tratto da Il Sabato, 11 aprile 1987, n. 15.
Il dibattito su Gulag e Lager. Cosa accomuna due tragedie. Interviene Augusto Del Noce. Hitler e Stalin hanno un tabù in comune: il male. Avrebbero voluto dominarlo, estirparlo dalla storia. Chi identificandolo in una razza, chi in una classe. Perciò dire che Auschwitz rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso dai kulaki è illegittimo. Un grande storico del pensiero spiega perché.
Augusto Del Noce
Il Sabato ha dato ampio spazio alle controversie recenti riguardanti i genocidi che furono compiuti all’insegna della libertà, durante la rivoluzione francese (vedi Il Sabato n. 12, 1987) e tale contesa, destinata a essere oggetto essenziale del secondo centenario dell’89, è stata giustamente collegata con una polemica che si è svolta lo scorso anno in Germania nei riguardi della comparabilità o meno dei lager sovietici e dei lager nazisti (1).
In questo loro incontro tali controversie si dilatano sino a portare ad approfondimenti di estrema importanza sia in rapporto al problema etico-filosofico della violenza che all’interpretazione generale della storia contemporanea. Trattando della polemica tedesca comincerò col parlare dei dire principali antagonisti, lo storico-filosofo Ernst Nolte a cui si sono affiancati i più illustri studiosi del periodo nazista (lo Hillgruber, lo Hildebrand, il Fest) e il sociologo Junger Habermas. Questa secondo, il più noto se non il più autorevole tra i rappresentanti presenti della scuola di Francoforte, non ha davvero bisogno di presentazioni.
Del tutto diverso è il caso del primo della cui opera in Italia si è sentita assai poca eco, per quanto negli anni recenti dall’interpretazione “demonizzante” del fascismo si sia passati a quella che abitualmente vien detta revisionistica, quanto a dire dalla polemica alla storia. Passaggio che può essere dato, a parte brevi contributi anteriori – e mi sia consentito ricordare qualche mio lontano scritto – nel libro Der Faschismus inseiner Epoche che Nolte pubblicò nel 1963 e che fu tradotto in italiano con lo strano titolo I tre volti del fascismo, così da suggerire l’idea di un unica essenza del fascismo suscettibile di manifestarsi in una varietà di espressioni (il Nolte si occupava dell’Action française, del fascismo e del nazismo).
Il fascismo cos’è.
Effettivamente l’idea di un’essenza comune ai tre movimenti in quell’opera c’era, ma ne rappresentava la parte più debole; e rappresentava altresì il punto d’aggancio con le consuete interpretazioni che vedono nel fascismo l’epilogo del pensiero reazionario e controrivoluzionario in una via che ha origine nei primi critici della rivoluzione francese e che successivamente si secolarizza nella forma di irrazionalismo (2).
Il punto essenziale che il Nolte aveva il gran merito di aver proposto era invece quello secondo cui soltanto una rigorosa analisi filosofica è in grado di render conto della storia contemporanea; si tratta di una storia che nasce dalla filosofia (si pensi infatti alla “filosofia che si fa mondo” di Marx) come la storia medioevale nasce dalla religione; altrimenti diventa inevitabile il lasciarsi fuorviare, come è avvenuto e avviene, dagli infiniti ed inesauribili aspetti secondari.
Non che la persuasione che soltanto questa rigorosa problematica filosofica alla cui luce si leggono gli eventi, sia la sola a permettere quella revisione che coincide col passaggio alla storia; né si può dire che questo sia avvenuto, negli stessi autori che più si sono impegnati nella linea revisionista. Soggiungo che la reciproca è vera, e che se non ci si richiama a quell’interpretazione “transpolitica”, di cui l’opera del Nolte rappresenta finora il più autorevole esempio, si ricade inevitabilmente nel “mito negativo” del fascismo come il “male radicale”. Senza avvedersi che il male si presenta sempre in forme nuove e non esauribili e che fascismo e nazismo sono forme ormai lontane e spente, e perciò consegnabili alla storia, e che diverso, e non prevedibile durante gli anni trenta, è il male che oggi ci minaccia.
Ora, Nolte in un articolo apparso il 6 giugno sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung si era proposto le seguenti domande: «I nazisti, Hitler, compiono un’azione “asiatica” forse solo perché si considerano potenziali o reali vittime di un’azione “asiatica”? L’arcipelago Gulag non era più originale di Auschwitz? L’ “assassinio di classe” dei bolscevichi, non era il “prius” logico e fattuale dell'”assassinio di razza” dei nazionalsocialisti?».
E’ affatto superfluo osservare come la domanda sulla priorità logica che è altresì priorità di fatto del Gulag rispetto ad Auschwitz non diminuisce affatto l’orrore per le camere a gas di questo campo. La domanda riguarda invece il loro nesso ideale, il fatto che non vi sia una continuità di principio tra le punte estreme del terrore giacobino (quali si manifestarono, ad esempio, negli innegabili genocidi della Vandea, che solo oggi in opere recenti hanno avuto documentazione piena), i metodi già approvati e incoraggiati da Lenin per distruggere i nemici del “popolo”, il “grande terrore staliniano” (venti milioni di vittime), le stragi naziste, quelle di Mao (cento milioni, pare), del Vietnam, del regime di Pol Pot in Cambogia, fino agli orrori più recenti.
A questa tesi della «metafisica sotterranea» immanente agli stermini, si oppone quella, di circolazione assolutamente prevalente dal ’45 in poi, secondo cui i tempi nazisti rappresentano nella storia degli orrori un unicum. Da una parte i tanti orrori che si sono verificati nella storia, e ad essi apparterrebbero così quelli di Stalin come quelli di Cambogia; riconducibili a condizioni arretrate e a tradizioni barbariche dei popoli in cui erano avvenuti (così, ad esempio, è d’uso consueto il parallelo tra Ivan il terribile e Stalin) o a parentesi di follia in una storia che è pure storia della liberazione (la leggenda, nella rivoluzione sovietica, della «parentesi staliniana»). Crimine senza analoghi nella storia quello di Hitler.
Auschwitz come il Golgota; là, la morte del figlio di Dio, qui la morte del Padre (la frase di “Dio morto ad Auschwitz” circolò infatti ai tempi dei “teologi della morte di Dio”). La nuova teologia avrebbe dovuto iniziare con la presa di coscienza di un dato di fatto “la morte di Dio ad Auschwitz”, e diventò corrente per lo sterminio operato da Hitler un termine che non piace né a me né al Galli della Loggia (3) per il carattere nettamente divisorio che stabilisce rispetto agli altri orrori, e al conseguente sapore sacrificale-religioso, quello di olocausto.
La ragione fondamentale su cui si fonderebbe questa distinzione qualitativa è la netta contrapposizione tra violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria. Sostanzialmente inevitabile la prima pur se, nel mazzo, colpisce anche innocenti; si tratta certo di non compiacersene -e infatti i difensori di Stalin sono oggi pochi- di cercare di limitarla, ma, insieme, di dimenticarla; di assimilarla a una calamità naturale o a un momento doloroso ma difficilmente evitabile del progresso.
La condanna della violenza reazionaria deve essere invece senza appello quale che sia. Le cose però non sono così chiare. Dobbiamo a questo punto affrontare il problema del rapporto ideale tra comunismo e nazismo, di quella priorità logica del Gulag di cui parla Nolte e del carattere, a suo modo, rivoluzionario del nazismo. E qui mi richiamo a un mio scritto che apparve su queste colonne (Il Sabato n. 13, 1983) in occasione del cinquantenario dell’ascesa di Hitler ai potere.
Richiamandomi alle idee del Padre Fessard, originalissimo quanto dimenticato interprete dell’attualità storica (De l’actualité historique, 1960, si intitola la maggiore delle sue opere) sulla “comune origine ideale di comunismo e di nazionalsocialismo” vedevo nel nazismo l’esatto contrario dei comunismo, nel senso che ne riproduce, rovesciati, ma con completa simmetria, i caratteri. Realizzando, insomma, in pieno quella “rivoluzione in senso contrario” in cui già De Maistre vedeva il massimo errore in cui il pensiero e l’azione controrivoluzionari possano incorrere.
Giungevo con ciò alla definizione del nazismo come del contraccolpo tedesco dello scacco che il marxismo aveva subito rispetto alla sua intenzione di rivoluzione mondiale e alla conseguente inversione, nei cui sviluppi è l’intera storia della Russia sovietica, per cui al primato della speranza nella rivoluzione universalmente liberatrice, si sostituisce quella del predominio della Russia tra gli altri stati.
Bisogna parlare a proposito di comunismo e di nazismo di una prima simmetria nell’opposizione diametrale: alla società marxista senza classi e senza stato alla conseguente abolizione del Signore si oppone, nel nazismo, la lotta a morte per “il dominio del popolo dei signori”. Ma questa opposizione non si spiega se non in relazione allo scacco e all’inversione di cui si è detto, ed è da essa che procede quella somiglianza e stima reciproca tra Stalin, simbolo di questa inversione, e Hitler. Subordinazione, dunque, dell’hitlerismo al momento staliniano – in realtà già presente in Lenin – della realizzazione storica del marxismo, onde in ragione di questa espansione dei popoli slavi, la paura per l’estinzione del germanesimo, come dato primo su cui il nazismo si organizza.
A chi ubbidiva Hitler.
Da ciò una conseguenza che penso importantissima: quel che spiega il nazismo non è affatto la continuazione, portata al punto ultimo della linea irrazionalistica del pensiero tedesco (sta qui la debolezza o quantomeno il limite di opere che pure sono importanti, quali Dai romantici a Hitler di Viereck o La distruzione della ragione di Lukàcs). Per intenderlo occorre isolarlo nella sua opposizione, che è insieme subalternità alla fase staliniana del marxismo; in questo isolamento e in questa dipendenza appaiono i tratti di quell’organica concezione del mondo, a cui Hitler obbedisce piuttosto che servirsene. Dalla prima simmetria è facile passare alle altre, e mi fermerò qui alle due fondamentali e complementari.
Alla classe viene sostituita la razza, e si stabilisce quell’unità sino all’identificazione di nazismo e di antisemitismo che qualifica il nazismo; antisemitismo che, come oggi si tende a riconoscere (4), ha un suo carattere proprio, irriducibile agli altri antisemitismi della storia. Altra simmetria. Alla dimensione del futuro propria del marxismo si oppone il richiamo nazista alla dimensione del passato; alla laicizzata escatologia marxista che pone la società perfetta alla fine dei tempi corrisponde il mito nazista che la pone in una situazione anteriore allo sviluppo della storia.
La rivoluzione nazista, sia pure nella forma di rivoluzione contro la rivoluzione, aveva il fine di realizzare un “uomo nuovo” che avrebbe dovuto corrispondere al tipo arcaico mai finora realizzato nella sua purezza, dell’ariano. L’opposizione dell’ariano e dell’ebreo prende la forma dell’antitesi di natura e di antinatura sul fondamento che solo l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, cerca di trasgredire alle leggi di natura, e di fatto nello sviluppo storico vi ha trasgredito. Anche qui, allo storicismo marxista si oppone il più completo naturalismo; e forse questa è la formula più adeguata, capace di far intendere nel suo significato pieno.
Questa simmetria nell’opposizione spiega anche come per il nazismo si debba parlare di rivoluzione (“in senso contrario” ho già detto) piuttosto che di reazione; all’odio per il bolscevismo si accompagnò nel nazismo quello per il vecchio mondo, provato dall’assenza di quel richiamo a qualche precedente età storica, che caratterizza il pensiero reazionario.
Simboliche di questa attitudine sono le parole scritte da Goebbels all’epoca dei grandi bombardamenti: “in una con i monumenti della cultura crollano anche gli ultimi ostacoli che si opponevano alla realizzazione del nostro compito rivoluzionario. Adesso che tutto è distrutto siamo costretti a ricostruire l’Europa… Le bombe, anziché sterminare tutti gli europei, non hanno fatto che abbattere le mura del carcere che di tenevano prigionieri… al nemico che tentava di annichilire il futuro dell’Europa è riuscito soltanto la distruzione dei passato, in tal modo facendola finita con tutto il vecchiume e il sorpassato”.
In quello scritto di quattro anni fa mi sembrava di aver condensato, partendo da una fenomenologia filosofica, il risultato delle ricerche sul nazismo sino allora compiute, per quel che riguarda la sua essenza; e mi era parso che il riscontro tra questa fenomenologia e le opere strettamente storiche me lo assicurassero. E’ superfluo dice che lo scheletro di interpretazione presentato allora conduce esattamente alle domande che il Nolte ha proposto e concordare colla sua soluzione. Non si può parlare infatti, per lui, di una singolarità e unicità dei crimini nazisti, altrimenti che nel riguardo del “procedimento tecnico della giustificazione”.
Il nemico oggettivo.
Torniamo al problema della violenza rivoluzionaria. Chi sostiene i lager sovietici e i nazisti non può fondarsi che sulla distinzione tra due forme di violenza, la rivoluzionaria e la reazionaria: almeno parzialmente giustificabile la prima, anche se colpisce innocenti, condannabile senza appello la seconda. Come infatti si autogiustificano i rivoluzionari? Attraverso l’argomento dell’ “umanità nuova”. Il mondo diventerebbe un paradiso se scomparissero, senza lasciar traccia, a seconda delle varie forme, o i preti, o i borghesi, o gli ebrei. Il nemico “oggettivo” deve essere dunque “nientificato”; cancellato dalla faccia della terra, come se non fosse mai esistito; eliminato dallo stesso ricordo (si è spesso insistito sulla cancellazione della “memoria storica”).
La violenza rivoluzionaria è una forma di soluzione immanentistica del problema del male. Posta in questi termini la questione, si può certamente dire che le camere a gas riescono a dare l’immagine sensibile più compiuta di quella nientificazione che è intrinseca alla violenza rivoluzionaria; ma questa compiutezza non autorizza però a parlare di una distinzione qualitativa dalle altre forme. Ma ha poi fondamento la distinzione tra violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria?
Se si parla di violenza come progetto sistematico di annientamento, soltanto alla rivoluzionaria si addice tale qualifica, perché per essa la colpa sta nell’appartenenza a un ceto, a una classe, a una razza; nonché per il carattere di retroattività con cui le sue condanne sono motivate. Parlare di violenza reazionaria -si intende in quel preciso senso di cui si è detto, di nientificazione- è alla lettera un non senso: se ne ha una conferma nell’unico progetto controrivoluzionario che sia riuscito per una lunga durata nell’Europa di questo secolo: il franchismo.
Lasciando ora da parte qualsiasi giudizio nei suoi riguardi e non negando certo il suo carattere antidemocratico, non si può certamente dire che, per quel che riguarda le persecuzioni e il terrore, sia stato anche lontanamente simile agli esempi che dianzi abbiamo ricordato. L’unico cimitero in cui sono state raccolte le salme dei caduti delle due parti è la dimostrazione più piena di come l’idea della nientificazione gli sia estranea.
Il male del secolo.
Come spiegare dunque la reazione, così dura, di Habermas. Egli nei discorsi “revisionisti”, e in particolare in quello di Nolte, vede soltanto una manovra politica conservatrice, mascherata come ricerca scientifica. Scrive infatti a conclusione del suo secondo intervento, il 20 novembre: “ma i conteggi presentati da Nolte e da Fest alla grande opinione pubblica non servono alla chiarificazione. Essi colpiscono la morale politica di una comunità che, dopo una liberazione ad opera delle truppe alleate e senza un proprio contributo, è stata edificata nello spirito dell’ideale occidentale di libertà, responsabilità e autodeterminazione”.
Parole aspre che hanno il suono di una denuncia. Significa: gli intellettuali che si presentano come revisionisti e fanno finta di essere soltanto preoccupati di ristabilire la verità storica, sono in realtà dei neoconservatori preoccupati di ricollegarsi con la tradizione tedesca attraverso la cancellazione dell’ “ossessione della colpa”. La loro via è obbligata: non bastano infatti il parallelo su cui pure si insistette tra i campi di sterminio e il bombardamento di Dresda; la sola tesi che può acquisire una certa apparenza di plausibilità è quella secondo cui il Gulag sarebbe “più originario” di Auschwitz.
Ma, in realtà, il suo ragionamento può venire rovesciato: la sua posizione corrisponde a quella che, spiegabile negli anni di guerra, si consolidò negli anni successivi per opera delle forme culturali neoilluministiche o neomarxistiche: di quelle cioè per cui le parti in lotta, che erano lo spirito del progresso e lo spirito della reazione per gli illuministi, la rivoluzione e la reazione per i marxisti.
Lo spirito reazionario avrebbe perduto come di positività che ancora poteva mantenere nei passato contro forme inadeguate di progressismo (non per nulla la cultura di sinistra rivaluta oggi, per esempio,certi aspetti del pensiero di De Maistre o, dopo essersi impadronita di Nietzsche, flirta oggi con gli Schmitt, con gli Junger, eccetera). In questa totale perdita dei tratti positivi avrebbe dato luogo al fascismo, diventato perciò il “male del secolo”. Il culmine del fascismo sarebbe stato il nazismo; e, per sostenere questo “mito negativo del male assoluto”, occorreva l’asserto dell’unicità e della singolarità senza analoghi degli orrori a cui aveva dato luogo (e che nessuno, sia ben chiaro, intende sminuire; un orrore non cessa di essere tale per non essere singolare e unico).
E poi venne il secolarismo.
Il concetto di conservazione è relativo; dopo quarant’anni di predominio si è fatta oggi conservatrice la cultura di sinistra, che, del resto, come ben si sa, poco ha a che fare con riforme sociali davvero atte a ridurre gli squilibri e a realizzare il bene comune; e che, piuttosto, qualifica oggi in Occidente la borghesia illuminata. I mali presenti sono certamente estremamente diversi da quelli degli anni Trenta (per non parlare degli anni di guerra).
Certo l’Europa ha goduto di un periodo di pace, per una durata quale mai nei secoli aveva conosciuto, ma perché non è negli interessi delle superpotenze che diventi zona di guerra. Si è avuto un aumento del benessere come conseguenza del progresso tecnico. Ma non voglio soffermarmi qui sull’altra faccia, del resto ben nota; e la cultura progressista si mostra incapace a superarne i mali.
Associando la comparabilità dei campi sovietici e dei nazisti all’intrinsecità del momento della nientificazione del “nemico oggettivo alla violenza rivoluzionaria”, il Nolte e gli storici tedeschi che gli si sono uniti hanno posto la cultura di sinistra in una condizione di crisi, che è realissima e insuperabile, anche se per ora vi si è rivolta soltanto l’attenzione di pochi. Ma occorre andar oltre, cosa che questi storici non hanno direttamente fatto, e che è compito soprattutto del filosofo: mostrare come fatto comune di queste forme rivoluzionarie siano il materialismo, l’ateismo, il secolarismo.
All’idea progressista secondo cui il male del secolo sarebbe stato ed è ancora il fascismo (inteso come termine collettivo per le forme insieme antidemocratiche e anticomuniste) bisogna sostituire quella che è il secolarismo; in cui rientrano certo come sue forme il fascismo e il nazismo, ma non come le sole.
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NOTE
(1) Se ne è già parlato anche in Italia. Particolarmente importanti gli articoli di Gian Enrico Rusconi Se Hitler non è più tabù, seguito dalla traduzione degli interventi di Habermas a cui Rusconi è sostanzialmente favorevole. In MicroMega ottobre-dicembre ’86 e di Ernesto Galli della Loggia Un lager vale l’altro in Panorama, 8 marzo ’87.
(2) Per questa interpretazione, particolarmente in ciò che riguarda la connessione tra fascismo e irrazionalismo, è importante la lettura dello scritto di Norberto Bobbio L’ideologia del fascismo (1975, ora nell’antologia sulle interpretazioni del fascismo curata da Costanzo Casucci, in Il Mulino, Bologna, 1982 sgg).
(3) Art. cit.
(4) Si veda, ad esempio, nello stesso numero di MicroMega dianzi cit. l’art. di Wlodek Goldkorn Non tutti i Pogrom portano ad Auschwitz.
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