Un saggio racconta lo sfortunato scontro a Oriente con la Sublime Porta
di Rino Cammilleri
«L’esatto contrario, almeno in questo caso, di quell’immagine di generali da operetta che la storiografia ha assegnato ai comandanti in capo degli eserciti della Chiesa, giudicandoli soltanto campioni del più puro e spregiudicato nepotismo».
Così chiude la sua opera (La santa impresa. Le crociate del papa in Ungheria, 1595-1601, Salerno Editrice, pagg. 200, euro 14) Giampiero Brunelli. A chi si riferisce? A due «pari campioni di gloria militare», Alessandro Farnese, duca di Parma, e Giovan Francesco Aldobrandini, nipote del papa Clemente VIII. Il secondo, morto nel 1601, aveva riconquistato Strigonia ai turchi in Ungheria, «operazione militare che stupì enormemente i contemporanei».
Fu il protagonista delle tre spedizioni volute dal papa contro l’invasione ottomana dell’Ungheria: nel 1595, nel 1597 e nel 1601. Il protestantesimo aveva sottratto alla Chiesa quasi tutta l’Europa del Nord, Francia e Spagna si erano combattute fino allo sfinimento e la Francia per creare difficoltà all’impero asburgico non aveva esitato a stringere trattati di amicizia con gli ottomani.
In questo quadro, «quasi soltanto il papa, con il suo Stato, con il suo screditato esercito, decise di prendere le armi». Il papa cercò in ogni modo di coalizzare i prìncipi cristiani, ma doveva fare i conti con una serie di problemi. Sulle nazioni luterane e sull’Inghilterra anglicana non poteva contare: l’odio per i papisti le induceva a fare il tifo per il turco. Venezia temeva per i suoi possedimenti e non intendeva provocare la Sublime Porta. L’imperatore Rodolfo II: una cospicua fetta dei suoi sudditi era protestante. E c’è un altro aspetto: l’ideologia islamica faceva dell’impero ottomano un regime totalitario. Tutta la terra e tutti i sudditi appartenevano al sultano. Così, immensi eserciti si muovevano a un suo cenno. Il cristianesimo, invece, aveva foggiato istituzioni e uomini liberi.
L’imperatore non aveva neanche una frazione del potere che aveva il sultano. Doveva consultare le varie Diete, i nobili, le città libere, e contrattare tutto. I soldi per ogni spedizione, praticamente, glieli diede il papa. E poi c’era il problema delle precedenze: ogni comandante non avrebbe mai obbedito a qualcuno che gli fosse inferiore o anche pari in rango. La malattia infantile, insomma, del campo cristiano era l’individualismo. Anche l’arruolamento non era un problema per il turco ma per i cristiani sì.
Questi ultimi erano tutti volontari e dovevano essere pagati. Il papa fece ricorso anche all’indulto per i banditi. La misura, però, riempì le schiere di avanzi di galera. E poi le malattie: genti mediterranee sopportavano male il clima ungherese, torrido d’estate e gelido d’inverno. Le tre spedizioni si risolsero in un flop. Gli unici successi furono ottenuti dai guerrieri del papa (che si svenò finanziariamente). Il tanto esecrato nepotismo papale fu in quell’occasione, invece, la scelta migliore: Giovan Francesco Aldobrandini era capitano della guardia pontificia e l’unica guerra che aveva visto era quella al banditismo. Andò a morire di polmonite in Ungheria e la sua morte scrisse la parola fine sulla crociata.
Un esempio delle difficoltà: poiché era malato, incaricò il suo luogotenente, Flaminio Delfini, di mettere d’accordo gli ufficiali superiori. Solo che questi rispondevano ai nomi di Paolo Savelli (il cui casato aveva dato anche dei papi), Orazio Baglioni (erede dei signori di Perugia), Carlo Malatesta, Vincenzo Gonzaga e Giovanni de’ Medici (i cui nomi non hanno bisogno di commento). I quali si guardarono bene dal prendere ordini da un Delfini qualsiasi.
Ecco un altro esempio: riconquistata una città, i cattolici restaurarono il duomo trasformato in moschea; e i protestanti distrussero tutte le statue, gli arredi e gli affreschi. Malgrado tutto, nel 1717 il principe Eugenio di Savoia liberò per sempre l’Europa dai turchi.