L’ultimo film di Beauvois porta nelle sale la drammatica vicenda dei monaci rapiti e assassinati a Tibhirine, sull’Atlante algerino, negli anni Novanta. Una pellicola che ha già commosso la laica e polemica Francia
di Paola D’Antuono
Un esempio per comprendere il concetto espresso nel Sinodo potrebbe essere ben rappresentato dagli otto padri cistercensi francesi che vissero negli anni Novanta all’interno del monastero di Tibhirine, in Algeria. La loro storia è stata raccontata prima in un libro, Più forti dell’odio – Frère Christian de Chergè e gli altri monaci di Tibhirine (Ed. Qiqajon, Comunità di Bose), successivamente nel film Uomini di Dio diretto da Xavier Beauvois. La pellicola, presentata lo scorso maggio all’ultimo Festival di Cannes, ha entusiasmato la critica e si è aggiudicata il Gran Premio della Giuria.
Ora, se è vero che la manifestazione francese ama premiare opere che non incontrano il favore del pubblico e che al contrario alimentano polemiche feroci, è anche vero però che questo film è stato in grado di rovesciare tutti gli stereotipi che in prima battuta gli si potevano attribuire. Uscito in sala in Francia lo scorso 8 settembre, ha sbancato il botteghino: finora più di due milioni di spettatori lo hanno visto. In Italia è uscito lo scorso 22 ottobre in 50 copie distribuite da Lucky Red, che spera di riuscire ad avvicinare il risultato francese. Un successo che non si aspettava nessuno, né il distributore, né il regista e il cast artistico, talmente subissati dagli impegni, da riuscire a promuovere l’opera solo in patria.
Il film è ambientato negli anni Novanta. Sulle montagne del Maghreb c’è un monastero abitato da otto monaci cistercensi, il cui priore è Frère Christian (interpretato da Lambert Wilson). I padri vivono in assoluta armonia con la gente del luogo, popolazione interamente islamica, che sostengono e aiutano nelle attività quotidiane. Padre Luc, di professione medico, fornisce da sempre assistenza gratuita ai malati, curandoli e regalando loro i medicinali di cui necessitano.
Lavora tutto il giorno, nonostante gli acciacchi dell’età e una forte asma, arrivando a visitare fino a 150 malati al giorno. L’armonia tra autoctoni e religiosi è tangibile, i padri non tentano in alcun modo di fare proselitismo: partecipano con gioia alle feste del villaggio quando non sono impegnati nella preghiera, costante durante l’arco della giornata, che accostano al canto per entrare in comunione con «il Soffio della Vita».
Intorno a loro, la situazione non è facile. Al governo c’è il Fronte Islamico di Salvezza, ma cinque giorni prima del secondo turno elettorale, l’esercito con un colpo di Stato annulla le elezioni e lo dissolve. Da quel momento si assiste a un’escalation di violenza inaudita. Un gruppo di operai croati cristiani viene sgozzato da un commando di terroristi.
L’esercito algerino offre protezione armata ai monaci, che potrebbero essere il prossimo obiettivo, ma questi rifiutano in quanto uomini di pace.
Alla vigilia di Natale, nel convento irrompono alcuni fondamentalisti islamici che rivendicano il massacro degli operai e chiedono di parlare con il «Papa del luogo». Il priore li affronta fermamente e riesce a allontanarli, ma resta la minaccia concreta di un ritorno.
L’incontro ha provato i monaci, dentro i quali si innesta un dubbio fortissimo: restare o andare via? Come da tradizione cistercense, le decisioni vanno prese attraverso una votazione, ma gli animi sono troppo agitati e il voto viene rimandato. Quando Padre Luc presta soccorso a un terrorista salvandogli la vita, tutto precipita.
L’esercito algerino preme perché i monaci rientrino in Francia ma i confratelli consapevoli che la loro vita e la loro vocazione sono tra quella gente, decidono di rimanere. Frère Christian scrive un testamento spirituale in cui prevede l’avvicinarsi della morte, convinto però fermamente che non avverrà per mano del popolo algerino: «L’Algeria e l’islam – scrive – per me sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima». Pochi mesi dopo, un commando prende in ostaggio sette dei monaci presenti nel monastero.
L’Ultima Cena prima del martirio
La storia s’interrompe qui, anche se sappiamo che i monaci furono sgozzati e le loro teste vennero ritrovate molto tempo dopo. Il mistero attorno a queste morti è ancora vivo: chi li ha uccisi? La Gia (Gruppo islamico armato) che ha rivendicato l’attentato o l’esercito algerino per cui i monaci erano diventati una presenza scomoda? I dubbi sono molti, ma il film non suggerisce alcuna lettura.
Il regista preferisce concentrarsi sulla vita dei monaci, la macchina da presa è accanto a loro in ogni momento, e ci mostra l’assoluta semplicità della loro vita, la devozione a Dio e i dubbi che in alcuni momenti li pervadono. La quotidianità è scandita dal lavoro e dalla preghiera, dallo studio e dalla riflessione, dalla volontà di rimanere fedeli al disegno che Dio ha scelto per loro: continuare a condurre un’umile esistenza in quel monastero che è la loro casa, pregando, lavorando e offrendo conforto a un popolo povero e oppresso.
La morte rappresenta solo un passaggio successivo e necessario ma, se all’inizio è vissuta con angoscia, come per qualsiasi essere umano, alla fine del film diviene consapevolezza, così come afferma Padre Luc: «Io non ho paura della morte, sono un uomo libero». Come Cristo e gli apostoli consumano l’Ultima Cena, così i monaci, consci dell’avvicinarsi della fine si concedono un pasto frugale e un bicchiere di vino sulle note del Lago dei cigni, attendendo con serenità il compiersi della volontà di Dio.