Le ricerche dell’antropologa Elodie Cabot hanno recentemente portato alla luce nuove, agghiaccianti verità sul genocidio compiuto dai rivoluzionari francesi nella regione della Vandea, i cui abitanti insorsero nel 1793 per difendere il proprio Re e la propria Chiesa.
I crimini commessi dai giacobini sono ormai conosciuti da molti per merito di un’accurata opera di ricerca storica, ma raramente anche l’archeologia aveva contribuito a svelare gli aspetti più crudi della repressione rivoluzionaria. La studiosa francese ha infatti scoperto, durante gli scavi condotti nella città di Mans dall’Istituto Nazionale delle Ricerche Archeologiche Preventive, la presenza di ben nove fosse comuni.
Al loro interno sono stati rinvenuti centinaia di scheletri che, stando alle dichiarazioni di Elodie Cabot, portano tracce di ferite «da arma bianca al cranio e agli arti» nonché segni di un «accanimento feroce». La violenza rivoluzionaria non si fermò allo sterminio dei soli insorgenti, ma anche dei loro figli e delle loro mogli: molti degli scheletri contenuti nelle fosse sono, infatti, quelli di bambini di dodici-tredici anni. Sono stati addirittura trovati i resti del corpo di un bimbo di tre anni. Alle donne, affinché non facessero più «nascere briganti» – parole del generale Westermann, incaricato da Parigi della repressione – vennero brutalmente squarciati i ventri.
La reazione a tali scoperte, in Francia, non si è fatta attendere. È sempre la stessa Cabot infatti a rendere noto, su “La Stampa” (20 luglio 2010), che le sue ricerche hanno attirato su di lei accuse e minacce, provenienti soprattutto da Internet. La “libertà, l’uguaglianza e la fraternità” vennero così macchiate in tutta la Francia col sangue di 350.000 morti, di cui 5.000 solo nella città di Mans. Potrà mai la Repubblica riuscire a fare i conti con i crimini commessi in nome della Rivoluzione?