La Nuova Bussola quotidiana 7 Novembre 2017
di Stefano Magni
Oggi, 7 novembre 2017, cade il 100mo anniversario della cosiddetta “Rivoluzione d’Ottobre”, la presa del potere di Lenin in Russia. Iniziò così il primo e più duraturo regime comunista del Novecento, quello dell’Unione Sovietica. E diede il via a quasi un secolo di terrore e conflitti. Tuttavia, sia in Russia che nel resto del mondo, si stenta ancora a vedere nel 7 novembre un anniversario nefasto.
Solo chi subì sulla propria pelle i crimini sovietici peggiori, come i popoli baltici, gli ucraini e i polacchi, oggi ha la netta consapevolezza che il 7 novembre non possa in alcun modo essere celebrato. Questo perché, ancora a 27 anni dalla caduta dell’Urss e della conseguente apertura di buona parte degli archivi di Mosca, persistono una serie di miti e veri e propri falsi storici.
Fu golpe e non rivoluzione.
Il primo mito è che il 7 novembre si celebri una “rivoluzione”. La rivoluzione, quella vera, ci fu l’8 marzo precedente e si concluse con il rovesciamento dello zar Nicola II. Nacquero da quella sollevazione un governo provvisorio e un Soviet (sindacato), ciascuno dei quali rivendicava l’autentico ruolo di rappresentante del popolo russo. I bolscevichi, guidati da Vladimir Lenin, fecero irruzione in questo fragile ordine dualista e presero il comando.
Quando avvenne l’insurrezione armata del 6-7 novembre 1917 (era ancora ottobre nel calendario giuliano, allora in uso in Russia), la maggioranza del Soviet era contraria a una presa del potere con la forza. Lenin precedette il Congresso dei Soviet di pochi giorni, proprio per cogliere i rappresentanti degli altri partiti di sorpresa e mostrar loro un fatto compiuto.
L’azione di forza venne effettuata contro il governo provvisorio e l’intera sua struttura burocratica. La burocrazia fu la prima a ribellarsi al colpo di Stato, boicottò il governo golpista sin dalle prime settimane di potere e venne sostituita in blocco dopo i primi scioperi dei colletti bianchi. Il golpe, condotto da una minoranza esigua di circa 10-15mila uomini, ebbe successo solo a causa del caos in cui versava il paese: nel terzo anno di partecipazione alla Prima Guerra Mondiale la Russia occidentale era invasa da milioni di profughi, tutte le regioni occidentali più ricche erano nelle mani dei nemici austro-tedeschi, l’esercito era allo sbando ed era minima la sua lealtà nei confronti di un governo che aveva portato il paese alla bancarotta.
Si può dunque descrivere il golpe bolscevico come un colpo di Stato militare: condotto da militari passati alla causa rivoluzionaria e con la complicità passiva del resto dell’esercito.
Il terrore rosso iniziò prima della guerra civile
Secondo la storiografia marxista sovietica, l’Urss fu sempre una democrazia (popolare). Anche secondo una storiografia più edulcorata, il governo bolscevico attraversò una prima fase democratica, che poi dovette essere soppressa solo a causa della guerra civile e dunque del “comunismo di guerra”. Questo è un falso storico. I partiti russi, sia quelli del Soviet che quelli del parlamento (Duma) vennero tutti soppressi entro il primo anno di regime bolscevico. L’unico libero voto si tenne nel dicembre 1917 per eleggere l’Assemblea Costituente.
Il voto venne caratterizzato da violenze e brogli organizzati dai bolscevichi, che si erano appena insediati al potere. Nonostante tutto, il partito bolscevico risultò fortemente minoritario, quando l’Assemblea si riunì nel gennaio 1918. A questo punto, Lenin fece occupare militarmente la sede dell’Assemblea Costituente e soppresse con la forza le prime proteste. Il terrore iniziò prima della guerra civile. La polizia politica bolscevica, la Ceka, antenata del Kgb, venne istituita già nel dicembre 1917, quando i russi ancora si illudevano di vivere in una nascente democrazia.
La guerra civile fu vinta da Lenin non grazie ai contadini, ma contro di essi
Immediatamente dopo la presa del potere da parte di Lenin, l’esercito si divise. Una parte maggioritaria prestò giuramento al nuovo governo, ma minoranze consistenti dell’esercito e degli ufficiali nelle regioni periferiche dell’impero, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Assemblea Costituente, si ribellarono e formarono armate “bianche” contro la nascente Armata Rossa.
Un secondo mito persistente della rivoluzione è che questa sanguinosa guerra civile, durata dal 1918 al 1921 (in alcune regioni remote dell’Asia continuò fino al 1923) sia stata vinta da Lenin perché questi combatteva per dare “la terra ai contadini”. Tuttavia, l’azione dei bolscevichi e della loro neo-costituita Armata Rossa, fu soprattutto una guerra contro i contadini.
Nel 1918 Lenin emise il primo decreto che imponeva la requisizione di tutto il grano necessario allo sforzo bellico. Ai contadini poteva essere lasciato solo il minimo di sussistenza. Nel 1919 Lenin emise un secondo decreto ancora più duro: il grano doveva essere confiscato in base a quote calcolate sulle esigenze dell’Armata Rossa e delle città industriali, indipendentemente dalle esigenze dei contadini. Se era necessario prender loro tutto il grano, a costo di farli morire di fame, la confisca procedeva ugualmente.
Non è un caso che, nel corso della guerra civile, le aree contadine come l’Ucraina, il Don, il Kuban, opposero una strenua resistenza all’Armata Rossa. Anche quando i bolscevichi avevano ormai vinto, l’ultima insurrezione contro il loro regime fu una rivolta contadina, nella regione di Tambov. Durò dal 1920 al 1921, venne stroncata con metodi spietati. La repressione e la politica delle requisizioni causarono la prima grande carestia sovietica, nel 1921-22, che provocò più di 1 milione di morti di fame e di stenti.
Nonostante tutto, persiste la leggenda della “guerra per dare la terra a contadini”, anche perché è utile a nascondere altre realtà ben più drammatiche. Prima di tutto: i bolscevichi furono sempre numericamente superiori (di gran lunga) alle armate bianche, nonostante tutto impiegarono tre anni (cinque, in Asia centrale) per prevalere. E in alcuni momenti, come nella primavera ed estate del 1919, rischiarono addirittura di perdere.
La vittoria fu dovuta a molti fattori, non da ultimo: il terrore. Trockij, che organizzò l’Armata Rossa, reintrodusse la pena di morte che era stata abolita all’inizio del 1917 e reintrodusse metodi disciplinari molto più duri rispetto a quelli dell’esercito zarista. I primi campi di concentramento, a partire da quello sulle isole Solovki, vennero istituiti non solo per internarvi i prigionieri di guerra, ma soprattutto gli oppositori interni, i “nemici di classe”, tutti coloro che erano accusati di sabotaggio dello sforzo bellico. Il terrore tenne assieme un esercito demotivato, per paura più che per entusiasmo per la causa bolscevica.
Lenin vinse grazie all’imperialismo, non contro di esso
Lo stesso arrivo di Lenin in Russia fu opera di uno degli imperi impegnati nella Prima Guerra Mondiale: quello tedesco. Lenin, esule ai tempi della rivoluzione, fece ritorno in Russia nell’aprile del 1917 grazie ad una (ormai nota) operazione condotta dai servizi segreti tedeschi, che avevano tutto l’interesse a far collassare la Russia e liberare truppe dal fronte orientale.
Al terzo anno di guerra, l’unico interesse di Berlino era la vittoria, anche con metodi che oggi chiameremmo di “regime change”, indipendentemente dall’ideologia del regime sostenuto. Nonostante ciò, nel febbraio del 1918, non giungendo a un accordo di pace con Berlino e Vienna, la Russia bolscevica venne di nuovo invasa dagli austro-tedeschi. La risposta di Lenin fu quella di rivolgersi agli Alleati contro i tedeschi. E fu per rispondere alla sua richiesta che gli americani e gli inglesi sbarcarono piccoli contingenti ad Arcangelo (estremo Nord della Russia) e i giapponesi e altri alleati, fra cui gli italiani, a Vladivostok (nell’estremo Est): per proteggere gli arsenali da loro forniti alla Russia negli anni di guerra, onde evitare che finissero nelle mani dei tedeschi.
Quando ben si giunse a un accordo di pace fra la Russia bolscevica e gli Imperi Centrali, Lenin cambiò fronte e chiese l’aiuto tedesco per scacciare gli Alleati. E non lo ottenne, perché i tedeschi non avevano più alcuna intenzione di aiutarlo, né i mezzi per aprire un nuovo fronte. Ma fu per questo che gli Alleati, passarono le loro armi alle armate bianche (ma non bastò a farle vincere).
Lenin ebbe poi buon gioco a presentarsi come vincitore di una lotta contro tutti gli imperialismi, fino a diventare il paladino delle cause di liberazione nazionale, ma solo perché l’impero che lo sostenne, quello tedesco, cessò di esistere dopo il 1918. E, nonostante il terzo e ultimo voltafaccia, lo stesso Lenin fu anche pronto ad accettare il sostegno degli imperi nemici dei tedeschi.
Queste quattro leggende principali, a cui se ne aggiunsero molte altre in seguito, servivano a sostenere la tesi di una “immacolata concezione” dell’Unione Sovietica. Quel che seguì e che non poté più essere nascosto, come il Grande terrore di Stalin, i gulag, le deportazioni di interi popoli, la carestia artificiale in Ucraina, vennero tutti attribuiti ad una presunta deviazione della rivoluzione, operata da Stalin, successore di Lenin.
Tornare alla storia, allontanandosi dalla agiografia marxista, è l’unico modo per comprendere, almeno a 100 anni di distanza, che non vi fu alcun tradimento, proprio perché non vi fu alcuna “immacolata concezione” dell’Urss.
Fu un regime che prese il potere con la forza e si resse grazie al terrore fin dalla sua nascita. Fu abbattuto grazie alla fede dei suoi sudditi e al fallimento del suo stesso sistema. Ma in quei 74 anni fece a tempo a spazzar via almeno 20 milioni di persone dalla faccia della terra, senza contare i milioni di morti fatti dai regimi che si instaurarono a sua imitazione, in tutti e cinque i continenti, man mano che si spargevano gli errori del comunismo.
Un secolo di incubo, spacciato come un sogno.