Libertà e Persona 22 Febbraio 2011
di Kurdakov
E’ istruttivo rileggere il rapporto di Enrico Berlinguer al XIV Congresso del PCI. L’intervento occupa ben sei pagine dell’Unità del 19 marzo 1975, e ne riporterò i passi a mio avviso più significativi.
Relativamente alla situazione economica, il giudizio sul declino dei paesi capitalistici è netto: Il fatto saliente, a partire dall’autunno scorso, è costituito da una caduta o ristagno delle attività produttive che si è ormai estesa in tutta l’area dei paesi capitalistici sviluppati, mentre persistono forti spinte inflazionistiche e si accresce il disordine e si accresce il disordine nel campo monetario e nei mercati finanziari, caratterizzati da cronica instabilità e da sfrenate e incontrollate attività speculative.Particolarmente grave è la recessione in atto negli Stati Uniti (…)
Anche nel Giappone si è avuta, nel 1974, una caduta sensibile delle attività produttive (con punte fino al 13%) e dell’occupazione. Nell’Europa Occidentale, anche la Repubblica Federale Tedesca – e cioè il paese la cui economia sembrava la più solida e quella meno esposta alla crisi – registra nel dicembre 1974 una diminuzione dell’indice di produzione industriale del 9,5% (…) Se si prendono i sette principali paesi capitalistici (USA, Giappone, Germania Federale, Francia, Gran Bretagna, Italia e Canada) si constata che il loro complessivo prodotto nazionale lordo è diminuito tra il 1973 e il 1974 dello 0,5%. (…) Nell’ambito dei paesi della Comunità economica europea vi è stato tra il gennaio del 1974 e il gennaio del 1975 un aumento di oltre 1 milione di disoccupati.
E fin qui si potrebbe anche condividere: sono note infatti le difficoltà economiche delle liberal-democrazie occidentali negli anni ’70, in particolare dopo la crisi del petrolio del 1973 (i più maturi ricorderanno in Italia l’austerity e le domeniche a targhe alterne).
Ma come vanno le cose nei paesi oltrecortina? ecco quanto riferisce Berlinguer: Ben diverso, e anzi del tutto opposto, è il quadro che presentano oggi i paesi dell’area socialista (…) Il dato fondamentale è che in tutti i paesi socialisti si è registrato anche nel 1974 e si prevede anche per il futuro un forte sviluppo produttivo. Dal rapporto annuale da poco reso noto sull’andamento economico nei paesi del Comecon risulta che nel complesso di questi paesi la produzione industriale nel 1974 è aumentata dell’8,5% rispetto al 1973. Inoltre, mentre i lavoratori dei paesi capitalistici sono duramente colpiti dall’aumento della disoccupazione e del carovita, nei paesi socialisti si registrano ulteriori miglioramenti nel tenore di vita dei popoli e nel loro sviluppo civile e culturale. E’ un fatto dunque: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no.
Al di là dei modi e delle istituzioni politiche in cui la costruzione del socialismo si è realizzata finora e che per molti aspetti, anche essenziali, non possono essere quelli in cui si realizzerà in altri paesi e regioni del mondo, si dimostra così che il socialismo, attraverso una pianificazione e un’effettiva direzione dell’economia nazionale nell’interesse della collettività, è in grado di garantire la continuità dello sviluppo produttivo e la crescita progressiva del benessere sociale.
E qui viene davvero da mettersi le mani nei capelli. Chiunque andasse in Unione Sovietica o in un paese del Patto di Varsavia, poteva rendersi conto della diffusa povertà che toccava l’intera popolazione (salvo la élite comunista al potere, s’intende). Berlinguer aveva visitato l’Unione Sovietica diverse volte: non si era accorto di niente?
Non è finita, perché Berlinguer prosegue dicendo che: E’inoltre ormai quasi universalmente riconosciuto che in quei paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione.
Quasi universalmente riconosciuto? E’ risaputo come in Unione Sovietica vi fosse una diffusione endemica della piaga dell’alcolismo. L’annullamento della libera iniziativa in ogni campo aveva spento le speranze, le menti, le ‘vite’ di tanti uomini e donne, che riuscivano a “sfuggire” a quell’inferno in terra solo con l’alcool (o con il suicidio). Un importante fattore di dissoluzione delle persone e del tessuto sociale fu sicuramente lo sfascio della famiglia, conseguenza della estrema facilità con cui era stato reso possibile divorziare (bastava inizialmente che anche uno solo dei coniugi ne facesse richiesta). Gli orfanotrofi-gulag si riempirono di bambini abbandonati o i cui genitori erano stati inghiottiti da qualche purga. La delinquenza minorile dilagava. L’aborto poi, che era stato legalizzato nel 1920, era diventato più frequente delle nascite.
Nel 1975 vi furono in Russia poco più di due milioni di nascite a fronte di quattro milioni e mezzo di aborti! Statisticamente, una donna russa abortiva in media due-tre volte nel corso della sua vita. Come non pensare che gli aborti fossero così numerosi perché, in aggiunta alla legalizzazione dell’aborto, anche la vita disumana, che pure le donne dovevano soffrire, facesse loro pensare che nei confronti di un figlio fosse più caritatevole ucciderlo nel grembo che farlo nascere in un simile incubo? Solo a partire dagli anni ’90, dopo la caduta del comunismo, il numero di aborti ha cominciato lentamente a scendere, e solo dal 2007 in poi il numero di aborti, pur ancora notevole, è stato superato dal numero di nascite. Ma su vita e famiglia, il PCI perseguì in Italia la stessa politica portata avanti “con successo” dai propri compagni del PCUS, ed ancor oggi, infatti, la persegue, anche se il nome del partito (ma solo quello) è cambiato.
Non parliamo poi di altri fattori “secondari” di cui Berlinguer non fa parola, ovvero la cancellazione della libertà d’espressione, la vita in uno stato-canaglia pronto a carpire un minimo sospiro reazionario, controrivoluzionario per poi farti fuori o metterti in un gulag quale vrag naroda, nemico del popolo. Come riferisce chi ha visitato l’URSS in quegli anni senza paraocchi, quando un russo voleva interloquire liberamente con un occidentale, badava di andare in luoghi aperti, lontani da occhi ed orecchie indiscrete. Si veda ad esempio il film Le vite degli altri.
La distanza dalla realtà non diminuisce quando Berlinguer parla di politica estera: Molti dei fatti accaduti negli ultimi mesi dimostrano che una parte dei gruppi dominanti dei paesi capitalistici tende a muoversi proprio in direzione di tentativi antidemocratici o minaccia avventure bellicistiche. …e via a descrivere la ripresa delle forze di destra e di gruppi apertamente reazionari (parola che ricorre spesso, ora come allora, nella propaganda comunista, insieme a fascista) nella Germania Ovest, le minacce americane alla pace in Medio Oriente attraverso il tentativo di dividere i paesi arabi, e inoltre: Assai allarmante è anche, negli USA, la pressione per un più massiccio intervento delle forze armate americane in Cambogia, e ciò si unisce al sostegno che continua ad essere dato nel Sud Vietnam alla cricca corrotta e sanguinaria di Van Thieu e alla sua azione di sistematica e vergognosa violazione degli accordi di Parigi.
Per carità, non si può dire che la politica estera degli USA sia sempre stata disinteressata, ma che dire di quella dell’URSS? Ecco che cosa pensava al riguardo Berlinguer: La giusta considerazione di questi pericoli non deve però oscurare la constatazione delle difficoltà e resistenze con le quali deve fare i conti ogni passo verso avventure di tipo bellico. Intanto, nel mondo di oggi, vi è la grande realtà rappresentata dall’Unione Sovietica, dagli altri paesi socialisti e dalla loro ferma e tenace azione a difesa della pace.
Bisogna dire che il concetto che i comunisti hanno della pace è ben singolare, se Giorgio Napolitano poté affermare nel 1956 che “l’intervento sovietico in Ungheria… oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”
Ma andiamo avanti, e passiamo alla situazione dell’Indocina: Non si lasciano certo intimorire il popolo della Cambogia e i combattenti del Vietnam del Sud. (…) Nell’Estremo Oriente, è ora che gli Stati Uniti cessino di dare appoggio ai regimi marci di Van Thieu e di Lon Nol, affinché siano pienamente attuati gli accordi di Parigi sul Vietnam e affinché il popolo cambogiano possa sovranamente decidere del proprio futuro. Mandiamo da questo nostro Congresso il saluto più fraterno e l’impegno di operante solidarietà dei comunisti italiani agli eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia.
Questo dunque il giudizio berlingueriano (e del PCI) sulla situazione in Indocina. Ben altra era la realtà, come ben la descriveva Eugenio Corti nel maggio di quello stesso anno: Nel 1954, in seguito alla pace di Ginevra, che segnò l’abbandono dell’Indocina da parte dei francesi, il territorio del Viet Nam fu provvisoriamente diviso in due al diciassettesimo parallelo: erano previste per il giugno ’56 “elezioni generali libere e democratiche” aventi come scopo la riunificazione del paese. Frattanto erano consentiti spostamenti di popolazioni tra il Nord (in mano comunista) e il Sud (in mano ai non comunisti) e viceversa.
Fu appunto questo che consenti nel ’54-‘55 il grande esodo di un milione e centomila non comunisti (in maggioranza cattolici) dal Nord verso il Sud. L’esodo sarebbe stato di proporzioni maggiori, se le forze armate comuniste non fossero intervenute a troncarlo con la forza. Spostamenti di popolazioni verso il Nord non se ne verificarono. Nel 1956 le elezioni non vennero tenute, in quanto il Nord – tra l’altro più popoloso – aveva nel frattempo “scelto il socialismo”, e nello stesso Sud – per dichiarazione dei suoi governanti di allora – c’erano in molti luoghi formazioni armate comuniste che le avrebbero influenzate.
(…) Nel Sud Viet Nam i vietcong non erano totalmente padroni della situazione (…), ma le testimonianze concordano nel dire che, a quel tempo, essi, dove potevano giungere, uccidevano implacabilmente i capi villaggio, i maestri elementari, e insomma ogni pur piccolo funzionario fedele al governo; è da allora che le popolazioni cominciarono a essere raccolte nei cosiddetti ‘villaggi fortificati’. Non essendosi tenute le elezioni, la lotta armata riprese.
Perché i civili da anni – e tanto più ultimamente – abbandonano case, campi e ogni loro povero avere, e fuggono in massa verso le ultime zone difese dall’esercito del Sud, anziché attendere l’arrivo dei comunisti? (…) Pietro Gheddo, direttore di una rivista missionaria milanese (è il maggior studioso italiano del mondo vietnamita, sul quale ha scritto anche dei libri molto letti nello stesso Viet Nam), riferisce: “Nel viaggio che ho fatto nel dicembre ’73 ho potuto visitare numerosi campi di profughi e ovunque ho sentito la stessa storia: gente che era scappata da villaggi e città della zona vietcong dopo uno, due, tre anni di vita sotto quel regime; tutti ripetevano che la vita era durissima, il controllo politico soffocante, l’eliminazione degli avversari politici sicura, la libertà religiosa quasi inesistente”.
Anche tra i militari nordvietnamiti e vietcong prigionieri, quando Thieu, in base agli accordi di Parigi “voleva consegnarli ai vietcong, molti non volevano assolutamente acconsentire“. Ancora: “Un padre di sette figli fuggito dopo alcuni anni di esperienza comunista, mi diceva: ‘La vita è impossibile: controlli continui, lavoro gratuito per l’esercito nordvietnamita, tutto è proprietà dello stato, una serie di divieti che soffocano, lunghe serate di riunioni politiche in cui bisogna fare l’autocritica e accusare gli altri… Si instaura un clima di terrore, quelli che osano protestare, o anche solo fare domande indiscrete, scompaiono senza lasciare traccia. Dopo qualche mese la gente non pensa che a scappare a qualunque costo‘”. ? il noto quadro del comunismo staliniano.
Sempre nel dicembre ‘73 Gheddo ha visitato Hué, dove un sacerdote cattolico (di cui tacciamo il nome, perché ora la città è nuovamente in mano comunista) gli ha detto: “Prima del 1968 la città di Hué era la più contraria a Thieu e la più favorevole a un dialogo col F.L.N. Poi siamo rimasti una ventina di giorni ‘liberati’ dai vietcong e dai nordvietnamiti durante l’offensiva del Tet del febbraio-marzo 1968. In quell’occasione i comunisti fecero di tutto per alienarsi le simpatie della gente, fino a compiere massacri di civili – 3.000 cadaveri scoperti nelle fosse comuni – mai visti in precedenza. Dopo di allora, anche i capi dei movimenti studenteschi dell’università, che si erano pronunziati in favore d’un regime socialista, dichiararono che preferivano una dittatura nazionalista a una dittatura comunista“.
Sempre a Hué un altro religioso, il gesuita padre Urrutia, direttore del centro studentesco cattolico, gli riferì che in seguito a quell’esperienza del ‘68, quando nel ‘72 i comunisti, durante una nuova offensiva, giunsero a circa quaranta chilometri dalla città “Hué si svuotò quasi completamente dei suoi abitanti: fuggirono tutti verso il Sud, verso Danang, e tornarono solo mesi dopo, quando ogni pericolo era scomparso. In città non era rimasto che il 10% dei suoi trecentomila abitanti…
All’ospedale su trenta medici ne rimasero tre, tutti stranieri. L’università si svuotò completamente, gli uffici e le fabbriche erano deserti, di bonzi non c’era più traccia. Siamo rimasti, con l’Arcivescovo, una ventina di sacerdoti su più di cento. Sembrava una città di morti… Poi” – concluse padre Urrutia – “mesi dopo, quando tornai in Europa, lessi su riviste cattoliche che in quel tempo la popolazione di Hué aspettava con ansia l’arrivo dei liberatori…“
In realtà sta qui, a giudizio di chi scrive, la più grande vittoria comunista: nel fatto che gli uomini liberi d’Europa e d’America siano sempre meno disposti ad agire in difesa della libertà, e che molti di loro, per tranquillizzarsi, accettino ad occhi chiusi la propaganda comunista.
Ecco dunque le gesta degli “eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia”: in Vietnam il regime comunista ha causato più di un milione e mezzo di morti (fino ad ora) e l’esodo dei “boat people” (stimato attorno al milione di persone); in Cambogia – il cui tragico destino è ben descritto nel film Le urla del silenzio – una volta caduta Phnom Penh nelle mani dei Khmer Rossi (evento salutato dall’Unità come la sua “liberazione”) in soli tre anni il regime comunista sterminò un numero di persone stimato dai due ai tre milioni (su una popolazione di circa otto milioni!)
La domanda che ci si pone è: Berlinguer sapeva e mentiva o non sapeva perché non voleva sapere (i mezzi per sapere li aveva)? Credo che la risposta sia nota solo a Dio.
Possiamo però chiederci: Enrico Berlinguer è stato, oggettivamente, un servitore della giustizia e della verità? A questa domanda l’unica risposta che possiamo darci è un secco ‘no’. E’ una risposta che non piacerà a quanti ritengono che, comunque, come cantava Gaber, “Berlinguer era una brava persona”, ma è l’unica risposta onesta che si può dare se non si vuole offendere la memoria dei milioni di uomini e donne vessati ed uccisi in nome del sol dell’avvenire.