Ma Cadorna non fu quello che di lui hanno scritto i massoni

La Croce quotidiano 25 ottobre 2017

Un’intera storiografia gli addossò la rovina sull’Isonzo in odio alla sua schietta fede cattolica

di Giuseppe Brienza

Cento anni fa, il 24 ottobre 1917, a Caporetto deflagrò la dodicesima battaglia dell’Isonzo, tra il Regio Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche. Fu uno dei momenti più drammatici della prima guerra mondiale, ricordato come la più grave disfatta nella storia militare del nostro Paese. La prima considerazione da fare è che ci si aspettava nella giornata di ieri almeno una parola, un pensiero, una rievocazione da parte del ministero dell’istruzione o nella scuola pubblica in generale a proposito del sacrificio soprattutto di quelle migliaia di contadini, operai e artigiani che, in quella battaglia, sacrificarono la loro vita per compiere il loro dovere verso la patria.

La propaganda liberal-massonica dominante nel primo mezzo secolo (o poco più) del Regno d’Italia ha avuto poi buon gioco nel riversare tutta la responsabilità per la tremenda sconfitta sul generale Luigi Cadorna (1850-1928), cattolico praticante, sostituito nel novembre 1917 con il generale Armando Diaz (1861-1928), scelto con tutta probabilità anche per la sua appartenenza alla massoneria (secondo quanto sostenuto dallo storico Aldo A. Mola), grazie al quale comunque le truppe italiane riuscirono a difendere la nuova linea difensiva opponendo una tenace resistenza.

Nella smemoratezza della classe politica e dirigente italiana di oggi, segnaliamo con interesse la pubblicazione, nella collana “Esercito Italiano 1915-1918. Un secolo in prima linea”, del fascicolo intitolato “Luigi Cadorna”, uscito in allegato al n. 1-3 della “Rivista Militare” (Roma settembre 2017, pp. 32 – www.rivistamilitare.it). Nella monografia, curata del direttore dell’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Col. Filippo Cappellano, grazie ad una raro e suggestivo apparato fotografico, si ripercorrono le vicende biografiche e militari di quello che fu il Comandante in Capo dei primi tre anni della prima guerra mondiale, sfortunato e successivamente oggetto di “cattiva stampa” (all’origine della quale vi fu “cattiva storiografia”) da parte delle élites liberal-laiciste al comando del ministero in quel tempo denominato “della Pubblica Istruzione”.

Purtroppo il volumetto dedicato al militare lombardo (era nato a Pallanza, sul Lago Maggiore, il 4 settembre 1850), che allora rivestiva il massimo grado di “Maresciallo d’Italia”, non menziona una circostanza molto significativa che, forse, mise ulteriormente in cattiva luce Luigi Cadorna di fronte ai maggiorenti (risorgimentali) del Regno d’Italia. Il 12 aprile 1915, infatti, il “generale di Caporetto” emanò una circolare in cui reintroduceva per ogni reggimento dell’Esercito italiano i cappellani militari, dopo che questi, con la nascita dello Stato di Cavour e di Vittorio Emanuele II di Savoia, ne erano stati estromessi adducendo come motivazione imprecisate «ristrettezze di bilancio».

Nelle intenzioni dell’allora Comandante supremo delle Forze armate in guerra, l’opera dei “preti-soldato” avrebbe dovuto «favorire la coesione morale e consolidare il senso del dovere e lo spirito di disciplina dei soldati, facendo leva su un comune retroterra religioso. In un primo momento, le nomine dei cappellani furono demandate alle sole autorità militari» (Giovanni Cerro, Quando verrà questa benedetta pace?, in “L’Osservatore Romano”, 1° novembre 2015, p. 4).

Secondo alcune stime, nel corso della Grande Guerra furono quindi nominati ben 2700 cappellani, che operarono al fronte e negli ospedali territoriali (cfr. Roberto Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati, 1915-1919, Gaspari, Udine 2015).

Durante il conflitto i cappellani prestarono una preziosa opera di assistenza alle truppe sia a livello sociale sia a livello prettamente spirituale e religioso. Dal punto di vista dell’assistenza morale, infatti, essi contribuirono alla creazione delle cosiddette “Case del soldato”, luoghi in cui i soldati «potevano trascorrere i loro momenti liberi, scrivere alle loro famiglie, usufruire di piccole biblioteche, ascoltare musica, partecipare a feste e giochi popolari e talvolta assistere a film» (G. Cerro, Quando verrà questa benedetta…, art. cit.). Nonostante i problemi logistici e di organizzazione, si stima che nell’ottobre del 1918 furono istituite nel territorio nazionale più di 500 strutture di questo tipo.

Ma l’operato sociale-assistenziale dei cappellani militari non finisce qui. Essi assunsero infatti il compito di rendere possibile la comunicazione tra l’esercito e le famiglie dei soldati: «da una parte, trasmettevano i dati relativi ai caduti, ai feriti e ai dispersi all’Ufficio notizie di Bologna, che poi provvedeva a divulgarle ai parenti; dall’altra, aiutavano i soldati, molti dei quali analfabeti o semianalfabeti, nella lettura o nella redazione delle lettere. Infine – e probabilmente fu questa la forma più efficace di sostegno morale – i cappellani elargirono sussidi in denaro e piccoli doni, come indumenti e coperte di lana, camicie e fazzoletti, giornali e generi di ristoro, immagini e pubblicazioni di carattere devozionale» (G. Cerro, Quando verrà questa benedetta…, art. cit.)

Ritornando alla vicenda prettamente bellica del generale Luigi Cadorna, va preliminarmente sottolineato come al valente militare (discendeva da una famiglia di antica tradizione castrense), fu affidato il comando supremo effettivo dell’Esercito nello stesso tempo in cui, denunciata l’alleanza con Austria e Germania e dichiarando guerra solo all’Austria-Ungheria, il governo del Regno d’Italia lo mise innanzi ad un Esercito asburgico che aveva avuto tutto il tempo di prepararsi con artiglierie e mitragliatrici difficili da snidare.

Per questo le cose cominciarono già male, con il fronte italiano che, dopo aver incontrato una difesa insuperabile da parte del nemico, fu costretto a fermarsi e scavare trincee cercando di difendersi dal freddo e dall’acqua. Gli echi festosi del “maggio radioso”, promossi dalle logge italiane, divennero allora un lontano ricordo. Cadorna, da militare di impostazione classica (per formazione professionale e cultura apparteneva in effetti al secolo precedente), iniziò una serie di battaglie dell’Isonzo seguendo comunque la tattica degli altri comandanti: attacchi frontali di fanteria, preparati dal fuoco dell’artiglieria che, se tutto andava bene, si risolvevano nel guadagnare alcune centinaia di metri, finché ci si imbatteva in un’altra fila di trincee altrettanto difficili da superare.

Ecco allora che, quando il generale austriaco Conrad volle condurre, nella primavera del 1916, la sua “Strafexpedition”, ossia la spedizione punitiva contro l’Italia antica alleata, trovò impreparato il generale Cadorna, il quale non intuì le mosse dell’avversario, preso com’era dal problema organizzativo della grande battaglia dell’Isonzo per conquistare Gorizia. Perciò sull’altopiano di Asiago la difesa italiana non fu rafforzata, e quando iniziò un fuoco di arti­glieria di inusitata intensità, alle truppe italiane non rimase altra possibilità che di arretrare, permettendo all’esercito austriaco di superare per la prima volta la frontiera stabilita nel 1866.

Il 9 agosto 1916, comunque, alla fine Gorizia fu conquistata, risollevando meritatamente il prestigio di Cadorna e, al tempo stesso, entusiasmando il paese. Il 27 agosto fu però dichiarata guerra anche alla Germania e, dopo la presa di Gorizia, non certo per primaria responsabilità dell’allora Comandante in capo dell’Esercito italiano, insorse un conflitto tra gli alti comandi nazionali, in particolare tra Cadorna e il generale Luigi Capello, fatto oggetto quest’ultimo di una campagna di stampa troppo elogiativa, evidentemente diretta ad affrettare un cambiamento al vertice dell’esercito. Fu comunque per opera delle Forze armate tedesche che Caporetto si originò, individuando gli Ufficiali teutonici un varco nello schieramento italiano nella zona del piccolo paese noto per la tremenda sconfitta nazionale, oggi diventato Comune della Slovenia occidentale.

Fu tra Plezzo e Tolmino che lo schieramento italiano subì lo sfondamento nemico. Per attuare il progetto fu costituita un’apposita armata, composta di sette divisioni tedesche e di otto austriache, al comando del generale tedesco von Below. L’ordine del generale Cadorna di apprestare uno schieramento difensivo dimostra che i grandi movimenti di truppe nemiche non gli erano sfuggiti ma, anche qui, il “boicottaggio” interno dell’Ufficiale presumibilmente già silurato nelle logge fece il suo corso. Infatti, proprio in quegli stessi delicati giorni alcuni comandanti italiani sottovalutarono gli apprestamenti austro-tedeschi e, per la durata di un mese, Cadorna non fece molto per far eseguire al suo ordine altre disposizioni per la difesa.

Ecco allora che alle 2 e 30 del 24 ottobre 1917 tutta l’artiglieria austro-tedesca iniziò un violento bombardamento, scarsamente contrastato dall’artiglieria italiana, perché il generale Badoglio aveva diramato l’ordine di attendere il suo comando prima di sparare: quel comando non giunse a causa dell’interruzione delle linee telefoniche e della nebbia che impediva le segnalazioni ottiche. Anche in questo caso non ci sembra che al “generale di Caporetto” possano essere attribuite troppe responsabilità per il successivo accaduto!

Verso la sera del 24 ottobre Cadorna si rese conto della gravità della situazione e pensò a un ripiegamento fino al Tagliamento, anche perché convinto (in parte non a torto) che la responsabilità della sconfitta andava attribuita anche alla propaganda disfattista fra i soldati organizzata dai socialisti (ricordiamo ad esempio che allora a Ministro per l’Assistenza ai soldati c’era un certo Leonida Bissolati).

Con tutti questi nemici interni ed esterni era fatale che, fin dal 25 ottobre, si diffuse tra i soldati italiani una sensazione diffusa di vero e proprio panico. Alcuni gettarono le armi ai margini delle strade, alcuni dei reparti si mescolarono alla rinfusa e, alla fine, Cadorna dovette abbandonare l’idea di ritirarsi fino al Tagliamento, scegliendo come linea di arresto il fiume Piave, ancorandosi ai due massicci del Monte Grappa e dell’altopiano di Asiago. Il giorno 28 ottobre gli austro-tedeschi occuparono Udine: la sede del comando supremo italiano fu trasferita a Padova.

Il 9 novembre la ritirata si concluse con 11.000 morti e 280.000 prigionieri, con la perdita di gran parte delle artiglierie. I soldati sbandati, circa 350.000, furono rincorsi in ogni parte della penisola. Terminata quella drammatica ritirata, il generale Luigi Cadorna fu rimosso dal comando e inviato a Versailles per prendere parte a un comitato interalleato col compito di coordinare lo sforzo bellico dell’intesa. Al posto di Cadorna fu chiamato, come detto, il generale Armando Diaz che, come sottocapi, ebbe i generali Giardino e Pietro Badoglio (1871-1956), quest’ultimo massone come storici di tutte le tendenze hanno ormai assodato.

Le responsabilità del generale Cadorna nella disfatta di Caporetto non si discutono ma, è altrettanto vero, che la sconfitta fu dettata anche da cause oggettive e indotte. Non a caso, e ricordiamolo anche oggi nel centenario nel quale si ripetono ancora una volta versioni di comodo e ingenerose nei suoi confronti, Luigi Cadorna è da far passare alla storia anche come il generale «odiato dai massoni» (Antonella Grippo-Giovanni Fasanella, “1915: il fronte segreto dell’intelligence. La storia della Grande Guerra che non c’è sui libri di storia”, Sperling & Kupfer, 2014, cfr. il capitolo “Le mani della massoneria sulle forze armate”).

Non solo Luigi Cadorna era anzi convinto che convenisse lasciar avanzare gli Austro-germanici nella conca di Caporetto per poi annientarli a cannonate (strategia totalmente perdente come sappiamo) ma anche i comandanti Luigi Capello e Pietro Badoglio, quest’ultimo a capo della XXVII divisione, la pensavano allo stesso modo. Questo è documentato, ma allora perché questi due Ufficiali furono promossi a “Sottocapi” di Diaz dopo la rimozione di Cadorna?

Chiediamoci poi: che cosa avvenne nel resto del mondo dopo Caporetto? In primo luogo, dopo l’eliminazione dello zar Nicola II, accadde che in Russia il socialdemocratico Kerenskij fu travolto dai bolscevichi e Lenin, rientrato in “patria” proprio grazie ai Tedeschi, portò il Paese fuori dal conflitto mondiale. E quale regime totalitario e sanguinario schiavizzò mezzo pianeta durante il secolo XX da Mosca sappiamo bene…

In secondo luogo, dopo Caporetto, ormai sicuri sul fronte orientale, gli Imperi Centrali si scatenarono contro l’Italia per arrivare fino a Milano, così da imporre l’armistizio generale o proseguire verso la Francia.

Dunque mancò non solo in Cadorna ma in tutta la classe militare sabauda di allora una convinzione di fondo: non avere capito di trovarsi a fare i conti con un nuovo, tremendo nemico: la tecnologia. Dal punto di vista professionale, dunque, Cadorna non fu molto diverso dai Generali degli altri eserciti belligeranti, se non perché il suo nemico interno, l’Inimica Vis, lo logorò, gli pose le peggiori condizioni e, ancora oggi, ne diffonde una fama di uomo e di militare molto ma molto peggiore di quella che, va riconosciuto, meriterebbe.