Studi cattolici n. 559 settembre 2007
La disattesa eredità di Robert Schuman
È in libreria il volume di Maurizio De Bortoli Libertà per l’Europa. Robert Schuman (Edizioni Ares, Milano 2007, pp. 184, euro 18). Nella prefazione, che anticipiamo per i nostri lettori, il sen. prof. Marcelle Pera, presidente d’onore della Fondazione Magna Carta e già presidente del Senato, illustra come le aspirazioni del padri fondatori dell’Europa, Robert Schuman (foto), Konrand Adenauer e Alcide De Gasperi siano state largamente frustrate, al punto che l’attuale Unione europea, dimentica delle radici cristiane, può essere addirittura considerata nemica dell’Europa.
di Marcello Pera
Per il disbrigo delle sue pratiche spirituali, l’Europa aveva bisogno di un padre celeste e nel 1964 il buon Paolo VI, quella volta senza particolari tormenti, ne trovò uno sicuro in san Benedetto. Per la cura delle pratiche profane all’Europa occorreva invece un padre terrestre, ma qui, dopo tanti secoli di catastrofi, l’impresa era così disperata che è probabile che sia dovuto intervenire il buon Dio in persona, l’Unico che ormai potesse porci rimedio. Fu così che, nonostante ci sia da credere che, visti i precedenti, anche Lui fosse pieno di dubbi circa le possibilità per qualunque essere umano di venire a capo dell’unificazione europea, il Padreterno inviò un altro santo, Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman.
Ridotto a forma di parabola, è quanto, in forma di storia, sostiene Maurizio De Bortoli, in questa biografia dello statista francese, simpatetica, informata, ma soprattutto accorata per le sorti europee.
Ma si sa come va il mondo, o almeno come andava nel secolo XX. Mentre la storia non ha avuto problemi particolari nel riconoscere i meriti europeisti di san Benedetto, gli storici non sono stati altrettanto generosi con Schuman. Perché molti non lo hanno considerato santo, anzi, alcuni, soprattutto inglesi, lo hanno visto addirittura come uno strumento del demonio eurocratico. E perché molti altri gli hanno negato la figura del vero padre, affidandola invece a Jean Monnet, un suo collaboratore, già produttore di cognac, senza titoli di studio, affarista, lobbista, uomo di mondo, un po’ dandy e un po’ Grande Gatsby, maestro nel piacere alla gente che piace e nel contare sulla gente che conta, e di trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto, fosse un salotto, un comitato, il consiglio di amministrazione di una banca d’affari, il gabinetto di un ministro, la vice segreteria della Lega delle Nazioni (1).
Sempre secondo questi storici, Monnet sarebbe stato il vero autore del «più spettacolare colpo di Stato della storia» (2), cioè l’Europa, perché dietro lo zelo manifesto di assecondare Schuman (o il buon Dio che glielo aveva messo sulla strada), egli nascondeva in realtà l’intenzione latente di orientarlo, guidarlo e fargli fare ciò che lui (il collaboratore) voleva. E Monnet voleva in particolare realizzare la sua idéefixe, la pace in Europa e nel mondo, ma alla sua maniera, mediante istituzioni sovranazionali, purché rigorosamente costruttivistiche, elitarie, autorefenti e poco o punto sottoposte a controllo democratico. Insomma, «francesi».
Figura studiata, questa del collaboratore-protagonista, e tanto nota quanto quella del servo-padrone di Hegel, di cui evidentemente neppure al buon Dio riesce di fare a meno e di schivare tutte le insidie. In realtà, seri motivi per dare credito agli storici non indulgenti nei confronti di Schuman esistono. Jean Monnet non vendeva solo cognac con successo, era un vulcano di idee, un instancabile artefice di visioni e progetti che sapeva piazzare tanto bene quanto il prodotto della sua fabbrica. Fu lui che, fin dagli anni Venti, assieme a pochi altri, coltivò l’idea degli «Stati uniti d’Europa», lui a buttar giù il progetto della ceca – l’autorità europea della produzione e commercio del carbone e dell’acciaio —, lui a consegnarla a Schuman in vista dell’incontro dei ministri degli Esteri dell’11 maggio 1950 indetto dal segretario di Stato Dean Acheson per sollecitare una chiara posizione francese sulla questione della Germania, e in particolare della autorità internazionale sulla Ruhr, lui a fare lo spin doctor con i principali protagonisti, a cominciare dallo stesso Acheson, lui a escludere sapientemente l’Inghilterra dalla trattativa. Fu poi Monnet a fare il capo della delegazione francese per la nascita della ceca, oltre che il presidente del comitato negoziatore.
Non c’è da meravigliarsi perciò che, quando la ceca finalmente vide la luce, fosse Monnet a presiedere l’Alta Autorità, e che in séguito fosse ancora lui ad architettare il piano di Rene Pleven e della Comunità europea di difesa, la Ced, e che poi, quando la Ced fallì, fosse lui a rimettersi in moto per arrivare ai Trattati di Roma (1957), che spettasse a lui ricevere per primo la nomina a «cittadino d’Europa» (1976), e che le sue ceneri, dieci anni dopo la morte (1979), fossero traslate nel Pantheon di Parigi con una cerimonia alla presenza di Mitterrand e Kohl.
Solo Jacques Delors, in séguito, potrà approssimarsi a un curriculum eurocratico così lungo e di tanto rispetto. Questo non vuoi dire che Schuman non avesse meriti, perché in realtà, come qui documenta De Bortoli, ne ebbe di grandi, prima e dopo la creatura cui è legato il suo nome. Fu Schuman che corresse e ricorresse la bozza del progetto Monnet – conservandone tuttavia il cuore, la Ceca come «primo passo della Federazione europea» – e fu lui, in qualità di ministro degli Esteri, a rendere la famosa dichiarazione del 9 maggio 1950 con cui la Ceca – il «piano Schuman» – fu lanciato.
Se, oltre ai vari altri incarichi di governo, compreso quello di primo ministro, l’onesto impegno di parlamentare, la prima presidenza del Parlamento europeo, e la probità di una vita condotta cristianamente, ciò valga ad assicurargli il titolo di santo (manca il miracolo, la causa è ancora in corso), giudicheranno le autorità spirituali. Per gli storici temporali alla ricerca dei meriti europeisti di Schuman forse basta quello che lo stesso Monnet gli riconobbe negli stessi giorni in cui si preparava la Ceca, e che qui De Bortoli ricorda: «Voglio dirLe», scrisse Monnet al suo ministro, «una cosa molto importante: Lei è un uomo onesto; può proporre ciò che vuole e Le crederanno. Se questo progetto di mercato unico, che seppellisce la guerra, riconcilia Francia e Germania, permette ai tedeschi di essere trattati alla pari degli altri e li disarma, fosse presentato da qualunque altro uomo di governo, resterebbe lettera morta. Ma a Lei crederanno» (3). Implicita ammissione di regìa nell’ombra, direbbe qualcuno a favore di Monnet, «implicito riconoscimento di santità», commenta qui De Bortoli in lode di Schuman.
I geni dell’unificazione europea
Ma più che sulla questione del «chi» fece, è opportuno riflettere su «che cosa» allora fu fatto e come. E su questo terreno il lavoro di De Bortoli è ancora più utile, perché non solo ricostruisce la vita e l’opera di Schuman con grande accuratezza, passo dopo passo, ma ci fornisce anche gli strumenti per così dire genetici per comprendere quale è stato il cammino dell’Europa dopo la celebre conferenza stampa del 9 maggio 1950 in cui Schuman lesse la sua celebre dichiarazione e lanciò la sua «bomba».
Uno che, all’epoca, avesse avuto capacità, se non profetiche, almeno analitiche sufficientemente spiccate da proiettare nel futuro ciò che stava emergendo avrebbe visto nell’atto di nascita dell’Europa – che tale è considerata la «dichiarazione Schuman» – i geni che ne avrebbero segnato lo sviluppo a venire, in particolare quella che oggi è considerata da tutti, a eccezione dei rétori e dei cantori dell’europeismo, la sua degenerazione o il suo «tradimento», come qui lo chiama De Bortoli. Gli ingredienti tipici di questo processo erano già presenti allora.
Divergenze franco-tedesche. L’inizio del secondo dopoguerra è contrassegnato da un nuovo contrasto fra, da un lato, il desiderio tedesco per uno sviluppo nazionale autonomo e l’affrancamento dal dominio degli Alleati, in particolare il nemico storico, la Francia, e, dall’altro lato, l’opposto desiderio di controllo dell’economia tedesca da parte francese. Furono le diffidenze reciproche fra i due Paesi e la situazione di stallo che ne seguì a indurre Dean Acheson a imporre quasi un ultimatum per una soluzione da trovare alla riunione dei ministri degli Esteri dell’11 maggio 1950. E furono queste stesse diffidenze a indurre Monnet ad accelerare i tempi del progetto della Ceca e della dichiarazione. Schuman stesso, in Pour l’Europe, ha riconosciuto l’eterno conflitto franco-tedesco quale atto battesimale della Ceca e del processo di unificazione europea. In particolare, egli scrisse: «Dopo la seconda guerra mondiale, per ogni francese, che in un modo o nell’altro fosse responsabile dell’avvenire del proprio Paese, il fatto tedesco è stato il problema più angosciante, perché da esso dipendeva non soltanto la sicurezza della Francia, ma la pace del mondo» (4).
L’Europa come ammortizzatore. Se, sono ancora parole di Schuman, «la storia ha provato che la Germania sarà eternamente insoddisfatta», se fin «da quando la Germania ha fatto il suo ingresso nella storia, c’è una questione tedesca» (5), e perciò se la Francia sarà altrettanto eternamente condannata a temere quella insoddisfazione e a confrontarsi con quella questione, allora c’è da pensare che soltanto l’Europa, più precisamente un’Europa a guida franco-tedesca, possa contenere questo latente conflitto. Nel 1950, poco prima del lancio del piano Schuman, il cancelliere Adenauer, il quale era arrivato a proporre un’unione politica tra Francia e Germania come «pietra angolare degli Stati uniti d’Europa» (6), disse: «In verità [nel movimento di unificazione europeo] sta la salvezza dell’Europa e la salvezza della Germania» (7). Cioè: l’Europa come scudo protettivo contro le tensioni franco-tedesche. Più crudamente: ciò che è giusto per la Francia e la Germania è giusto per l’Europa.
Economicismo. La Ceca fu un accordo per la produzione delle materie prime più incandescenti a scopi bellici ma anche più potenti per lo sviluppo economico. Cominciando col mettere in comune le risorse principali – questa era l’idea sottostante -, si sarebbero create le condizioni per una lenta integrazione delle economie e una successiva graduale unificazione politica. Insomma, un po’ illuministicamente: economie d’abord, la politique suivra. «Si trattava», scrisse Schuman, «di organizzare l’Europa nel senso della sua unificazione, attraverso la progressiva eliminazione delle barriere, che ostacolano la circolazione dei beni, attraverso il razionale coordinamento della produzione dei diversi Paesi, dei loro investimenti, delle loro esportazioni e, infine, attuando la libertà di circolazione delle persone e dei capitali» (8). E analogamente Monnet aveva detto alla prima assemblea della Ceca: «La nostra Comunità non è un’associazione di produttori di carbone e acciaio: è l’inizio dell’Europa» (9).
Federalismo. L’idea di Schuman e Monnet, come pure di Adenauer e De Gasperi, riguardo all’unificazione europea era quella, tipicamente federale, di istituzioni politiche sovranazionali, rispettose il più possibile delle specificità degli Stati membri, ma unificate e con poteri sovraordinati. Per questo essi erano contrari al diritto di veto. L’Europa federale era un traguardo da raggiungere progressivamente, ma mai da mettere in discussione, perché ogni deviazione dalla meta avrebbe rappresentato il riapparire dei vecchi fantasmi.
Procedura intergovernativa e deficit democratico. La ceca nasce da un accordo, un trattato, fra (sei) governi, e con lo stesso strumento l’Europa ha proceduto per tutto il resto del suo cammino: Ceca, Cee, Euratom, Uè. Questa procedura si è ripercossa sulla trasparenza delle istituzioni di volta introdotte. Di fatto, gli organi e i programmi della Ceca non rispondevano politicamente a nessuno. Certamente, i governi potevano cambiarli, e perciò, dietro i governi, i parlamenti e, alla base dei parlamenti, i cittadini elettori potevano influire sulle decisioni. Ma, in questo come in tutti gli altri trattati successivi in cui si snoderà la vita istituzionale e politica dell’Europa, il percorso che va dai cittadini, sempre scarsamente e quasi mai preventivamente informati, al vertice delle istituzioni, sempre più autocratico, è rimasto costantemente così lungo e il legame così debole che difficilmente, già nell’atto di concepimento del primo embrione dell’Europa, si potrebbe scorgere una qualunque seria forma di democrazia.
Il tanto oggi lamentato «deficit democratico» dell’Europa è già iscritto nel suo atto di nascita. Solo alla fine (provvisoria) della storia, dopo l’approvazione, anch’essa intergovernativa, del Trattato costituzionale europeo (2004) si vedrà, dagli esiti negativi dei referendum francese e olandese, quanto irreparabile sia stata la tensione che col tempo si era prodotta fra lo sbocco federale perseguito e la procedura quasi clandestina degli accordi fra governi ratificati stancamente dai rispettivi parlamenti.
Ostilità inglese. Anche la diffidenza inglese per qualunque forma di superstato europeo è un tratto che si manifesta già alle origini del processo europeo. Fin dai giorni precedenti alla dichiarazione Schuman, il primo ministro laburista Clement Attlee, peraltro deliberatamente informato in ritardo quasi a volerlo escludere, prese posizione contraria all’idea della Ceca (10) di una cessione della sovranità inglese e lo stesso fece, poco dopo, il primo ministro conservatore Harold Macmillan. Nonostante le sue credenziali europeiste — in particolare il celebre discorso di Fulton del 5 marzo 1946 («da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è scesa sul continente») e il non meno celebre discorso di Zurigo del 19 settembre successivo («dobbiamo costruire una specie di Stati uniti d’Europa») -, neppure Winston Churchill fu mai chiaro sul ruolo dell’Inghilterra in tale progetto e, nonostante la retorica, se ne tenne distante. Interessi di Commonwealth e economici nazionali, certamente, desiderio di mantenere la special relationship con l’America, senza dubbio, ma anche istintiva diffidenza verso tutto ciò che sa di costruttivismo continentale, rigido, imposto, e, alla fine, poco democratico.
I difetti dell’Europa unita
Se è vero che i geni determinano il carattere e i tratti originari si ripresentano, spesso in peggio, nell’organismo sviluppato, allora si spiega perché, ancor oggi, l’Europa continui a essere affetta dai tre principali difetti della sua origine. Il primo: l’Europa ha solo o pressoché esclusivamente un fondamento economico, il mercato (11). Nonostante che questo si sia allargato dal carbone e l’acciaio al mercato comune e al mercato unico, e nonostante che le istituzioni politiche dell’Europa si siano parallelamente molto sviluppate rispetto a quelle embrionali della Ceca, l’economia è ancor oggi padrona dell’Europa. L’idea che la politica avrebbe spontaneamente seguito si è dimostrata illusoria.
Le diffidenze intereuropee non sono oggi così calde come nel 1950, ma le divergenze fra i Paesi membri dell’Unione non accennano a scomparire, non solo sul terreno economico e sociale, fra dirigisti e liberisti, ma anche su quello delle politiche primarie della difesa, della sicurezza, delle relazioni internazionali. La divisione fra il Continente e l’Isola si aggrava o resta quella che è sempre stata e la frattura fra una «vecchia Europa» e una «nuova Europa» non è solo una battuta fulminante di un segretario alla difesa americano, ma una descrizione illuminante dell’attuale realtà europea.
Il secondo difetto: la politica dell’Europa non è, o, a essere gentili, è scarsamente democratica, suscita sentimenti di freddezza e distanza nei cittadini europei (12) e di diffidenza da parte dei nuovi Stati membri orientali. Le «tremende parole del presidente ceco Vaclav Klaus», come qui le chiama De Bortoli che le cita — «Noi che veniamo da mezzo secolo di regime comunista, siamo particolarmente sensibili: a noi l’Unione europea ricorda il Comecon» (13) – sono amaramente indicative in proposito. Non è solo a causa della procedura intergovernativa dei trattati, è che i trattati si sono dimostrati accordi di governi senza trascinamento di popoli, mentre la loro gestione e applicazione è diventata lo strumento di potere di una casta eurocratica su cui solo i ben informati, i ben introdotti, gli abili, hanno voce in capitolo.
Questa casta invasiva, occhiuta, onnipresente, di marca soprattutto francese, è educata, già nelle scuole del suo Paese, al peggior dirigismo. Il controllo democratico le è estraneo e d’impaccio. Chi ha lo Stato – l’état – come idolo briarèo e pensa che spetti allo Stato educare e dirigere e sovrintendere e programmare e plasmare, non vede di buon occhio non solo la spontaneità del mercato ma neppure la libertà della società civile.
E questo spiega il terzo difetto: la dimensione ancora solo prevalentemente continentale dell’Europa. Se oggi, nonostante il filoeuropeismo di un Tony Blair, l’Inghilterra è sempre sulla soglia dell’opting out, la questione ha a che vedere non tanto con l’egoismo dell’Inghilterra, sovente trattata dai leader soprattutto francesi e da quelli a essi accodati alla stregua di una «perfida Albione», ma con il modo in cui l’Europa unita è intesa nel continente. L’Europa è stata, e resta, una questione prevalentemente franco-tedesca, e, come affare, più francese che tedesco. Lo mostra lo stesso atto di nascita della Ceca. Lo mostrano gli scambi di interessi a ogni trattato intergovernativo, da quello sull’Euratom all’accordo sulla politica agricola (uno scandalo a favore della Francia), fino a quello, emblematico, in cui la moneta unica e la maggiore integrazione politica furono il prezzo dell’unificazione tedesca. Lo mostra la storia delle coppie che hanno menato le danze, ora in armonia ora pestandosi i piedi: De Gaulle-Adenauer, Pompidou-Brandt, Giscard-Schmidt, Mitterrand-Kohl, Chirac-Schroeder. La musica Sarkozy-Merkel, appena alle prime note, non cambierà granché.
La questione franco-tedesca è difficile e quasi insolubile, come aveva ben visto e sperimentato Schuman, perché da scontro politico per l’egemonia continentale fra due Paesi si è trasformato in conflitto culturale fra due angosce nazionali: quella dei tedeschi che, per il loro passato, non vogliono più essere «tedeschi» e quello dei francesi che, per via del loro presente, non possono più diventare «francesi» (14). La pesante, ma illuminante, battuta di De Gaulle – «L’Europa è il mezzo con cui la Francia cerca di diventare ciò che aveva cessato di essere dopo Waterloo: il Paese guida del mondo» (15), la quale fa il paio con quella attribuita al Generale che «la Comunità europea è un cavallo e una carrozza. La Germania è il cavallo, la Francia il cocchiere» – se ieri poteva sollevare ansie e diffidenze oggi, dopo il «secolo americano» e nel mondo globale, può solo cadere nel ridicolo.
E, tuttavia, la battuta di De Gaulle conserva un suo fondo di verità, perché il copione si ripete, con la Francia ancora tesa all’egemonia e la Germania ben intesa a contenerla, per difendersi dalla Francia, sì, ma anche per assicurarsi contro sé stessa (16). Sicché, a voler essere disincantati- e ottimisti, si potrebbe dire che ancor oggi l’Europa è il tentativo franco-tedesco di siglare una pace durevole mediante i trattati, mentre, a voler essere disincantati e pessimisti, si può pensare che essa sia la prosecuzione del conflitto franco-tedesco con altri mezzi (quelli dei trattati, dell’Unione, della costituzione).
L’identità mancata dell’Europa
Manca ancora un capitolo a questa storia di unificazione sempre tentata, mai compiuta e sempre rinata dalle ceneri delle sue crisi. È il capitolo conclusivo dell’identità, quello a cui fin da subito aveva pensato Schuman e che qui De Bortoli mette bene in luce, perché a esso è più intensamente interessato e da esso più emotivamente preoccupato. Se l’unificazione europea mai fallisce del tutto ma mai riesce completamente è perché l’identità europea, fra tante direttive, norme, istruzioni, istituzioni, trattati, conferenze, riunioni al vertice, si è lentamente perduta o non è mai stata realmente perseguita.
Qui non è questione solo del mancato inserimento del richiamo alle radici cristiane dell’Europa (17), qui è questione che la vita europea, quella personale, quella civile e quella politica, si è distaccata decisamente da quelle radici, sicché anche un loro richiamo in un eventuale nuovo preambolo sarebbe lettera morta. Del resto, non vale un preambolo con un richiamo verbale a quel cristianesimo che tenne a battesimo l’Europa e poi l’ha plasmata se ogni giorno in Europa si predica e pratica vita non cristiana. Non basta un preambolo se la dignità dell’uomo a immagine di Dio, l’uguaglianza, la parità, la carità, sono ogni giorno violate, e se «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» in Europa è inteso alla maniera che Cesare è libero di decidere non solo in materia di mercato, moneta, banche, industrie, regimi sociali e fiscali, magari anche curvatura dei cetrioli, misure dei pomodori e dimensioni dei preservativi, ma anche su temi come l’aborto, la sperimentazione sugli embrioni, la clonazione, l’eugenetica, l’eutanasia, il matrimonio omosessuale, la poligamia e, com’è successo, il partito dei pedofili.
Né sarebbe di alcun aiuto un preambolo che si richiamasse alla nostra storia, se chi, ai nostri confini o nei nostri Paesi, nega e disprezza e attacca questa storia viene ogni giorno trattato col «dialogo», l’«apertura», la «tolleranza», l’«ospitalità», il «rispetto delle minoranze», per usare le espressioni chic e d’obbligo, verbalmente nobili ma di fatto semanticamente e politicamente equipollenti a una resa della cultura europea a quella violenta cultura islamica che oggi l’assedia e la minaccia. Per avere unità (che è cosa ben diversa da un mercato unico e istituzioni sovrimposte), ci vuole identità; per avere identità (che è cosa ben diversa da una stessa collocazione geografica), ci vuole senso di appartenenza; per avere questo senso di appartenenza (che è cosa ben diversa da mere dichiarazioni verbali contenute in un testo costituzionale), ci vuole un credo spirituale.
C’è qualcosa di spirituale in cui oggi credono gli europei, tale che quella stessa cosa li faccia diventare tutti europei? Sul tipo di unità dell’Europa Schuman aveva visto molto bene ed era stato lungimirante, non solo quando disse che «l’Europa non si farà in un sol colpo, né con una costruzione globale» (18), né quando aveva messo in guardia dal replicare a livello europeo «gli errori delle nostre democrazie nazionali, soprattutto gli eccessi della burocrazia e della tecnocrazia» (19), ma soprattutto quando scrisse che «l’Europa prima di essere un’alleanza militare o un’entità economica deve essere una comunità culturale» (20).
Esiste questa comunità? Esteriormente, l’Europa ha tutti i segni e simboli di un super-Stato: un Parlamento, una Commissione europea, un Consiglio dei ministri, una Corte di Giustizia, una Banca centrale, una Corte dei diritti dell’uomo, un paio di capitali. Poi un Bill ofrights (la Carta di Nizza) e un corpo giuridico e di norme particolari (le celebri tonnellate delle 80.000 pagine del Vacquis communitairé). Poi ancora ha una bandiera, un inno, un motto, un anniversario (anche se dopo il Consiglio europeo di Bruxelles 2007, tutto ciò è caduto) e ha una moneta. Non le mancano naturalmente campionati di calcio (Champions League e Coppa Uefa) né trasmissioni televisive comuni (Giochi senza frontiere, II Grande Fratello, il Festival della canzone europea). Ed è vero che l’Europa ha fatto una «rivoluzione geopolitica di dimensioni storielle» (21) e ha una enorme potenza economica (22). E però quella comunità culturale di cui parlava Schuman l’Europa, no, non ce l’ha. E non ce l’ha perché, in Europa, non c’è una comunità spirituale (ancor meno cristiana) senza la quale non c’è identità e perciò nessuna autentica unità (23). Perché?
L’Unione europea contro l’Europa
Sul mercato culturale e politico dell’Europa oggi si smerciano il relativismo e il laicismo, e poi, al séguito, il multiculturalismo, l’indifferentismo, il filoislamismo, il pacifismo, e tutte le altre droghe più letali per la costruzione di una comunità spirituale e culturale (24). È questo narcotraffico di idee che minaccia l’Europa.
Si obietta: ma in Europa, finalmente, c’è la pace. È vero, ma non c’è controprova, cioè non si può dire che, senza l’Unione europea, l’Europa sarebbe precipitata in nuovi conflitti. C’è piuttosto da riflettere che, quando una nuova guerra è scoppiata in Europa (Yugoslavia), l’Unione europea ha scritto una pagina infame (Srebenica, luglio 1995).
Si obietta ancora: ma l’Europa non risolve i conflitti internazionali con la guerra. È vero anche questo, se non altro perché, a memoria futura, è scritto in qualche trattato europeo. E qui, purtroppo, la controprova c’è: in Afghanistan, in Iraq, altrove, l’Europa, con la sola eccezione della perfida Albione, non combatte. Se c’è una guerra di civiltà, la esorcizza e criminalizza chi lo dice; se c’è una guerra del terrorismo islamico, preferisce battersi il petto e cercare l’appeasement; se ci sono Stati-canaglia minacciosi, tratta e contratta; se è attaccata perché si consente di scherzare con delle vignette, chiede scusa; se il Papa domanda all’Islam di essere anch’esso la religione del logos e non della spada, lo zittisce; se qualcuno vuoi cancellare Israele dalla faccia della terra, non se ne cura, perché, dopotutto, Israele non è in Europa ma la Turchia sì. E così di séguito, sempre a cercar la bella pace.
E non importa se, per garantire questa pace, per «esportare la democrazia», devono spesso intervenire gli americani, perché quelli, scarponi e brutali, rozzi e violenti, sono come lo sceriffo che si invoca per riportare la quiete nel saloon del villaggio ma a cui si chiede subito di andarsene per non turbare la serenità dei coloni. Fax nobiscum, bellum vobiscum.
Il 19 marzo 1958, di fronte al Parlamento Europeo, Schuman disse: «Tutti i Paesi dell’Europa sono permeati dalla civiltà cristiana. Essa è l’anima dell’Europa che occorre ridarle». Lo stesso avevano detto De Gasperi e Adenauer. Erano tre credenti cristiani cattolici. Ed erano, come si dice con la più ambigua delle espressioni in uso solo in Francia e in Italia, tre «laici». Nessuno di essi si sarebbe sognato di imporre il cristianesimo come religione ufficiale degli europei. Nessuno di essi ne avrebbe tratto un prontuario comunitario. Ma nessuno di essi avrebbe potuto immaginare che l’Europa potesse farne a meno. Oggi non è più così.
I nostri capi di Stato e di Governo, per una volta negli affari europei interpreti fedeli dei sentimenti dei loro popoli, pensano che il cristianesimo sia di ostacolo (professarlo in pubblico «offende gli altri») e perciò si adoperano, e se non si adoperano si adattano, a che l’Europa sia, oltre che non cristiana, anche anti-cristiana. Come se il cristianesimo non fosse stato il fondamento spirituale europeo e non avesse anche conseguenze di identità e coesione sociale (25). In attesa che il buon Dio invii in Europa un altro santo, e non un altro venditore di cognac, la battaglia dell’identità sta per essere perduta (26). L’Unione europea — questa Unione europea — oggi sta gettando in crisi l’Europa. La spezza in due, la separa dall’America, la sottrae alle sue responsabilità internazionali, la nasconde alla sua storia. Ecco perché chi apprezza l’Europa fa solo opera di bene se critica l’Unione europea. Perché l’Unione europea è nemica dell’Europa.
Disse ancora Schuman: «Bisogna che ci rendiamo conto che l’Europa non può limitarsi, alla lunga, a una struttura meramente economica. Occorre che essa diventi anche una salvaguardia per tutto ciò che rende grande la nostra civiltà cristiana». Dopo aver combinato tanti guai, gli eurocrati hanno cominciato ad accorgersi di questa verità. Sono intervenuti soprattutto alcuni «cattolici adulti».
«L’Europa non è concepibile con l’oblio della sua memoria e nella sua memoria appare la traccia permanente del cristianesimo», disse il presidente della Commissione europea Romano Prodi il 4 ottobre 1999. E Jacques Delors, lanciando il programma «Un’anima per l’Europa», così si era pronunciato il 6 febbraio 1992: «O nei prossimi dieci anni riusciremo a dare un’anima, una spiritualità, un significato, all’Europa oppure avremo perduto la partita». Mentre per gli altri il tempo corre, per noi, a essere ottimisti, sta per scadere e il tradimento dei santi padri dell’Europa sta per consumarsi per intero. Questo tradimento, come qui scrive lucidamente e amaramente De Bortoli, «consiste nell’aver voluto abbandonare la storia, la tradizione, l’eredità dell’Europa e questo significa rifiutare la propria identità» (27). Ma senza identità nessuno è sé stesso e ciascuno è perduto.
_____________________
1) Su Monnet e sul suo ruolo nella costruzione europea, esistono varie auto-bio-agiografie. Oltre alle sue Mémoires (Fayard, 1976), trad. it. col titolo Cittadino d’Europa, Guida, Napoli 2007, fra gli studi più documentati e a scopo meno edificatorio, si vedano F. Duchéne, Jean Monnet. The First Statesman of Interdependence, W.W. Norton, New York 1994 e F. Fransen, The Supranational Politics of Jean Monnet: Idea and Origins of thè European Community, Greenwood Press, Westport, Conn., London 2001. La descrizione di Monnet come «un Grande Gatsby anche se con molta meno presunzione» si deve a Fransen (pp. cit., p.15). Come «santo patrono» e «broker» dell’Europa è definito da T.H. White, Pire in the Ashes: Europe in Mid-Century, Sloane, New York 1953, p. 260.
2) Cfr C. Booker, R. North, The Great Deception. Can the European Union Survive?, Continuum, London-New York 2003, 20052, p. 4. Questa è, a mio avviso, la più dettagliata, informata e disincantata storia della costruzione dell’unificazione europea.
3) De Bortoli, Libertà per l’Europa. Robert Schuman, Edizioni Ares, Milano 2007, p. 115.
4) R. Schuman Pour l’Europe, Les Editions Nagel SA, Ginevra 2005, p. 74.
5) Ivi, p. 69 e p. 72.
6) Cfr K. Adenauer, Memorie 1945-1953 (1966), trad. it. Mondadori, Milano 1966, pp. 358 ss.
7) Cit. in C. Booker, R. North, op. cit, p. 66.
8) R. Schuman, op. cit,. p. 120.
9) Cit. in C. Booker, R. North, op. cit., p. 75.
10) Monnet, d’accordo con Schuman, aveva posto come prerequisito ai negoziati l’accettazione da parte dei governi del principio sovranazionale e soprattutto questo, oltre alla circostanza che l’anno precedente il governo inglese aveva nazionalizzato le industrie del ferro e dell’acciaio, fu il principale ostacolo all’adesione inglese al piano Schuman. Concludendo un messaggio al suo governo, in cui invitava alla moderazione, scrisse l’ambasciatore francese a Londra, Rene Massigli: «La sostituzione della democrazia con la tecnocrazia qui non sarà accettata». Cfr William I. Hitchcock, France Restored, The University of Carolina Press, Chapel Hill and London 1998, p.131.
11) Lo riconosce anche un estimatore accorato ma preoccupato dell’Europa. Cfr T. Padoa-Schioppa, Una pazienza attiva, Rizzoli, Milano 2006, p. 163: «L’unione non c’è; al di fuori del campo economico e monetario essa (aggettivo o sostantivo che sia) è una parola vuota, una velleità». Ma anche su questo campo qualcosa lascia a desiderare se è fondata l’analisi di A. Alesina, F. Giavazzi, Goodbye Europa, Rizzoli, Milano 2006. Certo, a proposito di velleità, è difficile ritenere che l’Europa, nonostante la sua crescita, stia rispettando l’agenda di Lisbona del marzo 2000: «Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale».
12) Secondo i dati di Eurobarometro, autunno 2006, il 42% degli europei conosce poco o nulla delle istituzioni e politiche dell’Unione, il 53% trova l’Europa cosa buona, il 46% ne ha un’immagine positiva, il 48% vi nutre fiducia. Alla stessa data, la situazione in Italia è disastrosa. Il 54% degli Italiani non sa quasi nulla dell’Unione europea, il 39% pensa che essa abbia 15 Stati membri, il 53% non ritiene che il Parlamento europeo sia eletto a suffragio universale. In compenso, e a consolazione degli europeisti, il 56% degli Italiani dice di avere un’immagine positiva dell’Unione e il 58% la vuole più integrata politicamente.
13) De Bortoli, op. cit., p. 159.
14) Da parte tedesca, sono indicativi di questa angoscia gli scritti sull’Europa di J. Habermas. Il ricordo dell’Olocausto e la pace, come valore antiamericano, sono i soli due sentimenti su cui si basa il suo «patriottismo costituzionale». Cfr J. Habermas, L’Occidente diviso, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2005, cap. 5.
Quanto alla parte francese, per gli intello parigini l’europeismo è diventata l’ideologia sostitutiva del marxismo. Lo stato d’animo della Francia è impietosamente descritto da Pascal Bruckner: «I francesi, i quali erano maestri, grazie al generale De Gaulle, nell’arte di sovrastimarsi – l’uomo del 18 giugno era riuscito a farci credere che fossimo stati un unico grande popolo di resistenti – si ritrovano bruscamente a confronto con la propria perdita di importanza, e la tollerano male». Cfr P. Bruckner, La tirannia della penitenza (2006), trad. it. Ugo Guanda Editore, Parma 2007, p. 179. Per la conversione all’ideologia europeista di molti maoisti, e contestarori del ’68, è indicativa la biografia intellettuale e politica di Joschka Fisher, Bernard Kouchner e altri. Cfr P. Berman, Idealisti e potere. La sinistra europea e l’eredità del Sessantotto (2005), trad. it. Baldini Castaidi Dalai, Milano 2007.
15) A. Peyrefitte, in C’était De Gaulle, Éditions de Fallois, Fayard, Paris 1994, p.159. La riflessione del Generale è del 22 agosto 1962. «Riprende fiato», annota Peyrefitte, «come quando vuoi dar fondo al suo pensiero».
16) Ha scritto L. Siedentop: «La nuova Europa è essenzialmente un disegno francese, dapprima intesa a prevenire la rinascita della potenza tedesca, ma poi più o meno diventata, dopo il veto con cui De Gaulle (nel 1963) escluse l’Inghilterra per molti anni, una sfera di egemonia francese». Cfr L. Siedentop, Democracy in Europe, Penguin Books, London 2000, p. 111.
17) Per la storia e ben puntuali riflessioni su questo mancato inserimento, cfr R. De Mattei, De Europa. Tra radici cristiane e sogni postmoderni, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2006.
18) R. Schuman, op. cit., p. 146.
19) Ivi, p. 109.
20) Ivi, p. 37.
21) Cfr T. R. Reid, The United States of Europe, Penguin, London 2004, p.l.
22) Questa potenza è descritta e apprezzata da M. Leonard, Why Europe will run the 21st Century, Fourth Estate, London-New York 2005. Leonard vede tutti i vizi dell’Europa sotto forma di virtù e perciò parla di «sistema politico invisibile» sul «modello Visa», di «potere come sorveglianza», «aggressione passiva», «modo europeo di fare la guerra». Anche riguardo alle famigerate 80.000 pagine di editti europei e all’esercito di funzionari e controllori per farli rispettare a ogni nuovo Stato membro, Leonard vede_ una virtù: «II modello europeo è l’equivalente politico della strategia dei Gesuiti: se cambi un Paese all’inizio, lo avrai cambiato per sempre» (ivi, pp. 45-46). Niente però è detto dello stato d’animo degli allievi (i cittadini europei) dei Gesuiti di Bruxelles.
23) Non è un caso che l’Europa sia chiamata anche «non-America». Cfr T. Garton Ash, Free World, Penguin, London-New York 2004, cap. 2. In effetti l’America è l’ossessione dell’Europa, soprattutto della Francia, benché la sua gioventù sia una grande consumatrice di hamburger, coca-cola e ogni genere di prodotti americani. Quanto all’anti-americanismo, esso è uno delle componenti (l’altra è il pacifismo) dell’ideologia europeista, soprattutto di sinistra. Cfr il manifesto europeista di J. Derrida e J. Habermas in J. Habermas, L’Occidente diviso, cit., cap.2, nel quale si celebra il 15 febbraio come data di nascita della coscienza europea in ricordo delle manifestazioni del 2003 contro la guerra in Iraq nelle principali capitali europee. Per altri la data deve essere anticipata alla «dichiarazione di indipendenza dell’estate 2002 di Schroeder», quando il cancelliere tedesco disse «no» agli Stati uniti sulla guerra in Iraq. Cfr S. Hasseler, Super-State. The New Europe and its Challenge to America, I. B.Tauris, London-New York 2005, p. 52.
24) Su quanto in particolare il laicismo sia di ostacolo per la fondazione di una costituzione europea mi sono soffermato altrove. Cfr M. Pera, Europe without God and Europeans without Identity, American Enterprise Institute, 2006, in corso di pubblicazione.
25) Su questo punto è illuminante S. Belardinelli, «A che serve parlare di Dio? Sulla funzione sociale della religione», in L. Paoletti (a cura di), L’identità in conflitto dell’Europa, II Mulino, Bologna 2005, pp.141-55.
26) Non manca naturalmente chi sostiene che l’assenza di identità sia una virtù, forse la principale, dell’Europa. «L’Europa laica», secondo Hasseler (op. cit., pp. 134-35), «avrà un reale vantaggio in un mondo fondamentalista crescente… [L’approccio laico europeo] aiuterà la superpotenza europea ad evitare quel tipo di cristianesimo moralizzante universalistico che ha nutrito il colonialismo britannico e la moderna politica estera americana». Meglio laici che morti, insomma. I vantaggi dell’ideologia europeista sono apprezzati anche da J. McCormick, The European Superpower, Palgrave Macmillan, New York 2007; cfr p. 145: «Per riassumere, abbiamo gli Stati uniti con un forte senso di sé e un forte orgoglio di ciò che rappresentano, ma abbiamo anche crescenti livelli di antiamericanismo nel mondo. Al tempo stesso, abbiamo un’Unione europea che ha un senso di sé più debole e più modestia riguardo a ciò che vuole, ma troviamo minori prove di antieuropeismo, a eccezione di quelle fra gli stessi europei».
27) De Bortoli, op. cit., p. 159.