tratto da Il Sabato, 26.3.1983, n. 13, p. 19-20.
Non è un paradosso. Gli storici spesso hanno chiuso un occhio. E non hanno visto che l’opposizione era solo dettata da ragioni contingenti. Ma in fondo la loro cultura era la stessa. Con questo intervento Del Noce mette chiarezza.
Augusto Del Noce
Nel novembre 1946 il gesuita Padre Fessard svolse al primo Congresso internazionale di filosofia del dopoguerra, tenuto a Roma, una comunicazione sulla «comune origine di comunismo e di nazionalsocialismo» che poi ripubblicò, ampliata, nel libro del 1960 De l’actualité historique. Scarsissima fu l’eco di questa che pure deve essere considerata come una delle opere-chiave per l’interpretazione della storia contemporanea.
Passò pressoché ignorata, senza lodi e senza stroncature, anche nella cultura a cui era particolarmente indirizzata, la cattolica, troppo occupata nell’ascolto e nel plauso dei «mediatori ideologici» con forme di pensiero con essa non conciliabili. Credo si debba vedere nello sviluppo successivo della storiografia sul nazismo, soprattutto a partire dal libro di Ernst Nolte sul Fascismo nella sua epoca (1963) e da quello di Eberhard Jackel La concezione del mondo di Hitler (1969) l’inconsapevole riscoperta e l’allargamento, e la conferma con i dati documentari, dell’ipotesi contenuta nell’ignoratissimo saggio di Fessard.
Quali ne erano i temi essenziali? Il primo che, al modo stesso del marxismo, il nazionalsocialismo è una coerente concezione del mondo. Il secondo, che tale concezione è l’«esatto contrario» del marxismo e del comunismo. Tutto qui? Ma i giudizi valgono per le abitudini mentali che criticano e negano, e se le si considera sotto questo riguardo, ci si accorge che queste tesi, semplici nella loro apparenza letterale, avevano, e soprattutto continuano ad avere, un valore dirompente. La prima dice infatti che l’interpretazione della storia contemporanea non può essere che transpolitica, nel senso di accentuare la priorità del momento filosofico (la «filosofia che si fa mondo» del giovane Marx, smentendo le interpretazioni economicistiche e sociologiche correnti).
Soprattutto, per intenderne la portata, occorre avere in mente che negli anni ’50 faceva testo la biografia di Hitler, del resto pregevole sotto vari aspetti, scritta da Alan Bullock. Hitler vi veniva rappresentato come un opportunista assolutamente privo di principi come la personificazione della volontà di potenza nella forma più rozza e ingenua, tale da non poter neppure mascherare sotto princìpi morali di apparenza universale il suo fine che altro non era che la potenza e il dominio.
Ogni idea non sarebbe stata per lui che strumentale, al servizio di una sete di potere, anzi di dominio su tutto il mondo unita a una rabbia distruggitrice a un odio implacabile per coloro che vengono oscuramente sentiti come superiori; l’assenza totale di scrupoli venendo giustificata dalla sottomissione dell’ordine politico alle leggi della natura, ove si svolgono confronti di forze per cui vale la legge della giungla. Chi non ha letto, o meglio non continua a leggere nella pubblicistica attuale, le caratterizzazioni di un Hitler «psicopatico», o «piccolo borghese giunto al fanatismo» o strumento «di capitalismo al tramonto», dello «spirito di conservazione e di rivalsa della vecchia Germania» o espressione di un oscuro «demone» che travaglierebbe, o almeno avrebbe storicamente travagliato la Germania?
Che i giudizi consueti sull’hitlerismo non oltrepassino questo livello non ci vuol molto ad accorgersene. Ora l’idea di una concezione barbarica ma rigorosa e coerente, toglie di mezzo le interpretazioni meramente psicologiche o sociologiche, o quanto meno serve a collocare al loro giusto posto quanto di vero possono contenere.
Due dittatori uguali e contrari.
Rispetto alla seconda, dal dire il nazismo è l’esatto contrario del marxismo, consegue che il parallelo deve essere fatto tra comunismo e nazismo, piuttosto che alla maniera ordinaria tra fascismo e nazismo (contro l’opinione ordinaria si deve dire che il nazismo non è l’estremizzazione ultima del fascismo; che c’è una razionalità nella storia contemporanea e che l’alleanza col nazismo rappresentò non soltanto la fine pratica, ma anche quella ideale del fascismo).
Ma che cosa precisamente si vuol dire con l’asserzione che deve essere presa rigorosamente alla lettera, che il nazismo sia stato l’esatto contrario del comunismo: che riproduce rovesciati, con completa simmetria, i caratteri del comunismo, cosa che non si può dire di alcun altro movimento anticomunista, e tanto meno del fascismo. Sembra che tra i movimenti storici dal primo Ottocento a oggi il nazismo realizzi pienamente i caratteri di quella «rivoluzione in senso contrario» in cui De Maistre vedeva la forma del tutto inadeguata di reazione. Possiamo tentare di passare da ciò a un tentativo di definizione? Penserei alla seguente: il nazismo è stato il contraccolpo tedesco dello scacco che il marxismo ha subìto con lo stalinismo.
Certo, nessun marxista avrebbe potuto prevedere che il marxismo si sarebbe storicamente realizzato attraverso il populismo russo, con segno religiosamente opposto ma pur sempre religioso; sostituendo allo zarismo un’altra classe dominante che, però, porta i caratteri dello zarismo rispetto alle masse slave dominate alle conseguenze estreme.
L’apparente paradosso svela la logica interna di un sistema filosofico. Stalin, nella cui opera spesso si vede «la rivincita della vecchia Russia» è in realtà colui che opera la giuntura tra il marxismo e la tradizione russa, continuando Lenin, la cui rivoluzione non sarebbe riuscita, se non avesse, già lui, accordato l’idea della rivoluzione liberatrice mondiale con quella del primato russo. Con Stalin l’idea della rivoluzione liberatrice mondiale cede rispetto a quella del primato russo. Si parli finché si vuole di «rivoluzione tradita», bisogna riconoscere uno scacco del marxismo in Stalin, perché l’idea della rivoluzione liberatrice mondiale con lui si perde senza poter più risorgere; resta però che senza Stalin, del comunismo non resterebbe oggi che un lontano ricordo.
L’irrazionalismo fuori luogo.
Torniamo ora alla simmetria tra comunismo e nazismo. Scrive perfettamente il Fessard: «Comunismo e nazionalsocialismo si oppongono diametralmente, così in quel che concerne il punto di partenza della storia come la sua fine: per il primo è il lavoro e la creazione della società senza classi e senza Stato; la lotta a morte e il dominio del popolo dei signori, per il secondo. Non si intendono che nel mezzo di condurre la storia al suo fine.
Per entrambi è la lotta politica, ma compresa dall’uno come rivolta degli schiavi e rivoluzione, dall’altro come guerra nazionale dei padroni e pace vittoriosa» (De l’actualité historique, tomo 1, p. 141; le sottolineature sono nel testo). Dove invece il Fessard non persuade è nel cercare l’origine dell’opposizione nel passo della Fenomenologia dello Spirito di Hegel dedicato alla dialettica del padrone e dello schiavo. Nella prova che esso abbia esercitato una particolare influenza nella formazione del pensiero di Marx, che non lo cita mai, certamente di una qualsiasi influenza del pensiero hegeliano su Hitler non si può parlare, non certamente diretta, ma neanche indiretta.
Non è che Marx e Hitler abbiano decomposto la dialettica hegeliana del Padrone e dello Schiavo, comprendendola il primo dal punto di vista dello schiavo, il secondo dal punto di vista del padrone. Quel che invece spiega storicamente l’hitlerismo è la sua subordinazione al momento staliniano della realizzazione storica del marxismo caratterizzato dal mutamento per cui la rivoluzione si risolve nell’orientamento dell’espansione dei popoli dell’Est; onde la paura per l’estinzione del germanesimo, come dato primo su cui il nazismo si organizza.
Mi si permetta di insistere su questo punto: quel che spiega l’hitlerismo non è affatto la continuazione, portata al punto ultimo della linea irrazionalistica del pensiero tedesco, o delle correnti di pensiero che si erano formate nell’Ottocento in termini di critica negativa della rivoluzione francese o dei movimenti conservatori dell’Europa delle due guerre o dello stesso fascismo. Per intenderlo occorre isolarlo nella sua opposizione, che è insieme subalternità alla fase staliniana del marxismo, in questo isolamento e in questa dipendenza appaiono i tratti di quella organica concezione del mondo, a cui Hitler obbedisce, piuttosto che servirsene.
Il difetto del richiamo al passo hegeliano sta nel fatto che esso non serve a rendere ben conto dell’aspetto di dipendenza del nazismo rispetto al marxismo (sembrano invece essere posti sullo stesso piano), e, in più, rischia di non spiegare le simmetrie nelle loro particolarità. L’accentuazione della dipendenza (rispetto a cui la sconfitta sembra assumere un significato simbolico) porta a vedere nel nazismo un fenomeno conseguente alla crisi, irreversibile e insuperabile, che il marxismo incontra nel farsi storia.
Rispetto agli aspetti simmetrici, brevemente. Tutto avviene nel nazismo come se criterio di verità fosse la sostituzione di una categoria comunista con l’esattamente contraria, tale però sempre nello stesso orizzonte materialistico del marxismo. Così alla classe viene sostituita la razza; conseguentemente, l’ebreo diventa il portatore assoluto del male. L’unità sino all’identificazione di antimarxismo e di antisemitismo qualifica il nazismo.
Nell’opinione corrente nel primo dopoguerra c’erano certamente elementi che favorivano questa persuasione: l’origine ebraica di Marx e l’idea, diffusa in quegli anni, sulla preponderanza degli ebrei tra i capi del bolscevismo, nonché la voce corrente allora, che lo stesso Lenin fosse ebreo. Non sono tuttavia argomenti che servano a spiegare l’antisemitismo nazista nel suo carattere proprio, irriducibile agli altri antisemitismi della storia; per il nazismo non si trattava soltanto di una congiura per il dominio mondiale a cui la maggioranza degli ebrei, e degli ebrei potenti, avrebbe partecipato; gli ebrei erano colpevoli per il loro essere (per il loro «sangue»), di cui le idee -che nel loro risolversi in forma pratica rappresentavano il pericolo mortale per la Germania e per l’Europa- erano l’espressione necessaria.
Alla dimensione del futuro propria del marxismo si oppone il richiamo nazista alla dimensione del passato; alla laicizzata escatologia marxista che pone la società perfetta alla fine dei tempi corrisponde il mito nazista che la pone prima della storia. La rivoluzione nazista sia pure nella forma di rivoluzione contro la rivoluzione, aveva il fine di realizzare un «uomo nuovo», che avrebbe dovuto corrispondere al tipo arcaico, mai finora realizzato nella sua purezza, dell’ariano.
L’opposizione dell’ariano e dell’ebreo prende anche la forma dell’antitesi di natura e antinatura sul fondamento che «solo l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, cerca di trasgredire alle leggi di natura». Allo storicismo marxista si oppone quindi il più completo naturalismo; e forse questa è la formula più adeguata, capace di fare intendere nel suo significato pieno la stessa opposizione di classe e di razza.
All’idea di rivoluzione si oppone quella di guerra, come guerra assoluta; guerra che risolve in sé la politica, e che perciò non può presentarsi che come guerra di sterminio, rinunciando a ogni maschera di «liberazione» o di «crociata»; privata così di un’arma che si sarebbe rivelata preziosa (lo pensa ad esempio, lo stesso Solgenitzin) nella guerra contro la Russia sovietica. Si dovrebbe dire che il rigore della coerenza portò il nazismo a sacrificare delle reali possibilità di successo. Lo portò anche all’impossibilità di contrarre effettive alleanze.
Anche da questo rapido cenno risulta come i tratti che si sono storicamente realizzati fossero già predeterminati nella concezione hitleriana. Essa, formatasi per negazione e per antitesi, spiega il destino di distruzione che gravava sul nazismo, distruzione che in definitiva lo coinvolse (ed è perciò che a differenza di ogni altro fenomeno storico, nulla di esso sopravvive); se si può parlare di un genio di Hitler, si può soltanto farlo -forse lo si deve- in termini di genio della distruzione.
Il Fest (Hitler 1973), che si è anche soffermato sul disperato impulso suicida da cui Hitler fu accompagnato lungo tutto l’arco della sua esistenza, ha osservato giustamente che in lui all’odio che può sembrare reazionario per il bolscevismo si accompagnò quello rivoluzionario per il vecchio mondo, provato dall’assenza di richiamo ad alcuna precedente età storica. E cita delle affermazioni dell’ultimo Goebbels così ricche di significato da meritare di essere riportate per esteso: «In una con i monumenti della cultura, crollano anche gli ultimi ostacoli che si opponevano alla realizzazione del nostro compito rivoluzionario.
Adesso che tutto è distrutto, siamo costretti a ricostruire l’Europa. In passato, la proprietà privata ci ha imposto atteggiamenti di ritegno borghese; ma adesso le bombe, anziché sterminare tutti gli europei, non hanno fatto che abbattere le mura del carcere che li tenevano prigionieri… Al nemico che tentava di annichilire il futuro dell’Europa, è riuscita soltanto la distruzione del passato, in tal modo facendola finita con tutto il vecchiume e il sorpassato». E certamente Goebbels ha ragione perché le condizioni storiche tedesche furono definitivamente travolte nella rovina del nazismo; così il sistema feudale e autocratico, solo parzialmente compromesso dal trattato di Versaglia.
Così avanzava la sconfitta.
Si può dire che si trovino già iscritte nell’essenza del nazismo il suo destino di sconfitta, la sua necessaria ferocia, la sua condanna all’infamia.
Destino di sconfitta perché, nato dalla paura ossessiva dell’estinzione del germanesimo a opera del colosso bolscevico e del cervello ebraico, non poteva veder che nemici ovunque; e neppure si può dire che Hitler si fidasse completamente dei tedeschi, i veri ariani erano soltanto la SS e la stessa Wehrmacht era guardata con sospetto.
Perché l’azione di sterminio non fu semplicemente un’esplosione di furore ma -e qui appunto è il massimo dell’orrore- un «dovere» imposto dalla concezione nazista del mondo, anche se, per quel che pare, come azione pratica fosse tenuta così rigorosamente segreta (all’infuori delle SS che fungevano, a loro modo, da «iniziati»), da essere ignota alla grandissima maggioranza del popolo tedesco e alla Wehrmacht. La ricerca della coerenza organica della concezione hitleriana, se per un verso restituisce il nazismo all’umanità, come è compito imprescindibile dello storico e, in questo caso, di chi pensa non sia possibile fare oggi una filosofia e una politica serie senza una comprensione rigorosa della storia contemporanea, significa per l’altro l’irrevocabilità di una condanna senza possibile appello.
Né si può parlare di una sua sopravvivenza, o possibile rinascita. Il nazismo è scomparso in ragione dell’obbligazione logica da cui dipendeva; non certo per ragioni morali -perché proprio si è diffuso come non mai il principio che qualsiasi atrocità è giustificata dal successo- ma perché aveva posto nella forza il suo criterio, e la forza si è pronunciata altrimenti.
Come la concezione hitleriana riuscì a ottenere un consenso che neppure la pressoché assoluta certezza della sconfitta riuscì sostanzialmente a incrinare? Vi contribuì la dissennata politica culturale della repubblica di Weimar volta ad abbassare e ad infangare i valori della tradizione morale tedesca ma, soprattutto, l’occasione decisiva fu fornita, a una Germania già moralmente dissestata, dalle desolanti condizioni economiche successive alla crisi del ’29 che la posero davanti a una scelta fra due opposte rivoluzioni, la comunista e la nazista.
Detto questo, quale si può dire sia stato il vizio capitale teorico iniziale del nazismo, quello di cui gli altri errori furono le conseguenze? Dobbiamo vederlo nella forma della sua opposizione al marxismo. E’ nozione comune vedere nel marxismo una continuazione dell’hegelismo separato completamente dal platonismo; è in dipendenza da ciò che il giovane Marx definisce l’uomo come «un animale che ha dei bisogni», materiali, imperativi e ineluttabili, onde il primo fatto storico e la condizione fondamentale dell’intera storia è la produzione della vita materiale (l’inizio della «filosofia del fare» opposta alla metafisica dell’essere). Ora, è proprio questo antiplatonismo, questo rifiuto di quel che qualche pensatore ha chiamato la «cattolicità naturale» del pensiero classico quel che il nazismo condivide; perciò costretto a realizzare quell’«esatto contrario» del marxismo di cui si è detto.
Esempio, dunque, non superabile della cattiva confutazione del marxismo, che tuttavia serve a documentare l’assenza di universalità. Per concludere, accennando a un tema che sarebbe di estrema importanza riprendere. Negli ultimi mesi di vita, Simone Weil definì quale avrebbe dovuto essere la domanda morale essenziale del dopoguerra: «Con quale diritto possiamo condannare Hitler»? (la condanna della storia evidentemente non basta), intendendo dire che questa condanna importava una rivoluzione intellettuale e morale. Si preferì battere tutt’altra via, eludendo completamente questa domanda.
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