Sono cittadini come le signore in bianco, persone semplici come Guillermo Farinas e Orlando Zapata Tamayo che hanno obbligato il governo di Raùl castro a fare delle concessioni
di Yoani Sànchez (*)
Un paio di giorni fa Coco, come lo chiamano affettuosamente gli amici, ha annunciato di aver deciso di interrompere momentaneamente lo sciopero della fame per dar tempo alle autorità cubane di rispettare la loro promessa e scarcerare i prigionieri politici. Il primo sorso d’acqua che ha bevuto dopo tanto tempo ha provocato nel suo esofago ormai arido la sensazione di una lingua di fuoco che è entrata dentro di lui bruciandolo.
Dopo un così lungo periodo senza ingerire nulla, tornare a bere e a mangiare non garantisce a Guillermo Farinas la sopravvivenza. La salute di questo psicologo e giornalista indipendente è estremamente fragile, perché nel corso degli anni ha fatto altri ventidue scioperi della fame. Una volta ha digiunato quasi sette mesi per chiedere libero accesso a internet per tutti i cubani.
I ventri vuoti
Nessuno può sapere con certezza se nel prossimo futuro Coco Farinas riuscirà a stringere la mano dei prigionieri politici che ha collaborato a far scarcerare con la sua determinazione. Un trombo capriccioso si è installato nella sua giugulare, i batteri e i germi si accaniscono contro il suo sangue, e un intestino incartapecorito per l’inattività riesce a malapena a contenere la flora che trabocca nell’addome. L’eroe della battaglia perla liberazione di cinquantadue dissidenti e oppositori cubani dovrà affrontare anche una dura battaglia contro la morte.
Quest’uomo ha sfidato un governo che non si è mai mostrato particolarmente clemente, ma oggi ha davanti a sé un impervio cammino per vincere i suoi problemi di salute.
Proprio la mattina in cui ha annunciato di aver deciso di interrompere lo sciopero della fame, la famiglia di Guillermo Farinas mi ha permesso di visitarlo nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Santa Giara. Nessuno dei due è riuscito a dormire: lui per un dolore all’inguine vicino alla ferita dell’alimentazione parenterale, io per paura che dopo aver resistito così a lungo potesse morire quella notte.
Sono tornata a casa triste e stanca, circondata da dichiarazioni ottimistiche sui prigionieri che sarebbero usciti dal carcere, ma con la convinzione personale che per Farinas la crociata per la vita fosse appena cominciata. Mi domando ancora com’è stato possibile che ci abbiano tagliato tutte le strade possibili di impegno civile, fino a lasciarci solo i nostri corpi da usare come stendardi, striscioni, scudi.
E mi chiedo com’è stato possibile che quest’uomo arguto, intelligente e profondamente umile abbia deciso di rifiutare qualsiasi alimento per tentare di convincere le nostre autorità a far uscire dal carcere chi non avrebbe mai dovuto entrarci.
Quando in un paese ci sono questi scioperi di ventri vuoti, è ora di chiedersi chi ha proibito la libera espressione dei cittadini, perché l’ha fatto e quali strade siano rimaste ai dissidenti.
L’unico spazio per farlo
Anche se oggi i giornali annunciano a caratteri cubitali l’opera di mediazione del ministro degli esteri spagnolo Miguel Àngel Moratinos e le trattative tra la gerarchia della chiesa cattolica e il governo dell’Avana, tutti sappiamo chi sono i veri protagonisti di questi giorni: sono cittadini come le signore in bianco, persone semplici come Farinas e uomini sofferenti come Orlando Zapata Tamayo, morto per uno sciopero della fame il 23 febbraio 2010.
Sono loro che hanno obbligato Raùl Castro a fare delle concessioni. Senza di loro, i sette anni scontati dai prigionieri arrestati nella primavera nera del 2003 avrebbero potuto trasformarsi in dieci o in cinquant’anni di condanna. Ma un uomo ha deciso di chiudere il suo stomaco alla benedizione del cibo perché loro potessero tornare a camminare per le strade del paese e riabbracciare le loro famiglie.
Se lo si guarda da vicino, come ho fatto io la sera di giovedì in un ospedale di Santa Giara, si vede che si tratta di un magro e comune abitante di questa zona, che una volta ha indossato l’uniforme militare come soldato di Cuba nella guerra di Angola. La stessa volontà che lo ha fatto camminare tredici chilometri in terre africane con un proiettile nella schiena gli ha permesso di non mangiare fino a pochi giorni fa. Il luogo in cui si è tenuta la sua tenace protesta è stato il suo stesso corpo, che in fin dei conti è l’unico spazio che gli hanno lasciato a disposizione.
(*) Yoani Sànchez è una blogger cubana. In Italia ha pubblicato Cuba libre. Vivere e scrivere all’Avana (Rizzoli 2009).Ha scritto questo articolo per Internazionale