da Tempi 4 maggio 2017
Esiste un nesso storico tra panturchismo e pangermanesimo. Un progetto ideologico che aveva come scopo quello di eliminare i “diversi”
Giuseppe Reguzzoni
Er ist wieder da! «È di nuovo qui», è il titolo di un romanzo (e poi di un film) di successo, in cui Adolf Hitler ricompare, all’improvviso, nella Germania di Frau Merkel. In un paio di gustose scenette, il Führer, che nessuno riconosce come tale (tranne un’anziana donna scampata ai campi di sterminio), si rallegra della consistente presenza turca nella nuova Germania, dichiarando di apprezzare che essa sia riuscita là, dove, invece, lui aveva fallito: coinvolgere la Turchia in un nuovo asse politico con la Germania.
Al di là del lato satirico del romanzo, la battuta appare rivelatrice, dato che, in effetti, il Terzo Reich non ce l’aveva fatta a portare dalla propria parte, in funzione antirussa, la Turchia di Atatürk, ancora estenuata dalla sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Anzi, il 1° marzo 1945, sotto la minaccia di un intervento alleato, ma anche con una buona dose di opportunismo, la Turchia dichiarava formalmente guerra alla Germania nazista, quando ormai la Wehrmacht si stava ritirando da quasi tutta l’area balcanica e, dunque, non c’erano più rischi. C’è davvero un filo rosso che lega la storia della Germania all’impero ottomano, prima, e alla Turchia, poi, ed è un filo che va molto indietro nel tempo e ben oltre le semplici ragioni della geopolitica.
Cyril Arslanov, che è ebreo e armeno, e, dunque, in una posizione che lo facilita nel comprendere certi meccanismi ideologici di esclusione/eliminazione delle minoranze, ha giustamente osservato che c’è un evidente nesso storico tra panturchismo e pangermanesimo e che il secondo, per garantire se stesso, ha ampiamente taciuto sui crimini del primo.
Christin Pschichholz, altra studiosa, questa volta tedesca, docente all’Università di Potsdam, ha posto in luce le responsabilità oggettive del governo imperiale tedesco nel genocidio armeno: esso «sostenne in maniera indiretta quel crimine, essendo perfettamente al corrente di quello che stava accadendo; (…) ignorò e avvallò quanto accadeva agli armeni perché preoccupato di consolidare l’alleanza con l’impero ottomano». In Germania sapevano benissimo che l’intento dei Turchi era una completa pulizia etnica (oltre agli armeni furono massacrati anche gli aramei e altre minoranze cristiane, mentre subito dopo la guerra sarebbe toccata ai greci).
Secondo Pschichholz, il governo imperiale tedesco si sarebbe reso complice del genocidio mediante la propria inazione, pur non essendo mancate alcune note di protesta verbali. «Il nostro scopo è mantenere la Turchia al nostro fianco sino alla fine di questo conflitto», così il cancelliere Theobald con Bethmann Hollweg nel 1915, «quand’anche ciò comportasse la fine degli armeni». Con un’efficace espressione giuridica, la Pschichholz descrive, quindi, l’atteggiamento tedesco in quegli anni come «omissione di soccorso», e, dunque, come un crimine.
Del resto, il governo federale tedesco, con molto coraggio, ha recentemente riconosciuto, con una decisione del proprio parlamento, le proprie responsabilità. Lo ha fatto con qualche decennio di ritardo, solo nel 2016, sino a quel momento frenato dalla volontà di non urtare l’alleato turco e in un contesto in cui la Germania democratica ammetteva le proprie responsabilità anche in altri tragici eventi legati alla storia dell’impero tedesco, primo tra tutti il massacro degli herero, nell’Africa sudoccidentale tedesca
Proprio in forza di questa concatenazione di eventi, se si procede a una lucida analisi storica, il genocidio finisce per apparire per quel che è, come lo strumento per la risoluzione nazionalistica del problema delle minoranze. Lo Stato moderno, che si vuole etnicamente omogeneo, non è che un’astrazione ideologica, per arrivare alla quale il Novecento non si è fermato neppure davanti alle deportazioni di massa e all’eliminazione fisica dei “diversi”. Rilevarlo è essenziale, se non si vuole cadere nell’equivoco del male commesso o permesso in ubbidienza alla pura ragion di Stato.
Quest’ultima può aver indotto a tacere, come, del resto, avviene ancor oggi da parte di molti (quasi tutti) i governi democratici dell’Occidente davanti ai massacri odierni (quelli dei cristiani in Medio Oriente, per esempio). Ma non basta. Non era solo ragion di Stato e non è stata solo “omissione di soccorso”: c’era la convinzione che occorresse “fare pulizia” e raggiungere l’obiettivo di una monoliticità etnica senza eccezioni.
A provarlo ci sono le tesi di una delle figure chiave della Germania guglielmina, il pastore evangelico e teologo liberale Friedrich Naumann. Questi accompagnò il Kaiser nel suo viaggio a Istabul nel 1898 e teorizzò, nei suoi scritti, la necessità per l’impero tedesco di porsi alla alla guida del movimento pangermanico, guardando all’impero ottomano come la longa manus degli interessi economici e coloniali tedeschi in Eurasia.
Degli armeni, mentre era in corso uno dei peggiori massacri che li riguardarono, scrisse: «L’armeno è il peggior tipo di essere umano». Naumann si definiva un liberal-darwinista. La sua “teologia”, radicalmente liberale (oggi diremmo “di sinistra”) e le sue prese di posizione non mancarono di suscitare aspre reazioni da parte di molti credenti sinceri, anche all’interno della Chiesa evangelica, ma influenzarono enormemente il modo di pensare la politica estera del governo imperiale tedesco.
Fa venire i brividi pensare che anche il nazionalsocialismo, a fondamento dei propri campi di sterminio, poneva una visione “darwinista” dell’essere umano, stabilendo una sorta di gerarchia tra le razze. Sbaglia chi pensa che certi eccessi siano solo frutto di opportunismo o viltà. Il peggio è sempre frutto di un disegno ideologico.