Il recente caso di Rossano, in cui un bimbo di 22 settimane sopravvissuto all’aborto è stato lasciato agonizzare nella sala operatoria per un giorno intero, e che solamente in seguito alle proteste di un religioso è stato posto in un’incubatrice dove è morto poco tempo dopo, oltre ad accendere i riflettori sull’orrore dell’aborto, consente delle riflessioni più approfondite sulla legge 194/1978 che da oltre trent’anni regolamenta la cosiddetta interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese.
Nel caso in questione il medico è stato accusato di non aver prestato soccorso al bambino sopravvissuto all’aborto e si è invocato il mancato rispetto delle condizioni necessarie per autorizzare l’aborto, dato che la mamma non era in pericolo di vita e l’età del feto intorno alle 22 settimane, dunque con possibilità di vita autonoma fuori dell’utero materno.
Occorre però sottolineare come la legge non preveda un limite cronologico preciso oltre cui non sia possibile interrompere la gravidanza, ma come tale limite venga identificato con l’epoca nella quale sussiste la possibilità di vita autonoma del feto (194/1978 art. 6, 7).
Secondo la stessa Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia non è possibile stabilire un limite certo di vitalità valido per tutti i feti (Atti della Società di Ginecologia e Ostetricia – vol. LXXXV).
Il Decreto direzione generale sanità n° 327 del 22/01/2008 della Regione Lombardia, afferma che «I dati scientifici oggi a disposizione indicano che a 23 settimane di età gestazionale è possibile la vita autonoma del neonato. Considerato però che è dimostrato un margine di errore nella datazione della gravidanza, anche se effettuata in epoca gestazionale precoce, e che la possibilità di vita autonoma del neonato migliora, tra la 22ª e la 24ª settimana, del 2-3 percento per ogni giorno di gravidanza, si ritiene che l’interruzione di gravidanza di cui all’art. 6 b non debba essere effettuata oltre la 22a settimana + 3 giorni».
Data l’evidente inconsistenza e provvisorietà dei “paletti” indicati, non si capisce come tale atto di indirizzo possa costituire un argine giuridico contro possibili violazioni della legge e, soprattutto, come possa essere considerato un criterio etico di riferimento. D’altronde, la legge 194 è stata pensata per permettere l’eliminazione del bambino indesiderato o “difettato”, non certo per salvaguardare la sua vita.
Certamente, viene da chiedersi, e lecitamente, come possa un medico disinteressarsi della sorte di un bimbo indifeso a tal punto da lasciarlo morire di stenti. Dovremmo però prima chiederci come possa il medico trasformarsi nell’assassino di un innocente; dovremmo anche chiederci come possa uno Stato legittimare e finanziare tale abominevole delitto e come l’opinione pubblica sia disposta a scandalizzarsi solo in presenza di possibili violazioni della legge e mai per l’olocausto degli innocenti che si consuma giornalmente negli ospedali italiani, proprio a causa della legge.
Effettivamente, la finalità della legge 194 è quella di tutelare la salute fisica e/o psichica della donna, a danno dell’innocente che porta nel grembo, soprattutto se portatore di una malformazione reale o presunta (incredibilmente, alcuni “pro-life” si ostinano a dichiarare che la 194 non contempla la pratica eugenetica).
Dunque non può destare alcuna meraviglia il fatto che l’equipe medica non abbia prestato soccorso al piccolo; infatti, qualora egli fosse sopravvissuto, la responsabilità sarebbe stata del medico che l’ha fatto nascere prematuramente con l’intento, non raggiunto, di sopprimerlo. Il numero delle vittime innocenti dal 1978 ad oggi in Italia (oltre cinque milioni) ben evidenzia l’ipocrisia della legge 194, il cui spirito è quello di sancire e garantire la piena autodeterminazione della donna, contrariamente a quanto indicato nel titolo e nel preambolo della legge stessa, dietro cui il legislatore ha astutamente ritenuto di trincerarsi.