Ecco i covi in Europa degli estremisti islamici

In Terris 23 Agosto 2017

di Federico Cenci

Correva l’anno 1683. Era un 11 settembre, data che all’alba del nuovo millennio è diventata evocativa per gli attentati alle Twin Towers. A Vienna, cuore d’Europa, si consumò una delle più gagliarde battaglie della storia. Una “Lega Santa” di eserciti europei benedetta da Papa Innocenzo XI riuscì a respingere l’assalto delle truppe ottomane, che assediavano la città austriaca per aprirsi un varco verso la conquista di Roma e dell’Europa intera.

Se non ci fosse stata quella eroica resistenza, forse oggi i minareti sorgerebbero al posto dei campanili delle chiese e la sharia sarebbe legge di un enorme Califfato islamico esteso anche sul Vecchio Continente.

Un sogno mai sopito

Sono passati oltre tre secoli da quella battaglia, ma il sogno di fissare sul suolo europeo il vessillo con la mezzaluna non è mai tramontato dalla mente di alcune frange del fondamentalismo islamico. Basti pensare al titolo della rivista dell’Isis per comprendere quale sia lo scopo principe dei seguaci del Califfo: Rumiyah, ossia Roma, la città culla del cattolicesimo che i jihadisti vogliono conquistare. Eloquente a tal proposito il sottotitolo del periodico: “O muwahhidin, per Allah, non ci fermeremo nel nostro jihad se non sotto gli ulivi di Roma”.

Le roccaforti jihadiste

Non (ancora) sotto gli ulivi di Roma, ma al di là delle Alpi, nel “profondo nord” d’Europa, alcune roccaforti islamiche esistono già. In certi quartieri di città in Francia, Belgio, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Svezia e Danimarca, è ormai certo incorrere in donne velate, mentre è praticamente impossibile – per dare la misura – incontrare qualche prete in clergymen.

L’opinione pubblica ha iniziato a rendersi conto di queste realtà a seguito dei recenti attacchi terroristici, i quali hanno rivelato che gli attentatori potevano contare su una rete di coperture e fiancheggiatori in quartieri che si differenziano da una qasba in Medio Oriente soltanto per il cielo costantemente plumbeo.

Belgio

Un nome su tutti: Molenbeek. Questa zona di Bruxelles è diventata famosa dopo gli attentati a Parigi prima e nella capitale belga dopo. È qui che è stato scoperto il covo degli attentatori. Ma è stato come aver scoperchiato un vaso di Pandora. In questa area urbana di sedici chilometri quadrati e abitata da circa centomila persone, sorgono ventidue moschee e pullulano centri culturali (spesso abusivi) nei quali allignano le ideologie più radicali dell’Islam, ad esempio il salafismo e il wahabismo.

Molenbeek è una città nella città. Una enclave islamica in un territorio almeno formalmente cristiano. Una sorta di mini-emirato incastrato nella vecchia Europa forgiata sulla pietra e radicata sul Vangelo. Ed è un laboratorio di aspiranti jihadisti. Lo storico belga Pieter Van Ostaeyen, esperto di jihadismo, nel 2016 ha fatto un punto sui belgi impegnati a combattere la “guerra santa” in Iraq e Siria. Ebbene, dal suo studio emerge che circa un cittadino musulmano belga ogni 1.260 è stato coinvolto negli ultimi anni come “foreign fighter”. In proporzione, il Belgio è il Paese che fornisce più combattenti al Califfato.

Le radici antiche del problema

Un problema che risale ad un tempo lontano. Secondo alcune stime, oltre un quarto della popolazione belga è oggi musulmana (oltre un terzo nella capitale Bruxelles). Arrivati dal Nord Africa fin dagli anni ottanta, i fedeli all’Islam hanno messo radici sfruttando la legislazione locale; come la norma sulla riunificazione familiare, che ha permesso loro di portarsi al seguito mogli e figli. E in mezzo a quella prole, tra tanti miti e probi cittadini, ci sono oggi i seguaci del califfo Abu Bakr al-Baghdadi.

Non bisogna poi dimenticare l’accordo del 1974 tra il re belga Baldovino e la monarchia dell’Arabia Saudita che lo scrittore Giulio Meotti ha definito su Il Foglio “greggio in cambio di Islam”. In base a questa intesa Ryad ha inviato in Belgio predicatori e fiumi di denaro per formare ideologicamente e approvvigionare le seconde e terze generazioni di musulmani belgi, riottosi ad integrarsi in una società secolarizzata e incapace di offrire valori.

Francia

Ma il Belgio scristianizzato e privo di valori è la cartina di tornasole dell’Europa contemporanea. Nella confinante Francia la situazione è simile. Esiste qui un esercito di musulmani, figli e nipoti di immigrati dalle ex colonie di Parigi, che è potenziale carne da macello per i fautori della “guerra santa”. In tutto il Paese si contano almeno 751 “Zus” (Zone urbane sensibili), piccoli avamposti che ospitano in totale circa 5milioni di musulmani.

Caso significativo in Francia è quello di Lunel, comune di venticinquemila anime che affaccia sulla costa meridionale, in Linguadoca-Rossiglione. Uno ogni cento “foreign fighters” francesi sono partiti da questo piccolo centro, che i media locali hanno ribattezzato “la fabbrica dell’odio”.

Gran Bretagna

Al di là della Manica, in Gran Bretagna, la “fabbrica dell’odio” è ormai estesa in modo capillare in tutto il territorio. La stampa ha coniato il termine “Londonistan” per definire un’area ad alta densità di islamici ramificata in quasi tutte le città del Regno di antica estrazione operaia. All’ingresso di alcune di queste zone che compongono “Londonistan” campeggiano persino cartelli che avvisano gli avventori: “Stai entrando in una zona controllata dalla sharia”.

Come stupirsi allora che nel maggio scorso l’intelligence britannica – come riferisce il Times – ha individuato 23mila potenziali jihadisti? Dalle fila di questo mini-esercito provenivano gli attentatori di Manchester e di Westminster, così come Jihadi John, il tagliagole dell’Isis con accento inglese divenuto famoso nel 2015 per essere comparso in diversi video propagandistici del Califfato.

Olanda e Danimarca

Impegnati dalla minaccia jihadista sono anche gli 007 di Olanda e Danimarca. Nel Paese dei tulipani sono state individuate quaranta zone considerate “off-limits”. Tra queste spicca Kolenkit, ad Amsterdam, dove l’odore di kebab aleggia nel clima umido e freddo. Una roccaforte islamica non può mancare nella proletaria Rotterdam, motore dell’economia olandese con il suo grande porto. Qui il sindaco, Ahmed Aboutaleb, è di origine marocchine ed è considerato un musulmano moderato.

Tutt’altro che moderati i destinatari di un programma di recupero che ad Aarhus, in Danimarca, hanno messo a punto le autorità locali. Nessuna incriminazione, ma cure mediche, sostegno psicologico, ricerca di un lavoro e aiuto a riprendere gli studi sono i progetti rivolti agli jihadisti danesi. I risultati finora non sembrano però efficaci; in Danimarca è operativo “Millatu Ibrahim”, gruppo dichiaratamente ispirato all’Isis che organizza ronde nei quartieri di periferia per imporre la sharia. Molti dei suoi adepti risultano disoccupati e percepiscono sussidi dallo Stato.

Germania

Gang islamiche agiscono anche in Germania, dove l’integrazione spesso resta una chimera. Uno studio realizzato dal Dipartimento di Religione e Politica dell’Università di Münster e riportato dal Gatestone Institute afferma: “Quasi la metà dei tre milioni di turchi che vivono in Germania crede che sia più importante rispettare la legge islamica della sharia piuttosto che la legislazione tedesca, se esse si contraddicono”.

Poche righe che sintetizzano tutte le falle del modello multi-culturale tedesco, venute fuori la notte di Capodanno del 2016 a Colonia, Amburgo e Stoccarda, quando decine di donne sono state aggredite e molestate da un migliaio di uomini d’origine araba.

Svezia

Il corto circuito tra donne nordeuropee e Islam radicale è avvenuto anche in Svezia. Il portale Svt informa che Stoccolma non è più la culla del femminismo, come lo è stata fin dal sessantotto nei decenni passati. Femministe storiche svedesi come Nalin Pekgul e Zelida Dagli ammettono di aver abbandonato quartieri della capitale ormai in mano agli jihadisti, per via di minacce ricevute direttamente e di molestie a cui vengono sottoposte le donne svedesi.

Nel giugno scorso una relazione del Governo svedese riferiva che le “zone di alta pericolosità”, a causa dell’applicazione aperta della sharia, nel primo semestre del 2017 sono diventate sessantadue contro le cinquantacinque del dicembre 2016.

Spagna

La jihad in Spagna è balzata ai disonori delle cronache dopo gli attentati di Barcellona. L’Isis ha posto tra i propri obiettivi la rivendicazione di Andalus, il nome arabo dei secolari domini islamici nella penisola iberica. Nel 2015 era stato in qualche modo profetico il giornale El Mundo, con un’inchiesta sulle unità di “polizia islamica” pronte a intervenire – anche brutalmente – contro cittadini musulmani disubbidienti alla sharia.

Italia

E l’Italia? Qui la presenza di ghetti è molto meno diffusa, soprattutto per via di una presenza inferiore di immigrati islamici di seconda o terza generazione rispetto ad altri Paesi europei. Eppure luoghi dove potrebbe crescere l’estremismo islamico si annidano anche nel Belpaese. Il pericolo viene dalle province, dove località industriali o agricole si stanno ripopolando di stranieri. Tra costoro, la maggioranza è rappresentata da persone pacifiche. Ma non mancano i soggetti a rischio.

Nei giorni scorsi il Viminale ha fatto sapere di aver espulso due marocchini e un siriano che inneggiavano all’Isis. Con loro in Italia salgono a 202 le persone sospettate di ammiccare alla jihad rimpatriate (settanta solo nel 2017). In questo caso, se fossero stati cittadini italiani, le forze dell’ordine non li avrebbero potuti mandare via. Del resto il tentativo di vendicare la sconfitta di Vienna da parte dei fondamentalisti islamici oggi passa per lo sfruttamento di legislazioni favorevoli e di società aperte.