Procede la riscoperta del grande pensatore russo fucilato durante il regime stalinista. I suoi numerosi scritti, che ritornano in libreria dopo decenni di oblio, sono segnati da una costante tensione polare: fra l’umano e il divino, l’istante e l’eterno
di Marco Roncalli
Insomma, anche se solo vent’anni fa Sergej Averincev dichiarava il suo sconcerto per il fatto che l’opera florenskijana venisse ancora «somministrata in dosi omeopatiche», il tempo questa volta ha reso giustizia alla grandezza di un uomo di fede e di scienza, al suo genio e alla sua santità, ai suoi contributi nelle più svariate discipline dello scibile e alla sua fedeltà integrale alla verità.
Definito già all’inizio del Novecento il «Leonardo da Vinci russo» (anche se – come diceva padre Aleksandr Men’ – il paragone non deve farci dimenticare nemmeno per un attimo la fine di Florenskij e la reclusione nei gulag non appena la sua presenza era diventata inaccettabile per il regime), oggetto di raffronti persino con Platone o Sant’Agostino (ma rimandi efficaci reggono benissimo – per molte intuizioni anticipatrici – ad autori contemporanei più che a grandi pensatori del passato), il presbitero ortodosso che aveva scommesso tutto sull’ecclesialità («tserkovnost’»: «il nome del porto dove trova quiete l’ansia del cuore, dove si piegano le pretese del raziocinio, dove una grande pace scende sulla ragione…»), riempì la sua vita in modo inverosimile.
Educato in una famiglia non religiosa a una «visione scientifica del mondo», dopo gli studi primari a Tbilisi in Geòrgia e – superata una crisi esistenziale («soffocavo per mancanza di verità») – all’università di Mosca, nel 1904 si laurea in matematica e fisica, studiando però anche storia, filosofia, psicologia. La sua sfida già a questa data è però un’altra: «Operare la sintesi tra la fede della Chiesa e il pensiero laico». Rinuncia a collaborare con l’ateneo moscovita e si iscrive all’Accademia Teologica trasferendosi presso il Monastero della Trinità e di San Sergio a Sergej Posad. Qui si concentra nelle sue ricerche volte ad attuare una sintesi fra tradizione teologica cristiana e cultura filosofìco-scientifica occidentale.
Già al terzo anno, nel 1906, dimostra di saper affrontare questioni cruciali. della riflessione ecclesiologica che attendono approcci di rinnovamento (si veda ad esempio // concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura, edito tre anni fa dalle Edizioni San Paolo). Ma sì occupa anche di spiritualità ortodossa, logica simbolica, teoria della conoscenza, archeologia, cultura ebraica: «II positivismo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la metafìsica astratta, lo volevo vedere ‘anima, ma volevo vederla incarnata».
Andrej Belyj, che lo conosce in questi anni, ne parlerà con tenerezza ricordando i suoi capelli lunghi, il naso pronunciato, l’esile costituzione e la voce bassa. Sergej Fudel’ aggiungerà che Florenskij nei suoi discorsi – rivelando particolare attenzione al significato delle parole – mescolava argomenti disparati. In realtà, come dimostra la cronologia di molti testi (ad esempio quelli raccolti sotto il titolo // sìmbolo e la forma, edito da Bollati Boringhieri nel 2007, da quelli redatti dopo la conclusione degli studi matematici, imbevuti delle scoperte cantoriane, agli appunti sulla fìsica trascritti poco prima dell’arresto), l’attenzione di Florenskij per le problematiche scientifiche resta una costante per tutta la vita: si veda il saggio di Renato Betti, edito dal Centro Prìstem Eleusi, La matematica come abitudine del pensiero. Le idee scientìfiche di Pavel Florenskij. Si tratta di una costante solo in apparenza parallela alla ricerca teologica, che sfocia infatti in approcci epistemologici congiunti.
Nel 1910 Florenskij sposa Anna Giacintova, dalla quale avrà cinque figli. L’anno seguente viene ordinato sacerdote, Un traguardo immaginato da tempo se – stando al vescovo Antonij Florensov, suo direttore spirituale – già quand’era solo un giovane matematico alla ricerca della sua vocazione, Florenskij mostrava di aver intuito il centro della sua vita: Cristo, irriducibile a dogmi e a valori astratti, ma neppure riducibile alle sole buone azioni.
Mentre attende ai suoi doveri pastorali e all’insegnamento, padre Pavel completa la sua tesi Sulla verità spirituale, in seguito ampliata e pubblicata nel suo capolavoro del 1914, ora ritornato in libreria dopo la prima edizione italiana apparsa 36 anni fa per la cura di Elémire Zolla e i tipi di Rusconi: La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodìcea ortodossa in dodici lettere.
Da tempo introvabile e ora riproposta dalla San Paolo a cura di Natalino Valentini (cui si aggiunge l’edizione curata da Roberto Revello per le edizioni Mimesis), essa è certamente l’opera più rappresentativa del teologo, ma anche una summa del pensiero ortodosso, un trattato spirituale e ascetico, un creativo confronto tra ragione e fede, una ricerca della verità colta nel suo valore ontologico e salvifico.
A giudizio di Evgenij Trubeckoj, «forse, in tutta la letteratura mondiale, se si fa eccezione per le Confessioni di sant’Agostino, non c’è analisi più illuminante e tormentata dell’animo umano, lacerato dal peccato e dal dubbio, e nessuna opera ha saputo manifestare con tanta chiarezza la necessità di un aiuto dall’Alto per soccorrere il dubbio umano». Opera matura e complessa, La colonna, se ha ispirato un grande teologo come Sergej N. Bulgakov, ha pure dato adito a incomprensioni, specie per le pagine dedicate alla sofiologia.
Gli eventi, nel frattempo, precipitano: arriva la Rivoluzione russa. L’Accademia teologica viene chiusa, ma Florenskij trova facilmente lavoro nelle istituzioni scientifiche, come docente, ingegnere, autore di importanti scoperte da lui brevettate. Diversamente da tanti suoi amici intellettuali credenti – esortati «a non abbandonare la nave», ma partiti per l’estero – sceglie di non emigrare.
Motiva la sua scelta con un’affermazione: «Tutto posso in colui che mi da la vita, che mi da la forza». Ma già nel 1906 aveva scritto: «La vita non ci aspetta, la vita reclama le sue esigenze, e ora non si potrà più restare semi-credenti o semi-ortodossi come la maggior parte di noi, ma è necessario raccogliere tutte le forze dell’anima in vista di un unico fine: per servire la Chiesa, per difendere la Chiesa e, chi lo sa, forse per il martirio».
Dunque resta. E si impegna ancor di più e in tanti campi, palesando la sua identità di sacerdote-scienziato. Continua i suoi studi. Su tutti i fronti. E, proprio a questo periodo, attorno agli anni ’20 -71 data il manoscritto dettato alla moglie e poi da lui corretto, tradotto in italiano per la prima volta da Adelphi nel 1977 con il titolo Le porte regali e ritradotto un paio di anni fa in Italia dalle Edizioni Medusa con il titolo Iconostasi: è il suo famoso saggio sull’icona, frutto della riflessione teologica e filosofica maturata nel monastero di San Sergio.
Il partito sfrutta la sua vasta conoscenza; gli ordina ricerche per l’elettrificazione della Russia, sui minerali, la radioattività… E gli chiede di rinunciare al sacerdozio. Florenskij non si risparmia quanto ai lavori tecnici, ma rifiuta di deporre la talare, la croce pettorale o il suo cappello da prete (con cui si presenta anche davanti al Soviet supremo dell’economia nazionale). Da anni ormai stila anche pagine autobiografiche dedicate ai figli, con i ricordi della sua adolescenza tra il Caucaso e il Mar nero, già segnate da una ricerca sul senso della vita.
Ma l’involuzione politica in patria – con l’affermazione del potere dei Soviet, che non tarda a rivelare la sua strategia di persecuzione – finisce per far affiorare anche lì il presentimento della propria tragica fine. Se ne ha conferma leggendo Ai miei figli. Memorie di giorni passati edito nel 2003 da Mondatori.
Il suo caso, sopportato per un po’ grazie ai suoi meriti personali, diventa sempre più intollerabile agli occhi del regime, nonostante diversi interventi in suo favore. E dopo aver rifiutato più volte la possibilità di essere inviato all’estero con la famiglia Florenskij va consapevolmente incontro al martirio. Tutto si complica dopo il secondo arresto, nella notte tra il 25 e 26 febbraio 1933, motivato con la falsa accusa di aver fondato «un’organizzazione controrivoluzionaria nazifascista». Il sacerdote viene condannato a dieci anni di gulag. Inizia a scontarli e rifiuta pure la commutazione del lager con l’esilio in cecoslovacchia, dove gli si offre la possibilità di un lavoro scientifico.
Quando Florenskij oppone questo ennesimo rifiuto, nel 1936, è già alle Solovki, le «isole dell’inferno». Per capire cosa fossero le Solovki si può vedere il saggio di Maurizio Campa L’epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki, uscito da poco per la Morcelliana, oppure quello di Francine-Dominique Liechtenhan per i tipi delle Edizioni Lindau e titolato Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema concentrazionario sovietico. Ma persino il queste condizioni padre Pavel riesce a conservare una integrità spirituale che gli consente di essere punto di riferimento per i compagni di lager. Al figlio Kirill scrive: «La cosa più orribile della mia sorte è la cessazione del lavoro e la sostanziale distruzione dell’esperienza di tutta la mia vita. Ebbene, se non fosse per voi non mi lamenterei di aver subito questa sorte…».
Tutto sembra perduto, ma non è mai così: Florenskij vive sino in fondo tutto quello che gli è dato di vivere, sapendo che «non sono gli affanni del presente a oscurare l’eternità, ma che l’eternità ci guarda dalle profondità degli affanni del presente». Gli ultimi tre anni prima della fucilazione sono i più terribili. Confida ai suoi di avere ormai poca luce nell’anima, ma mantiene tutto: la sua fede, la sua visione unitaria del mondo, la sua creatività.
Alla moglie Anna scrive: «Ricordati che i miei figli sono me e che, guardando loro, sei con me», E ai suoi figli, invece: «Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo… Allora la vostra anima troverà la quiete».
In una di queste lettere dal gulag (ora anche negli Oscar Mondadori con il titolo Non dimenticatemi), alla data 20 aprile 1937, pochi mesi dalla morte, si legge: «La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti sfugga l’istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua ed essenziale: colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale».
Questo contenuto sostanziale impregna l’intero corpus di scritti florenskijani sin qui disponibili, dove è il messaggio evangelico a essere palesato nelle generalità culturali del suo tempo, Una cultura che a Florenskij appare essenzialmente come germinazione del culto, nella consapevolezza che «la fede definisce il culto e il culto la comprensione del mondo (miroponimanie), dalla quale poi deriva la cultura».
Certo, si stenta ancora un po’ a valutare la cifra complessiva della sua weltanschauung: sfuggente ai consueti canoni di classificazione e più facilmente frammentabile in questo o quel singolo comparto disciplinare, essa richiede tuttavia un abbraccio vasto, profondo, concentrato sulla sua inviolabile unità, non su ritagli talvolta arbitrari. Ce lo ricorda, a ragione, Natalino Valentini, uno dei più apprezzati studiosi italiani di Florenskij, autore – tra l’altro – di Pavel A. Florenskij: la sapienza dell’amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità (Edizioni Dehoniane, 1997), di Pavel A. Florenskij (nella collana “Novecento teologico” di Morcelliana, 2004), e che ha appena mandato in libreria – oltre alla nuova edizione della Colonna con la San Paolo – anche Bellezza e liturgia (Mondadori): una raccolta di scritti florenskijani – redatti tra il 1909 e il 1923 – su cristianesimo e cultura.
Apre queste pagine, in larga parte inedite, una frase: «II fragile vaso delle parole umane deve poter contenere il diamante infrangibile della divinità». Parole di Florenskij che racchiudono il cuore del suo pensiero: la ricerca della divina presenza in ogni attività umana, la contemplazione della bellezza così presente nella spiritualità ortodossa, ma senza allontanare lo sguardo dalla drammaticità dell’esistere o dalle ferite del tempo. Una freccia che attraversa la terra e il cielo, il mondo visibile e invisibile, l’istante e l’eterno.