”) da genitori in possesso di cittadinanza, è oggetto di una riforma, già votata dalla Camera dei deputati, che attende di essere discussa in Senato. Alla Camera, il 13 ottobre 2015, il ddl era stato già approvato con una maggioranza risicata di soli 310 voti favorevoli (molti i non votanti, 83 gli astenuti e 66 contrari).
Essere cittadino italiano (e di uno Stato in generale) significa godere, secondo l’ordinamento giuridico, di pieni diritti civili e politici. Nel nostro Paese la cittadinanza è disciplinata da una buona legge, la n. 91 del 5 febbraio 1992, la quale prevede che, la cittadinanza per nascita, è sempre riconosciuta “iure sanguinis”, ovvero per diritto di sangue ma, per diventare cittadini italiani, sono anche previsti percorsi alternativi per nascita o per acquisizione. Per nascita in primo luogo se si è figli di almeno un cittadino italiano, per acquisizione se si è nati sul territorio italiano da genitori apolidi o ignoti, che non possono quindi trasmettere la propria cittadinanza ai figli.
Oltre alla cittadinanza per nascita ci sono casi in cui il diritto si può acquisire in un secondo momento, in Italia ad esempio se si viene adottati da cittadini italiani o se si sposa un cittadino italiano. Cosa prevede invece la riforma in materia di cittadinanza? Prevede l’estensione dei casi di acquisizione della cittadinanza per nascita, introducendo una sorta di “Ius soli temperato”, e l’introduzione di una nuova forma di ottenimento della cittadinanza a seguito di un determinato percorso scolastico, chiamata “Ius culturae”.
Sembra che questa settimana la riforma arriverà in aula a Palazzo Madama, perché una volta approvata la legge sui minori non accompagnati, subito dopo, dovrebbe toccare allo “Ius soli”. Questo per un “legame logico” fra le due leggi. Secondo quanto previsto dalla riforma della cittadinanza, infatti, viene aggiunto un ulteriore caso che consentirebbe di acquisire la cittadinanza italiana con decreto del Presidente della Repubblica (oltre a quelli già previsti dalla legge del 1992): quello dello straniero che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, legalmente residente da almeno sei anni, che ha frequentato un intero ciclo scolastico (con il conseguimento del titolo finale), oppure svolto un percorso di istruzione e formazione professionale con il conseguimento di una qualifica professionale.
Sul fronte politico è stato innanzitutto il Pd, prima con Bersani poi con Letta e, infine, con Renzi, il partito che si è fatto maggiormente promotore a livello parlamentare di una riforma che vorrebbe archiviare uno dei cardini che ispira da secoli l’acquisizione della cittadinanza nel nostro Paese, lo “ius sanguinis”, appunto.
La nuova legge, visti i “rumors” di una prossima e, forse, imminente chiusura della legislatura, è particolarmente spinta in queste ultime settimane dai sindacati e dalle associazioni che si occupano d’immigrazione (alla campagna “L’Italiasonoanchio” hanno aderito Cgil-Cisl-Uil e 22 associazioni private come Arci, Acli, Caritas e Legambiente).
Queste organizzazioni, che hanno contribuito a elaborare e ora manifestano in favore dell’estensione della concessione della cittadinanza agli “immigrati di seconda generazione” (cioè quelli nati nel nostro Paese da genitori stranieri), accreditano il numero di più di un milione di stranieri senza cittadinanza, che parlerebbero la nostra lingua, studiano nelle nostre scuole, si laureano nelle nostre Università, etc. Ci poniamo, però, subito una domanda: parlare l’italiano (cosa che andrebbe comunque verificata, dato che a mia conoscenza non ci sono statistiche sulla percentuale di “immigrati di seconda generazione” che parlano la lingua di Dante, San Francesco e Petrarca), significa automaticamente condividere i valori fondanti della civiltà d’accoglienza? E non parlo di principi religiosi, anche se è indubbio che alla base, per esempio, del diritto di famiglia occidentale c’è la tradizione ebraico-cristiana.
E poi: se gli stranieri nati in Italia sono di religione islamica, è davvero ragionevole (e responsabile) attribuirgli automaticamente la cittadinanza italiana, con relativo diritto di voto, per il solo fatto di essere nati sul nostro territorio? Così facendo, è probabile che ci nasca presto un bel partito islamico-islamista che, grazie alle “culle piene” dei seguaci del Corano, in poco tempo sarebbe in grado di creare le condizioni affinché anche nel nostro Paese si produca una enclave di applicazione del diritto islamico, esente quindi dall’osservanza di diritti e obblighi incompatibili con la Sharia, nei confronti dei cittadini di religione islamica.
E come la mettiamo con il principio dell’universalità dei diritti umani fondamentali? Come la mettiamo, poi, con quegli esponenti che, al contrario dei fondamentalisti, ritengono invece necessaria e preliminare ad ogni ipotesi di “integrazione” negli ordinamenti occidentali una radicale “riforma” dell’islam? A spiegare come la Sharia sia incompatibile, innanzitutto, con quegli ordinamenti sociali e giuridici (come il nostro) connotati dal principio di uguaglianza e di “Stato di diritto”, solo per fare un esempio, c’è l’interessante studio di Abdullahi Ahmed An-Naim chiaramente intitolato “Il conflitto tra Sharia e i moderni diritti dell’uomo: proposta per una riforma dell’Islam” (cfr. “Dossier Mondo Islamico”, n. 5, Fondazione G. Agnelli, Torino 1998).
Rimanendo ai numeri, come spesso accade per invocare la presunta urgenza di riforme e leggi, si cominciano a diffondere dati gonfiati. Quanti sono, effettivamente, i figli nati da genitori stranieri in Italia e qui residenti? Secondo un calcolo pubblicato da una testata favorevole all’immigrazione, “Il Redattore Sociale”, al 2014 sarebbero un numero ben inferiore al milione accampato dai manifestanti del Pantheon (un numero che varia tra i 750 e gli 800mila individui).
Per sollecitare l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza, il “sindacato cattolico” Cisl assieme ad alcune associazioni che promuovono i diritti degli immigrati e degli “stranieri di seconda generazione”, sono scesi in piazza a Roma, davanti al Pantheon, lo scorso 2 marzo, per ribadire che si tratta di una questione urgente e di giustizia: «che cosa nasconde questo ritardo incomprensibile della Commissione Affari Costituzionali e delle forze politiche?», ha dichiarato per esempio Annamaria Furlan, Segretario Generale della Cisl. Subito dopo la “stura” data dal sit-in del Pantheon, in varie città d’Italia, per esempio a La Spezia, su iniziativa di ultras del “diritto all’immigrazione” come il gruppo consiliare “Sinistra Unita per il Socialismo europeo”, sono state organizzate manifestazioni per chiedere non solo la rapida approvazione della “riforma della cittadinanza”, ma anche per introdurre modifiche al fine di allargarla ulteriormente.
«Pur considerando positiva la riforma della legge sulla cittadinanza votata alla Camera – così hanno dichiarato i rappresentanti del citato gruppo consiliare, da sempre attivo sui temi dell’immigrazione e che ha «aderito convintamente» all’iniziativa spezzina (tenutasi sabato 4 marzo in piazza Mentana) -, “Sinistra Unita per il Socialismo Europeo”, tenuto conto che la legge deve passare il vaglio del Senato, considera opportuno (e auspica) che siano introdotte alcune modifiche migliorative sui passaggi di competenza tra Ministero dell’Interno e Amministrazioni Comunali e sui livelli reddituali necessari per accedere alla cittadinanza».
Ma in base alla riforma chi potrebbe già acquistare la cittadinanza italiana? Tre categorie di persone: 1) chi è nato nel territorio italiano da genitori stranieri, e almeno uno di loro è in possesso del diritto di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno di lungo periodo; 2) un minore straniero, nato in Italia o che ci ha fatto ingresso entro i dodici anni, se ha frequentato regolarmente la scuola per almeno cinque anni nel territorio nazionale; 3) lo straniero che è entrato in Italia prima dei 18 anni e vi risiede legalmente da almeno sei anni: a condizione che abbia frequentato regolarmente in Italia un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, oppure un percorso di istruzione e formazione professionale.
Sarà pure un “ritardo” quello della discussione in Senato ma, senza bisogno di introdurre lo “Ius soli”, già nel 2015 sono stati ben 158mila gli stranieri immigrati che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Contemporaneamente, la popolazione nazionale è scesa secondo gli ultimi dati Istat di 230mila per contemporanei primati negativi di decessi e saldo negativo di nascite. Ma questo, alle varie sigle politiche, associative e sindacali che stanno manifestando in favore della riforma, soprattutto politicamente “sinistre” (di origine italiana ed estera), evidentemente, non interessa…
Sappiamo bene che, i sindacati italiani, da diversi decenni ormai, hanno smesso di rappresentare i bisogni e i diritti del lavoro, per diventare sempre più il principale punto di riferimento di pensionati e immigrati (e relative famiglie, per le quali si invoca il “diritto al ricongiungimento”, ovviamente esteso anche alle “coppie gay”). Che «l’integrazione abbia superato ogni diversità» nel nostro Paese e altrove in Europa, è affermazione tutta da verificare, e non si tratta di una «burocrazia che alza le barriere» contro la nuova legge della cittadinanza, ma di una legittima esigenza di “sostenibilità” (anche amministrativa, ma questa non è naturalmente la problematica più rilevante) della proposta riforma.
Per l’Istat sarebbero oltre il 70% i cittadini italiani favorevoli alla riforma ma, quando si tratta di introdurre modifiche strutturali e di così elevato impatto sociale come quella in attesa al Senato, che vorrebbe cioè sostituire integralmente il principio dello “Ius soli” a quello dello “Ius sanguinis” nel nostro ordinamento (nel quale attualmente il sistema di riconoscimento della cittadinanza è “misto”), ci vorrebbe semmai un referendum popolare. E lo si è visto nei due importanti e inattesi esiti dell’anno scorso sui referendum Brexit e di riforma della Costituzione italiana come i sondaggi si discostano alla prova dei fatti dai voti dei cittadini!
Non si tratta, quindi, «di negare a questi giovani il diritto di partecipare alla vita politica e sociale», oppure di considerarli riduttivamente «soggetti con permesso di soggiorno», «cittadini di serie b» e via via sloganeggiando. Si tratta di meditare importanti riforme prima che, anche da noi, si possano verificare importanti problematiche sociali e politiche altrove in Europa già sperimentate.
«Se siamo una società multietnica (e non multiculturale), il rispetto delle regole non deve riguardare solo il diritto positivo, quindi le norme, ma anche le consuetudini e le abitudini, ovvero il contesto culturale, che in Veneto e in Italia è profondo e secolare», ha ribattuto in proposito un amministratore locale intelligente (sono i territori, appunto, che scontano maggiormente le ricadute di cattive politiche migratorie), cioè l’assessore leghista all’istruzione e formazione della Regione Veneto Elena Donazzan, intervenendo ad un recente convegno a Marghera sul tema “Comunicazione e gestione dello straniero alla luce del nuovo decreto sulla sicurezza urbana”.
«La scuola deve essere un modello di integrazione, stabile e duratura nel tempo, ma la cittadinanza è una conquista e non un diritto», ha aggiunto la Donazzan, rispondendo così alle discutibili posizioni espresse in favore della riforma da parte del ministro dell’istruzione Valeria Fedeli, ma contribuendo però a rafforzare la disonorevole ipotesi di un ventilato accordo fra Pd e Lega, ossia l’impaludamento della riforma della cittadinanza in cambio di un assist del Carroccio sulla legge elettorale per andare alle elezioni a giugno. «L’integrazione degli studenti stranieri – ha concluso comunque nel suo intervento l’assessore veneto – è fondamentale. Non può essere un semplice caso il nascere o l’arrivo in Italia, ma dev’essere un progetto di vita stabile. Porte aperte, quindi per coloro che vogliono integrarsi, ma per quanti pensano di esercitare solo diritti, senza doveri, le porte devono restare chiuse».
L’appello della Cisl e delle altre associazioni al Governo Gentiloni e a tutte le forze politiche «affinché mettano da parte le divisioni e diano finalmente al Paese ed ai figli d’immigrati nati e/o cresciuti in Italia il diritto di essere considerati definitivamente italiani» è quindi mal posto, anche perché rischia di ignorare i diritti fondamentali (e di democrazia!) dei cittadini italiani, in primo luogo quelli appartenenti ai ceti medi e popolari, che scontano più degli altri le disfunzioni che, già adesso, sorgono da politiche migratorie disordinate e “politicamente corrette”.
«Basta con gli stranieri integrati senza cittadinanza»: siamo certamente d’accordo. Ma, sostenendo come Popolo della Famiglia la priorità del “prima la famiglia”, vorremmo almeno affiancare a questo imperativo quell’altro, che può sembrare provocatorio ma dice molto soprattutto ai cittadini che scontano sulla loro pelle l’immigrazionismo: «Basta con gli italiani senza cittadinanza»! Non è abbastanza chiaro? Allora potremmo ricorrere ad un altro slogan, maggiormente passibile di strumentalizzazioni e interpretazioni fuorvianti ma sicuramente più efficace: «Basta con il sentirsi stranieri a casa propria»!
È dal 2004, l’anno cui risale la prima proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, che si esita (giustamente) nell’approvare questa riforma che vorrebbe basare tutto il sistema esclusivamente sul principio dello “Ius soli”. In questa legislatura ben 7 sono stati i diversi disegni di legge che sono diventati alla fine il testo unificato approvato alla Camera.
Ora che siamo agli sgoccioli di una (cattiva) legislatura, non ci resta che raccomandare: calma e gesso! Tanto più che, fra i Paesi appartenenti all’Unione europea non vige in merito una legislazione univoca e, per lo più, si evita di basare tutto il sistema su un solo principio, applicando lo ius sanguinis e lo ius soli temperando un principio con l’altro. Esattamente com’è adesso nell’ordinamento italiano. Anche gli Stati nel resto del mondo più flessibili in termini di conferimento della cittadinanza, non contemplano mai uno “Ius soli” puro. Gli Stati Uniti sono l’unico Paese del mondo ad avere una legislazione in tal senso.