Giorgio Israel
testo non rivisto dal relatore di una conferenza che si è tenuta a Pisa
Il titolo del mio libro [Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza. Lindau 2008 n.d.r] partiva dall’idea di parlare soprattutto dei problemi della divulgazione della cultura scientifica, perché sono centrali in una società come quella di oggi, e naturalmente incontrava il problema della scuola, ma essendo quello della scuola un problema drammatico ecco che inevitabilmente si finisce a parlare prevalentemente di quello. E siccome quando si parla di scuola si finisce per concentrarsi sul disastro della matematica, l’intenzione era anche di far vedere quegli aspetti che riguardano la cattiva divulgazione scientifica e la cattiva idea che si sta diffondendo nella scuola di trasformare tutto in gioco e di far credere che non si fatica mai.
Io ho un bambino piccolo e l’altro giorno, mentre faceva lezione di musica, la maestra gli ha chiesto di fare una cosa un po’ più difficile ma a momenti si metteva a piangere, dicendo che lui a scuola faceva solo cose facili. Questo è l’emblema drammatico della situazione: non si fa nulla se non è facile perché non bisogna stressare questi poveri bimbi. Questo è il dramma e anche il motivo per cui si crede puerilmente di poter introdurre alla scienza attraverso feste, festival e di trasformare tutto in chiacchiere. Si spendono milioni di euro per invitare personalità – come avvenuto al festival della matematica di Roma – per farle parlare ore in inglese davanti a platee di migliaia di studenti portati in pullman con la cartolina precetto, tanto una mattina di vacanza non fa male a nessuno, e non capiscono nulla. E poi giocano, giocano…
Vorrei concentrarmi sulle responsabilità e anche sottolineare alcuni punti raccontando un paio di cose.
A seguito di un certo fermento – che avverto nel mondo della scuola, tanto che a seguito di questo libro ho ricevuto non so quanti messaggi di professori che manifestavano il loro malessere e desiderio di farla finita – un gruppo di professori di Firenze ha promosso un documento molto generico, perché voleva essere trasversale, che impegnasse le forze politiche in occasione delle ultime elezioni alla ripresa del merito e della responsabilità nella scuola.
Molto generico, diciamolo, ma ha ottenuto una quindicina di firme alcune delle quali anche molto pesanti; non le ricordo tutte ma c’era quella di Giovanni Sartori, Galli Della Loggia, Remo Bodei, Sergio Givone Aldo Schiavone, Salvatore Veca, Giovanni Berardelli, Lucio Russo e altri. Abbiamo presentato questo documento presso un liceo romano in una conferenza, stampa.
Quando si fa una conferenza stampa la norma è che chi presenta parla e i giornalisti poi fanno le domande; invece si sono presentati quattro ministeriali che con arroganza hanno preso il microfono e ci hanno impartito quattro lezioni di un quarto d’ora ciascuna, oltretutto con un tono di grande supponenza, intimidendo i professori fiorentini.
Dopodiché in una manifestazione sindacale, presente il ministro Fioroni, il segretario scuola della Cisl ha detto la seguente cosa: i signori che avevano firmato il documento erano da trent’anni fuori dal sistema dell’istruzione – perché evidentemente considera l’Università fuori dal sistema dell’istruzione – i quali prendono ottocento euro ad articolo – mi dicesse chi è che paga queste cifre, così ci vado subito – , e prima di aprire bocca ci devono rendere conto di come hanno raggiunto le loro posizioni professionali.
In altri termini questa è l’Italia: un misero burocrate sindacale si permette di chiedere ad un professore emerito della Columbia University nel caso di Sartori, di rendere conto di come è andato in cattedra e lo può fare impunemente davanti ad un ministro dell’istruzione che anziché avere la dignità di alzarsi in piedi e dire: “signore si calmi”, batte i tacchi e sta zitto perché il padrone è quello. Ecco perché ce l’ho con i sindacati; non tutti perché ho avuto feed back positivi con alcuni sindacati autonomi della scuola, che mi hanno anche invitato a fare degli interventi ai loro convegni ma i sindacati confederali portano una responsabilità nella distruzione della scuola di cui dovrebbero essere chiamati a rendere conto.
Perché la questione è semplice; è come per l’Alitalia: come un sindacato può occuparsi degli stipendi dei dipendenti ma non può occuparsi dei piani industriali, perché non è nella sua competenza, ancor meno un sindacato può occuparsi di fare i piani della scuola, cioè di entrare in competenze che non ha: la cultura, l’insegnamento, i contenuti dell’insegnamento. E’ uno scandalo che deve finire, invece non finisce, perché in quella stessa riunione, alla presenza del ministro Fioroni, il professor Tagliacarne, già consulente di Berlinguer, già consulente della Moratti, secondo un trasversalismo dei pedagogisti – ecco la seconda categoria con cui, mi dispiace, ma ce l’ho – ha spiegato come occorra superare la scuola delle discipline cioè delle conoscenze a favore della scuola delle competenze. “Una testa ben fatta è molto meglio di una testa piena” ha spiegato.
Al che chiederei chi si arroga di decidere qual è una testa ben fatta e quale no, ammesso che lui stesso l’abbia ben fatta dato che come un sindacalista non rende conto del diritto di parlare in un certo modo, così lui, anche se è un professore universitario, può spiegare come si devono trasmettere le conoscenze ma non decidere di essere lui o altri titolare del “fare le teste” perché questo è un linguaggio che poteva andare bene in Unione sovietica.
Le teste non si fanno; si trasmettono conoscenze in modo che ciascuno, autonomamente, acquisisca la capacità di farsi da solo una buona testa.
Queste persone poi, al contrario, sostengono che in questo modo si coltiva la libertà dell’individuo. Secondo loro l’insegnante tradizionale è trasmissivo, oppressivo, impositivo, deduttivista come dice Berlinguer, ovvero trasmette conoscenze in modo impositivo mentre invece l’insegnante deve trasformarsi in un facilitatore, in una guida. Deve cioè essere come quegli animatori delle feste dei bambini, che entra in classe e aiuta…
Questa purtroppo è una cosa drammaticamente diffusa anche ben fuori dall’Italia, perché in Occidente si è diffusa questa teoria secondo la quale non bisogna costringere il bambino ma bisogna aiutarlo a imparare da solo. Anche negli Stati Uniti c’è una pedagogia secondo la quale l’autoapprendimento è fondamentale e che bisogna stare attenti, sostengono, perché ad esempio imporre al bambino di apprendere la fonetica in modo trasmissivo è una forma di molestia su minori.
Vi potrei citare i testi che affermano questo. Quindi il bambino deve andare a scuola per imparare a leggere e a scrivere da solo, l’insegnante al più lo coadiuva, gli sta vicino, lo aiuta ma non gli dice: “si fa così”. Deve fare da solo, addirittura deve scoprire l’algoritmo della divisione da solo. Il risultato è che in India stanno tre anni avanti e con l’insegnamento trasmissivo stanno facendo quello che facevamo noi trent’anni fa e siamo completamente spiazzati.
A tutto questo aggiungo un’altra componente: quella della valutazione; fondamentale, per carità! Ma un tempo si faceva con i voti, adesso sembra sia uno scandalo fare la valutazione con i voti e la devono fare degli enti esterni, perché l’insegnante, essendo portatore di una carica soggettiva, deforma. Deve quindi essere un ente esterno e scientifico che valuta, e lo fa sulla base di teorie, che sarebbero quelle della docimonologia: la scienza della valutazione.
Ma in tutto questo ci sono molti difetti. Il primo è che in tutti questi atteggiamenti si presuppone che sia qualcuno che decide e altri no. Il sindacalista è insindacabile, decide lui come si deve gestire la scuola e nessuno gli chiede conto delle sue competenze. Il pedagogista spiega come si deve insegnare, il didatta idem e nessuno chiede conto delle loro teorie pedagogiche, che possono anche essere folli ma non importa; quindi il pedagogista spiega che si deve autoapprendere, che si deve fare così o cosà ma chi ha mai chiesto conto delle teorie dell’autoapprendimento e di altre simili baggianate? Nessuno.
Questi signori sembra siano assolutamente al di sopra di qualsiasi valutazione e giudizio scientifico. Infine, al valutatore nessuno chiede conto di come valuta e spesso i parametri di valutazione sono assolutamente deliranti. Adesso non mi intrattengo su quelli più complessi, su cui potrei dire molte cose, ma prendiamo le cose più banali. Quando si consiglia ad un ministro, come è stato fatto, di scegliere come parametro di valutazione di una Università, sulla base del quale si concedono i finanziamenti, il numero di abbandoni, ovvero quante persone si laureano entro gli anni previsti, il risultato è banale: si laureano tutti.
Una Università che rischia di perdere quattrini stimola a dare trenta a tutti, subito e il docente che al contrario comincia a indurire la linea è tagliato fuori. Su questo ho avuto una esperienza personale; quando un anno mi sono trovato a fare un corso in parallelo con un collega che seguiva una linea permissivista. Sono entrato in aula il primo giorno e ho trovato un solo studente: una cosa drammatica; per forza ho dovuto cambiare corso.
E fin’ora l’Università non ha ancora introdotto valutazioni che influiscono sullo stipendio; se arriviamo a questo è la fine perché è chiaro che un docente per non vedersi tagliare lo stipendio promuove tutti. E magari ci sarà uno stolido ministro che andrà a dire: “quest’anno il sistema dell’istruzione è migliorato: siamo passati dal 15% di abbandoni al 12%”. Certo, ma abbiamo sfornato migliaia di ignoranti. Questo è il punto cruciale e si tratta solo di un esempio ma potrei farne molti e molti altri, che questi signori della valutazione sfornano continuamente.
Più in generale c’è il problema dell’egualitarismo. Per amor del cielo! E’ chiaro che dobbiamo fare tutto il possibile perché tutti partano nelle stesse condizioni e abbiano le stesse opportunità, ma questo non significa che tutti devono riuscire allo stesso modo.
Uno dei principi più deliranti introdotti è il diritto al “successo formativo”, così chiamato. Non deve esistere un diritto al successo formativo. Sono profondamente stupito che anche forze politiche che si richiamano a principi liberali accettino una visione totalitaria di questo genere, per un motivo molto semplice: occorre dare a tutti le stesse opportunità ma non siamo uguali; questo è il punto.
Non siamo uguali come professori e non siamo uguali come studenti. Ci sono studenti che per loro natura o per condizioni sono pelandroni o incapaci, alcuni sono più intelligenti, altri meno. E’ la vita. Non possiamo livellare tutti allo stesso grado e non possiamo seguire le teorie del professor De Mauro secondo cui bisogna abbassarsi al livello dell’ultimo, la media minima come la chiama lui.
La scuola al contrario deve marciare al massimo, deve prendere a modello il primo della classe, cercando di elevare l’ultimo verso il primo. Se si prende l’ultimo, quello che non fa niente, e si fa cocco della classe l’incapace, quello che fa chiasso cosa volete che diventi la scuola? Diventa quello che è diventato. Questo dal punto di vista studenti.
Dal punto di vista professori è la stessa cosa. Non riesco a capire per quale motivo di deve partire dal principio che tutti i professori devono essere uguali. La scuola, per dirla in maniera retorica, alla “libro Cuore”, è una palestra di vita e può capitare di incontrare qualche insegnante imbecille, è normale. Non possiamo accettare insegnanti che non sanno le regole basilari della grammatica e della sintassi e questo è evidente ma che ci sia un insegnante molto bravo e uno meno è normale e se anche in questo caso arriva qualcuno che vuole uniformare tutti gli insegnanti ad un livello medio minimo è la fine.
Soprattutto ridiamo dignità all’insegnante, che non è un puro burocrate, che trasmette passivamente nozioni comandate da altri e che altri decidono, non si sa su che basi. L’insegnante deve avere una sua autonomia e di nuovo non capisco le imposizioni delle teorie pedagogiche. Scusate la rozzezza ma abbiamo dietro di noi duemilacinquecento anni di storia, nei quali siamo partiti da Socrate, il primo e più grande pedagogista e insegnante di tutti i tempi, al quale nessuno ha spiegato come doveva insegnare. A me non l’ha mai spiegato nessuno e non credo di essere un cattivo insegnante mentre ci sono persone alle quali lo hanno spiegato nel dettaglio e sono pessimi insegnanti. Questo è il problema.
Io, scusate la franchezza, non credo nelle teorie dell’insegnamento e credo sia pernicioso quello che sta accadendo in molte Sis in cui l’idea è fare tre anni di corso di laurea – prima erano quattro – e poi due o tre anni di scienze pedagogiche. Alla Sis di Roma si fa di tutto: psicologia dell’età evolutiva fino a scienza dell’affettività, che è un titolo che trovo francamente repellente per i motivi che dicevo prima. Perché c’è la famiglia.
Quando leggo che persino il ministro Moratti ha introdotto corsi di convivenza civile e di affettività rimango orripilato, perché questo è zapaterismo, cioè l’idea che è lo Stato che forma. Io ho una concezione diversa: lo Stato deve fornire le conoscenze, la famiglia fornisce l’insegnamento civile, morale, etico e affettivo. Se la famiglia non ce la fa perché è in crisi si facciano politiche di sostegno alla famiglia, ma non è un buon motivo per produrre questo sbandamento pazzesco per cui alla famiglia da un lato le si sottrae questo ruolo perché è delegato alla scuola e dall’altro la si chiama a fare scelte di curriculum scolastico che non è in grado di fare.
Questo eccesso di libertà di scelta porta infatti poi la famiglia a decidere cosa deve fare il figlio. Io sono favorevolissimo alla libertà di insegnamento ma quando leggo certe proposte di libanizzazione della scuola – non saprei come chiamarle altrimenti – i cui si afferma che la famiglia deve avere il diritto di mandare il proprio figlio uno alla scuola cattolica, uno alla scuola comunista, un altro a quella in cui si insegna il darwinismo…
No. Sono in totale disaccordo con questo e penso che una scuola seria è una scuola che fornisce elementi critici, in cui si spiega cos’è il darwinismo, cos’è la teoria dell’evoluzione mostrandola in modo non dogmatico ma anche con i suoi elementi critici e anche il creazionismo o il disegno intelligente; quello che volete ma in modo critico. Penso che se uno nasce in una famiglia di fascisti e sia costretto ad andare in una scuola fascista sia un’idea terrificante. Uno deve andare in una scuola che gli offre delle opportunità e non ci deve essere questa libanizzazione.
A mio avviso tutte queste idee che stanno dilagando sono terribili e quello che abbiamo di fronte è un intreccio infernale, e l’ho vissuto in questi mesi in cui sono stato chiamato dal ministro Fioroni ad entrare nella commissione per il miglioramento dell’insegnamento della matematica. Ci sono entrato di malavoglia, chiedendo come condizione che fosse una commissione con pochi pedagogisti e molti competenti disciplinari. Questo era stato garantito e all’inizio eravamo in dodici, poi il numero è lievitato a trentadue. Capite che una commissione per la sola matematica di trentadue persone, in cui quando ci si riunisce si parla col microfono in un salone immenso è una cosa che porta da nessuna parte. In questa commissione ne ho sentite di tutti i colori e ho capito benissimo l’intreccio che abbiamo di fronte.
L’intreccio che strangola oggi la scuola e tutto il settore dell’istruzione è per l’appunto il connubio tra sindacato, consulenti ministeriali, per lo più pedagogisti e didatti vari, e burocrazia ministeriale in un ricatto reciproco: i consulenti naturalmente sono contenti di avere tutto il potere che deriva da queste posizioni e dal fatto che possono creare altri organismi che si moltiplicano in una sorta di scatole cinesi, autoreferenziali e occasione di spreco di denaro pubblico; i sindacati ricattano a loro volta i dirigenti ministeriali, perché ne ricattano le carriere. Io sono pessimista e credo che solo un ministro capace di vedere le cose in faccia e spezzare come un nodo gordiano questa situazione potrà cambiare la situazione; altrimenti non ne veniamo fuori, perché la cosa drammatica è l’insistenza sulla metodologia.
Ieri su un articolo del Corriere della Sera il direttore Attilio Oliva dell’associazione Treelle di Confindustria – altra responsabile della cosa perché Confindustria non ha mai dato una lira per la ricerca scientifica ma spende soldi per predicare quello che l’Università dovrebbe fare per i propri tornaconti personali – chiedeva tutta una serie di cose di metodo, cioè autonomia, riduzione a trenta delle ore di insegnamento, e altro ancora.
Io vorrei chiedere a tutte queste persone: avete mai letto le indicazioni ministeriali per l’insegnamento? Perché i programmi non esistono più. E’ la prima cosa che ho scoperto quando sono entrato nella commissione di cui prima accennavo. Quando ho chiesto di parlare dei programmi di matematica mi hanno risposto: no! “programmi” è una parola vietata, perché è impositiva; si può parlare solo di indicazioni nazionali, poi i programmi si fanno in classe. In questo modo ho appreso anche chi fa i programmi, perché i programmi si devono pur fare: le case editrici, le quali fanno pessimi libri in cui troviamo di tutto. Poi quando apriamo le indicazioni ministeriali troviamo cose orribili, come in quelle di Fioroni.
Credo sappiate tutti cos’è il Teorema di Pitagora, ebbene nelle indicazioni ministeriali si parla del “Teorema di Pitagora e le sue applicazioni alla matematica”, ebbene vorrei sapere il Terema di Pitagora cos’è, una ricetta di cucina? Oppure quando questi alti burocrati ministeriali l’altro giorno alla fine della discussione mi hanno consegnato le indicazioni ministeriali per la scuola superiore, come se fossero una cosa grandiosa, le ho aperte e tra le indicazioni per l’asse scientifico tecnologico ci ho trovato scritto: “competenze: l’allievo deve saper riconoscere nelle varie situazioni reali la presenza di concetti di sistema e di complessità e le sue applicazioni”; non le loro ma le sue, quindi anche un errore di grammatica clamoroso.
Chi conosce un poco queste cose sa che il concetto di complessità è controversissimo e sul fronte della ricerca ciascuno la pensa in un modo e c’è addirittura chi nega alla complessità un qualsiasi senso scientifico. Comunque sia, si tratta di una questione assolutamente aperta nel mondo scientifico e ora voi pensate se a un povero ragazzo di 14 anni si possa chiedere, per una cosa che neanche uno scienziato può sapere che significa, di andare a riconoscere le situazioni di complessità. Ma chi ha scritto questa cosa?
Nella discussione con questi signori ad uno di questi ho detto che avrei voluto tanto conoscere chi era quel cretino – era proprio lui – che ha scritto la geografia per le indicazioni delle scuole elementari, perché c’è scritto questo: al termine delle elementari il ragazzo deve essere in grado di fare un piccolo progetto sulla compatibilità della presenza antropica nell’ambiente in determinate situazioni. Vorrei sapere chi è stato il cretino che ha scritto questo perché se uno dà un argomento del genere come tesi di laurea è già un argomento molto difficile, poiché sappiamo bene quali discussioni ci sono sull’effetto serra, e via dicendo. E lui: “ ah ma no, io lo faccio nella mia scuola…”. Non ho voluto indagare ulteriormente ma ribadisco che è una cosa indecente.
Ebbene, la scuola è in queste mani; è questo il vero problema e se non ci ribelliamo tutti ne va dei nostri figli e del nostro futuro, perché se si continua con questa gente che sta riproponendosi come consulente per i prossimi governi con queste idee dell’autoapprendimento, delle conoscenze che non valgono niente perché irrilevanti di fronte alle competenze – e loro non sanno neanche cosa voglia dire “competenze”, perchè anche su questo potrei palare – non abbiamo molto futuro.
Seguono una serie di interventi dalla platea. Riportiamo le repliche del relatore:
I temi sono tanti ma mi soffermo un attimo sul tema della scuola come utenza, che non mi sarebbe dispiaciuto affrontare. Un altro dei drammi è questa idea della scuola come azienda e su questo ho litigato con molta gente che crede ormai a questa cosa e dice: perché mai la scuola non è un’impresa, un’azienda? Perché è un’alta cosa. Perché la Chiesa non è un’azienda. C’è una bella differenza tra la Fiat e una caserma della Finanza. La caserma della Finanza deve pure obbedire a criteri di razionalità nella gestione ma certo non ha come fine la produzione di oggetti; fa un’altra cosa.
La scuola meglio ancora. La scuola trasmette conoscenza e la conoscenza non è un prodotto. Se uno pensa che la conoscenza sia un prodotto arriva a quelle conclusioni, perché è la stessa cosa che andare in un supermercato o alla Posta. Se al supermercato compro una scatola di pomodori e la trovo rancida torno là e faccio una scenata e se alla Posta mi fanno fare la fila senza mai arrivare perché l’impiegato si gira i pollici mi arrabbio; ma a scuola no. Non è possibile che se vado a scuola come studente e faccio una cattiva prestazione mi devo pure lamentare perché la scuola non mi fornisce il prodotto giusto.
Questa invece oggi è la mentalità. Non è una patologia purtroppo che lo studente o peggio – perché spesso accade anche questo – che il padre o ladre vadano a scuola a schiaffeggiare l’insegnante perché la mentalità è quella: io mando il figlio a scuola e deve fare quello che gli pare perché, poverino, sennò si stanca o si stressa; deve poter telefonare, fumare e se alla fine dell’anno no ha ottenuto il risultato è colpa della scuola che non funziona, quindi riprendo anche a botte. Questo è il risultato dell’idea della scuola come azienda.
La scuola non è un’azienda, quindi deve insegnare; in primo luogo dei doveri anche se lo studente ha certamente alcuni diritti: di non essere picchiato, a ricevere l’insegnamento… e altri diritti di questo tipo; poi basta. Non ne ha altri. Invece ha moltissimi doveri; molti più doveri che diritti e questo è il punto. E questo porta al secondo tema: se noi non vediamo la scuola in questo modo ma come un servizio è chiaro che andiamo verso una rapida decadenza.
Non dico che dovremmo pendere a modello la scuola Orientale; sappiamo bene che in Giappone o in Corea del Sud non solo si alzano in piedi quando entra l’insegnante ma la scuola è militarizzata, come la fabbrica e questo per noi è forse troppo. Però è evidente che se non restauriamo un modello in cui esiste non l’autoritarismo ma l’autorità a scuola, la disciplina, il rigore e il senso del dovere abbiamo perso l battaglia, perché non trasmettiamo più principi, non trasmettiamo più niente.
E arriviamo al grande tema della conoscenza. Non credo sia ineluttabile, tanto per cominciare, la transizione verso un modello di conoscenza basata su comunicazioni diverse come il computer. In Italia ad esempio non credo ci troviamo in una situazione particolarmente diversa da quella degli altri paesi, perché purtroppo è tutto l’Occidente che in questo momento è nel dramma.
In Francia la situazione è drammatica, in Spagna pure e si fanno le cose più folli. Il governo Zapatero ha introdotto nelle scuola il principio del diritto dell’allievo a sbagliare. Che uno sbagli è ovvio ma attribuire il diritto di dire che due più due fa cinque no! Tutto l’Occidente dunque è in questo dramma ma è anche vero che in Italia abbiamo la tendenza ad adottare dei modelli in ritardo, quando già hanno manifestato il loro fallimento altrove.
Ad esempio abbiamo adottato per l’insegnamento della matematica la teoria degli insiemi, che ancora oggi insegniamo, quando in Francia dopo averla sperimentata per sei, sette anni e aver visto che era un disastro sono tornati a Euclide, al vecchio. Anche questa è una malattia italiana: sentirsi sempre dire che non si può tornare indietro. Perché non si può tornare indietro? Se cammino in un sentiero di montagna e finisco davanti ad un burrone torno indietro, altrimenti sono un pazzo.
Le grandi riprese dello studio della matematica nelle varie fasi storiche sono state il riprendere in mano Euclide. Quando si fece l’Unità d’Italia, che era un disastro dal punto di vista scientifico, frammentata e senza università, si è ricominciato a studiare la matematica con Euclide, cioè roba di duemila anni prima. E’ così che si fa.
Noi rispetto al computer stiamo sbagliando, perché nelle scuole americane – che pure sono disastratissime – stanno togliendo i computer dato che hanno cominciato a capire che non va. E’ vero, mio figlio lo usa già meglio di me e i ragazzi sono più bravi di noi in questo ma il ridicolo della proposta della scuola delle tre “I” sta nel fatto che Internet è una stupidaggine che qualsiasi bambino impara ad usare a otto anni.
Peraltro usare il computer in modo serio, cioè per apprendere, è un altro paio di maniche. Usare il computer per fare modelli scientifici o cose di questo tipo è roba che si fa a malapena all’Università. Che senso ha tutto questo? Il computer è una macchina vuota che non ha nulla dentro, se non i programmi che ci mettiamo e la capacità di usarli, che è una cosa estremamente complessa e non è roba da scuola ma roba che si comincia a malapena a fare all’università. Credo questo si sia capito e che pian piano ci si sia resi conto che i bambini usano il computer come una calcolatrice, quindi non sanno più fare tre per cinque e allora negli Stati Uniti hanno cominciato a toglierli dalle classi mentre noi abbiamo politici che fanno campagne elettorali dicendo di voler mettere un computer in ogni classe.
Io sono convintissimo che il problema sia la passione per la conoscenza. Se non c’è passione per la conoscenza non c’è scuola a questo mondo che potrà funzionare. Io non so però se questo è pessimista o ottimista ma le fasi storiche dimostrano che nel corso delle civiltà ci sono state fasi di declino in cui la cultura è stata addirittura distrutta.
Pensate a quello che è successo nel VI secolo, quando dopo varie persecuzioni operate anche dal mondo cristiano nei confronti ella scienza, in cui si bruciavano le biblioteche che contenevano i testi greci in quanto pagane. Poi vennero gli arabi e fecero il resto. Ad Alessandria fu bruciata anche la più grande biblioteca della storia, dove per sei mesi con i rotoli dei papiri ci scaldarono i bagni pubblici.
Poi sempre gli arabi hanno riscoperto la cultura, si sono letti Aristotele, Euclide, Archimede ed è rinata la cultura. Non è detto che anche a noi accada questo; magari saranno gli indiani o altri a riscoprire la nostra cultura. Io in un certo senso sono ottimista, perché sono profondamente convinto che gli esseri umani non possano vivere senza la spinta alla conoscenza e la passione di sapere ma non è detto che siano sempre gli stessi a farlo.
In questo momento noi in Occidente e in particolare in Europa siamo ad una svolta drammatica: decidere se vogliamo ancora noi ad essere una civiltà portante o andare verso il declino. Allora qualcun altro prenderà i nostri testi, si leggerà Einstein o Freud, non so, e andrà avanti. Quando leggo l’articolo di Severino, l’altro ieri sul Corriere della Sera, il quale dice che l’Europa ce la farà perché ha la scienza e la filosofia penso che da una parte dice una cosa giusta e dall’altra una cosa sbagliata, perché fa un discorso astratto. Severino cioè non sa cos’è la scienza oggi.
Se lui ragionasse nei termini di quel che è la scienza oggi non direbbe questo, perché purtroppo esiste un declino della scienza come conoscenza per cui il meccanismo così prodigioso che lui vede, secondo il quale la conoscenza astratta genera tecnologia e progresso, è il modello che ha fatto grande l’Europa dal ‘600 al ‘900. Oggi questo modello è in crisi: facciamo bricolage tecnologico e non più cultura, gli industriali non sono capaci di vederlo e chiedono continuamente all’Università prodotti subito utilizzabili, senza capire che la grandezza della scienza occidentale al contrario è stata di aver saputo fare speculazione disinteressata, da cui sono nate grandi scoperte che hanno portato a grandi rivoluzioni tecnologiche.
Il computer non è stato fatto manipolando circuiti ma pensando una grande idea di carattere concettuale: simulare il funzionamento della rete neuronale. Non era un’idea pratica ma un’idea teorica. Se perdiamo tutto questo qualcun altro lo riprenderà prima o poi ma noi andremo verso il declino. O capiamo la posta in gioco oppure secondo me abbiamo chiuso.
Per terminare, sono convinto ci voglia una lingua di trasmissione come è stata in fondo il latino in altri tempi, però cerchiamo di capire oggi che cosa può significare l’inglese in un contesto in cui esistono molte culture con lingue che hanno una struttura e una corposità considerevole, come il francese, l’italiano, il tedesco. Che l’inglese sia inevitabilmente la lingua di comunicazione scientifica, della matematica, della fisica, della chimica, lo capisco. Che l’inglese possa diventare la lingua comune, come una sorta di esperanto, laddove non si usano soltanto quattrocento o cinquecento parole – che possono andar bene per scrivere un testo di matematica ma non certo per fare letteratura- francamente lo trovo improponibile.
Pensare che solo l’inglese sia la chiave, rinunciamo alle culture specifiche nazionali e andiamo sicuramente al disastro. In fondo nell’Ottocento c’era l’abitudine, anche in ambiente scientifico, di scrivere nella propria lingua e gli scienziati si leggevano reciprocamente. Abbiamo perso questa capacità e pazienza ma non perdiamola a livello culturale. Questo è il problema.
Quanto all’impact factor ritengo sia un discorso particolare e complesso ma può funzionare bene in certi ambiti, soprattutto in quello delle scienze mediche, ma poi basta. In matematica e fisica non funziona proprio. Poi sono convinto che bisogna stare attenti alle valutazioni troppo quantitative; non credo nella possibilità di quantificare troppo il soggettivo. Tornando al discorso generale sulle valutazioni credo sia molto più intelligente anziché introdurre tanti parametri fasulli fare valutazioni qualitative.
Ad esempio perché non si potrebbe, come fanno in Francia e Inghilterra, valutare la performance di una scuola inviando una commissione composta da docenti presi da diverse scuole d’Italia, che sta una settimana, interroga i docenti, entra in una classe e sente gli studenti, guarda i programmi, guarda i libri e alla fine fa un rapporto verbale con un giudizio. E’ mille volte meglio che andare con delle schede e griglie di valutazione inventate docimologi fasulli e cominciare a mettere crocette, anche perché chi vuole mettere idee proprie nella scheda di valutazione e non sa come farlo finisce che la falsa. Meglio il giudizio esplicito con verbale e magari anche un voto.
Nell’attuale situazione è importante anche la resistenza degli insegnanti. Un altro episodio che vorrei citare – siamo alla fine della serata e la possiamo buttare sugli aneddoti – è che a seguito dell’appello alla ripresa del merito di cui parlavo in apertura l’altra sera l’ex ministro Berlinguer in una manifestazione elettorale ha attaccato violentissimamente questo appello dicendo che chi l’aveva scritto era un relitto del passato gentiliano, condannato dalla storia e aveva un’influenza nociva in quanto invitava gli insegnanti a resistere contro le innovazioni didattiche.
Secondo lui è questo il dramma, perché – diceva lui – “la scuola elementare l’abbiamo abbastanza sistemata”, sostenendo questa tesi incredibile secondo cui “nella scuola elementare si è riconciliato l’emisfero destro con l’emisfero sinistro”. Per lui infatti secondo le teorie psicometriche l’apprendimento funziona bene quando c’è riconciliazione dell’emisfero destro con l’emisfero sinistro del cervello. Dalle medie in su resiste ancora – sempre secondo Berlinguer – l’insegnamento ex catedra e riduttivista degli insegnanti “che non riusciamo a piegare”. E questo devo dire mi ha molto consolato.
L’idea delle competenze è difesa dalla sinistra a spada tratta e tra l’altro i pedagogisti sono quasi tutti di sinistra. I consulenti del ministro Moratti erano quasi tutti gli stessi del ministro Berlinguer ma poiché la destra è culturalmente più debole se li prende perché non sa che fare. Costoro però stanno portando avanti la mentalità egualitarista del Sessantotto e se leggete i loro libri, come quello di Roberto Maragliano, che è stato consulente della Moratti, sostengono esplicitamente che per realizzare l’egualitarismo che il Sessantotto voleva bisogna distruggere completamente la figura dell’insegnante, perché è quella che provoca appunto una situazione di meritocrazia.
Secondo me la destra non è che ha idee diverse, semplicemente non ne ha e quindi prende queste stesse idee ma con la pretesa di voler in qualche modo servire l’individuo. In realtà è il contrario, perché questo servire l’individuo è fatto con la mentalità dell’aziendalismo. Quando allora esce un manifesto come quello che abbiamo fatto, che contiene due sole stupidissime parole, sulle quali non si capisce come tutti non debbano essere d’accordo e cioè: merito e responsabilità – il che non è niente, dato che ci sarebbe ben altro da dire – scoppia il finimondo e si viene insultati.
In un modo o nell’altro in Italia, ma anche in Francia o Germania, abbiamo una scuola di Stato che copre la quasi totalità dell’istruzione e non è pensabile che nell’arco di pochi anni, per quanto si voglia stimolare lo sviluppo della scuola privata, questa riesca a raggiungere più del 10% della popolazione. Cerchiamo di essere realisti: se non si riesce a mettere le mani in modo serio sulla scuola entro dieci anni collassa tutto; crediamo veramente in dieci anni di riuscire a mettere in piedi una frazione superiore al 10% di scuola privata? No, quindi dobbiamo subito mettere le mani su questa scuola pubblica e dire due cose.
La prima è che non c’è alcun morivo per cui non debba funzionare, visto che alla fin fine il modello della scuola pubblica è stato inventato in Europa ed è stato copiato dappertutto. E perché non funzione? Qui insisto: non si parla mai di contenuti e di quello che viene trasmesso ma si fanno continuamente architetture metodologiche.
C’è un altro esempio che deve far riflettere. Un articolo del Wall Street journal uscito quindici giorni fa parlava dell’esperienza americana – dove c’è più scuola privata che da noi – dicendo che là usano largamente il sistema dei buoni scuola, dei quali si parla anche da noi pr tentare di introdurre un principio di concorrenza per migliorare la scuola pubblica. Questo è anche il loro problema, perché hanno una scuola pubblica che è molto peggiore della nostra.
L’articolo spiegava come il sistema non ha funzionato, dato che ha introdotto elementi di concorrenza troppo deboli, che non sono bastati. Nello stato del Massachusetts invece si sono stufati e hanno deciso di piantarla con le competenze, le abilità e tutto il ciarpame pedagoghese che ci sta intossicando da anni per tornare alla scuola disciplinare. Le ultime rilevazioni compite sui cinquanta stati americani danno il Massachusetts al primo posto. Vorrà pur dire qualcosa?
Abbiamo pedagogisti pronti a rientrare come consulenti che sostengono l’idea della scuola olistica. Faccio il nome: Bertagna sostiene che nella scuola non si debbano insegnare discipline – e non c’è niente da fare, è fissato e ci sono altre persone che lo ascoltano – ma che si debba lasciar perdere la suddivisione in discipline per dare un insegnamento globale, olistico, tutto mescolato; una specie di zuppa complessiva.
Voi capite che questo lo può dire uno che non ha alcuna competenza specifica, tanto a lui che importa? E’ un superdisciplinare che si occupa della meta-disciplina. Ma volete dirmi un momento della storia dell’umanità in cui è esistita la cultura senza discipline? Un tempo c’era il Trivio, il quadrivio; cambiano i confini disciplinari nel tempo ma come si fa a non avere discipline? Se non vinciamo su questo fronte abbiamo chiuso.
L’esempio americano dimostra che questa è la via principale. Poi sono d’accordo sui buoni scuola, sull’introdurre una certa liberalizzazione, sia chiaro entro certi limiti ben determinati, ma non illudiamoci che questo risolverà la situazione. Tuttavia se andiamo a dire tutto ciò in altri consessi si viene letteralmente linciati.
Io sono assolutamente convinto che nel consesso del sistema italiano dell’istruzione la maggioranza la pensa come noi, ma oramai esiste una oligarchia, che ha preso le posizioni di potere, la quale pensa invece queste cose e le pensa per ragioni di opportunismo dato che in questo modo difende ovviamente il suo interesse.