La Croce quotidiano 12 dicembre 2017
L’edizione di un cofanetto antologico è occasione per ripercorrerne tre storici album religiosi
di Piero Chiappano
In autunno inoltrato la Columbia Records ha messo in commercio un cofanetto dal contenuto prezioso che riguarda Bob Dylan. Intitolato “Trouble No More” (The Bootleg Series vol. 13 / 1979-1981) e disponibile in due versioni – quella “best of” in due cd e quella “deluxe” che ne contiene otto più un dvd e un ottimo booklet esplicativo e fotografico –, il cofanetto getta lo sguardo su di un periodo artistico del primo premio Nobel della storia del rock ai più sconosciuto.
Si tratta di materiale dal vivo e di studio in gran parte inedito relativo al periodo 1979-1981, periodo in cui Dylan si converte al cristianesimo e, dopo aver ricevuto il battesimo, con afflato intensamente predicatorio pubblica una trilogia di album a tema religioso e tiene una valanga di concerti dove presenta quasi esclusivamente canzoni del suo nuovo corso spirituale.
All’epoca la conversione di Dylan e il corollario artistico che l’accompagnò destarono scalpore e critiche feroci: i suoi fan erano abituati da quasi vent’anni a poetiche e complesse riflessioni sulla vita, ma non a ragionare in termini di salvezza, escatologia, redenzione. In Italia poi si pensò di ignorare il fenomeno, tant’è che questi album restano tra i più incompresi della grande produzione dylaniana.
E non poteva andare diversamente, se si considera che l’interpretazione del rock che veniva data dai critici musicali italiani era da sempre a senso unico e cioè un grimaldello da usare politicamente in tono ribellistico e moralmente lassista contro il sistema. Quindi finché un cantautore intellettuale scriveva “contro” andava benissimo, ma nel momento in cui scriveva di una soluzione diversa da qualche tipo di rivoluzione politica e proletaria e per di più tirando in ballo figure ingombranti come Gesù era meglio fare finta di niente. Quale miglior tattica, come sublimazione della manipolazione giornalistica, dell’indifferenza?
Per questa ragione, ascoltate oggi, le canzoni contenute in quegli album assumono un valore storico oltre che squisitamente musicale e mettono curiosità a chi vuole farsi un’idea più precisa di chi è stato ed è il più grande cantautore di tutti i tempi.
Bob Dylan nasce come Robert Allen Zimmerman da una famiglia ebrea del Minnesota. In gioventù riceve un’educazione religiosa che condizionerà per sempre il suo stile di scrittura: nei suoi testi le citazioni bibliche sono talmente tante e diluite con garbo e naturalezza da mandarci un segnale sulla reale portata dell’importanza di frequentare i testi sacri in giovane età, perché penetrano il tessuto delle nostre capacità di comunicazione cibandolo di metafore, simboli, personaggi universali che ci aiutano a fissare concetti, a interpretare e a spiegare le nostre convinzioni con una densa forza evocativa che crea continuità con la storia della nostra civiltà.
Negli anni Settanta Bob attraversa un periodo umano che lo devasta: il suo matrimonio con Sara Lownds, la donna che gli ha dato quattro figli, è pesantemente in crisi e si consuma in un divorzio il più possibile rimandato ma ormai inevitabile, i cui prodromi ed effetti sono stati oggetto di numerose canzoni scritte tra il 1975 e il 1977, non sempre facili nei testi, ma complessivamente accessibili sul piano musicale oltre che di grande qualità.
Avvenuto l’irreparabile, verso la fine del 1978 Dylan comincia a frequentare una confraternita evangelica, la Vineyard Fellowship, diventa un cristiano rinato e si lascia rapire dalla figura e dalla parola di Gesù. Ecco come lui stesso racconta il momento della svolta: “Verso la fine dello show, qualcuno in mezzo al pubblico si rese conto che non stavo troppo bene, penso che fosse una cosa evidente, e lanciò una croce. Di solito non raccolgo le cose che tirano sul palcoscenico. Quella volta, invece, guardai la croce e pensai: devo raccoglierla. Il giorno dopo stavo malissimo e sentii che avevo bisogno di qualcosa. Avevo provato di tutto, ora avevo bisogno di qualcosa che non avevo mai provato prima. Mi guardai in tasca e trovai quella croce. Avvertii una presenza nella stanza e non avrebbe potuto trattarsi di nessun altro se non di Gesù. Mi sentii rinascere. Gesù pose la sua mano su di me. Fu una cosa fisica: sentii la sua mano e il mio corpo cominciò a tremare. La gloria del Signore mi abbatté e poi mi aiutò a rialzarmi”. Da quel momento Dylan prende a scrivere musica secondo un programma preciso: “Non canto alcuna canzone che non mi venga direttamente da Dio”.
Il risultato musicale di questa potente esperienza del divino si concretizza nella realizzazione di tre album pubblicati in sequenza, musicalmente legati da una sezione cori tutta al femminile che fornisce alla produzione una chiara impronta gospel e che nel cofanetto appena pubblicato emerge in tutta la sua forza travolgente (a onor del vero va detto che l’impronta gospel, almeno sul piano degli arrangiamenti, è già fortemente presente in Street Legal, album del 1978 che possiamo considerare di transizione rispetto alla conversione cristiana).
Il primo album della trilogia si intitola Slow Train Coming: un disco ottimamente prodotto con suoni levigati e caldi e che vede alle chitarre la partecipazione di Mark Knopfler fresco di successo coi suoi Dire Straits. Le canzoni trasudano blues e presentano un Dylan messianico, molto a suo agio nel declamare temi inconsueti. Nella prima canzone Gotta Serve Somebody si pone l’accento sul tema della vita come servizio, un’ineluttabilità a cui non si sfugge, si tratta solo di scegliere come interpretare questo ruolo, consapevoli che nella vita non ci si può sottrarre al rapporto con gli altri e che la qualità delle relazioni dipende da noi: “Qualcuno lo devi servire, sarà magari il diavolo o il Signore, ma qualcuno lo devi servire”.
In Precious Angel ci viene detto che “Quanto Dio ci ha dato nessuno ce lo ruba”. I Believe in You si fa preghiera accorata: “Non far sì che io mi perda, tienimi accanto a Te, dove sarò sempre trasformato. Ciò che oggi mi hai dato vale più di quel che potrò mai pagare, e non importa ciò che dicono, io credo in Te”. Slow Train prefigurano l’avvento del regno di Cristo, descritto sotto forma di metafora di un lento treno che sta arrivando: “Certe volte mi sento davvero depresso e disgustato, vorrei proprio sapere che cosa succede ai miei compagni, sono persi o ritrovati? Ci hanno pensato a quanto gli costerà liberarsi da quei principi mondani che dovranno abbandonare? C’è un lento, lento treno che spunta dalla curva…”.
When You Gonna Wake Up sferza una società corrotta e perduta: “Filosofie contraffatte ti hanno inquinato i pensieri, Karl Marx ti ha preso per la gola, Henry Kissinger ti ha messo i lacci ai polsi… Adulteri in chiesa e pornografia nelle scuole, criminali al potere e fuorilegge che dettano le leggi. Quand’è che ti svegli, quand’è che ti svegli, quand’è che ti svegli a rafforzare ciò che resta?”.
Il tono profetico e fustigatore si completa durante i concerti, dove tra una canzone e l’altra Dylan non lesina critiche ai costumi del tempo: particolare clamore desta la reprimenda contro la città di San Francisco a proposito della quale dice che si tratta di “Un posto in cui gli omosessuali stanno crescendo, hanno una politica omosessuale, hanno un partito politico… mi viene da pensare che l’iniquità non sia ancora completa”.
Insomma, ce n’è abbastanza per essere accusato di bigottismo, fariseismo, conservatorismo – il reato di omofobia non era ancora stato inventato –, ma Dylan va spedito per la sua strada, al punto che nel febbraio del 1980 è già in studio per registrare il secondo album della trilogia, Saved, dove l’energia del gospel sembra soffrire di una produzione un po’ affrettata pur nella assoluta qualità di alcune canzoni, meno immediate all’ascolto, ma di grande respiro melodico.
Un disco di genere, realizzato senza pensare alle classifiche, scritto da un uomo liberato da ogni sovrastruttura e alla ricerca di un contatto col divino. Ed è direttamente a Dio che Dylan si rivolge. In Saved canta: “Sono stato salvato dal sangue dell’agnello e ne sono felice, tanto felice. Ti voglio ringraziare, Signore, voglio proprio ringraziarti, Signore, grazie, Signore”. In What Can I Do for You è l’umiltà ad essere protagonista perché, con un colpo di genio poetico, Dylan inverte le parti chiedendo a Dio cosa può fare per Lui per sdebitarsi del bene che gli sta facendo: “Non appena un uomo nasce, le scintille cominciano a volare, ai suoi occhi si fa saggio e invece crede alle menzogne. Chi lo salva dalla morte alla quale è destinato? Tu l’hai fatto e nessuno può pretendere di più. Per Te che posso fare?”.
La fiducia in Dio è totale, in Lui Dylan confida e se ne fa testimone. Così in Saving Grace: “Il malvagio non ha pace e la pace non si finge, c’è solo una strada ed è quella del Calvario. A volte si perde il coraggio, ma io non fallirò, per la grazia redentrice che si posa su di me”. Così in Solid Rock: “Mi reggo a una solida roccia, creata prima della fondazione del mondo, e non la lascerò, non la posso lasciare”. In the Garden parla del giardino in cui vennero a prender Gesù per arrestarlo.
La canzone si regge su una enumerazione di interrogativi: “Sapevano che era il Figlio di Dio, sapevano che era Lui il Signore? Lo sentirono quando disse a Pietro di mettere via la spada? Quando vennero a prenderlo nell’orto, lo sapevano?”. Meritano di essere trascritte le parole con cui introdusse una volta questa canzone: “La prossima canzone parla del mio eroe. Ognuno di noi ha un eroe. Da dove vengo io ce ne sono tanti, ma tanti davvero. John Wayne, Clark Gable, Richard Nixon, Ronald Reagan, Michael Jackson, Bruce Springsteen. Per certa gente sono eroi. Ma a me non importa niente di loro. Io ho il mio eroe, e ora canterò di Lui e di quando vennero a prenderlo nel giardino”.
Qui si può apprezzare lo sforzo comunicativo di Dylan che cerca di calare la presenza di Dio su di un contesto confuso ed effimero, giocando con sarcasmo sul concetto di eroismo e dimostrando grande finezza retorica.
Nell’agosto del 1981 vede la luce il terzo capitolo della trilogia cristiana. Si tratta di Shot of Love, un disco più ricco di influenze composite sul piano musicale e meno pervaso dalla tensione mistica che aveva caratterizzato le prove precedenti. Lo si capisce fin dalla prima canzone, Shot of Love, dove il bisogno d’amore che ritorna tra una strofa e l’altra sembra parlarci di un uomo alle prese con le maledizioni quotidiane, che un po’ annaspa e si sgomenta, più che un uomo sicuro della forza che viene dall’alto: “Perché mai dovrei togliervi la vita? Avete solo ucciso mio padre, violentato sua moglie, tatuato i miei figli con un ago avvelenato, deriso il mio Dio e umiliato i miei amici. Mi serve una dose d’amore, mi serve una dose d’amore”.
In Property of Jesus però Dylan riprende il cammino del credente e racconta la difficile vita del cristiano, destinato a dare scandalo in un mondo che lo disprezza perché sotto sotto lo teme: “Quando lui non salta a quella frusta che vi tiene in riga, dite che è duro d’orecchio, dite che è un povero idiota, dite che non è al passo coi tempi per mettergli i nervi alla prova, perché non paga le decime a quel re che voi servite… Dite che è un fallito perché non ha buon senso, perché non aumenta il suo profitto a spese altrui, perché non teme la sfida e non vi guarda sorridente e poiché non vi racconta né barzellette né fandonie dite che non ha stile. Appartiene a Gesù, odiatelo fin nelle ossa. Voi avete qualcosa di meglio, un cuore di sasso”.
Travolgente e di grande effetto è il blues rock di The Groom’s Still Waiting at the Altar, una canzone incisa durante le sessioni di registrazione di Shot of Love, ma esclusa dall’album e pubblicata successivamente come lato B di un 45 giri e poi nella versione cd. Qui Dylan si avvale della metafora giovannea secondo la quale Gesù è lo sposo e la chiesa è la sposa. Lo sposo aspetta all’altare una sposa che fatica a raggiungerlo: “Mettimi una mano sulla fronte, per caso ho la febbre? Vedo gente che si crede così in gamba e che sta lì come un arredo. Tra te e ciò che vuoi c’è un muro da saltare, stasera hai il potere di averlo, domani non l’avrai per tenerlo. A ovest del Giordano, a est della Rocca di Gibilterra, vedo la scena bruciare, il sipario alzarsi su una nuova era, e ancora lo sposo che aspetta all’altare”.
Ma l’apice dell’album e probabilmente della trilogia tutta è la canzone conclusiva Every Grain of Sand, una ballata dalla scrittura folk che il cofanetto Truble No More ci presenta in una versione ancor più bella e intima di quella data alle stampe nel 1981. Una canzone scritta in fretta “come se fosse stata dettata da qualcuno”, una canzone sulla fragilità dell’uomo e sul progetto di cui fa parte e che lo sovrasta, una canzone senza tempo, oggetto di numerose cover e molto amata dagli addetti ai lavori nonostante la sua semplicità strutturale, perché suona come una dedica a se stessi e sembra arrivare là dove per la maggior parte dei cantautori le parole si fermano.
Qui invece si mescolano Blake, Shakespeare, Pope, Isaia, Geremia, San Paolo, San Marco, San Matteo e il risultato suona così: “Spingo lo sguardo oltre la soglia dove infuria la fiamma della tentazione, e ogni volta che ci passo sento sempre chiamare il mio nome. Poi nel corso del mio viaggio arrivo a concepire che ogni capello è contato, come ogni granello di sabbia… Sento antichi passi come il muoversi del mare, qualche volta mi giro e c’è qualcuno, altre volte ci sono solo io. Sto nel punto d’equilibrio dell’umana realtà, come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia”. In un’altra versione della canzone Dylan racconta di stare nel punto di equilibrio di “un piano perfetto e completo”, aiutandoci a capire per sintesi poetica quanto sia ricco di significato e di gravitas il mistero della vita e di chi ce l’ha donata.
Trouble No More è un’operazione discografica che vale la spesa e potrebbe essere un ottimo regalo di Natale per chi cerca la presenza di Dio nella cultura popolare. Qui il livello artistico è elevato e il risultato è godibile per tutti, sia per chi già conosce l’opera di Dylan e si vuole esercitare filologicamente sia per chi vuole imparare a conoscerlo a partire da una produzione musicale intensa e non meramente canzonettistica.
In ogni caso è l’opera di un artista vero che attraverso le canzoni ha saputo parlare di se stesso e delle proprie idee mantenendo alta la tensione creativa e la preoccupazione di farsi capire e comunicare la propria fede.