Invettiva di un europeo libero contro la burocrazia senz’anima né testa di Bruxelles
di Roger Scruton
(discorso tenuto alla Camera dei Deputati, Sala Aldo Moro, Roma,
il 15 ottobre 2010. Traduzione italiana di Marco Respinti)
Alcune delle decisioni più importanti che pesano sulle nostre esistenze promanano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, un organismo composto da giudici non eletti molti dei quali provengono da paesi privi di una solida tradizione di stato di diritto.
Voi italiani ne avete fatto recentemente esperienza quando è stato deciso che il crocifisso dovesse essere rimosso dalle aule scolastiche giacché ritenuto lesivo appunto dei diritti umani. La maggior parte di noi, dunque, a fronte delle irreversibili “direttive” emanate a migliaia dalla Commissione europea e delle “sentenze” pronunciate per ragioni ideologiche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, considerano tutto questo una vera e propria minaccia per la democrazia, eppure sembra non esistere alcuna riforma di quelle istituzioni in grado di ovviare al problema.
Senza che nessuno lo volesse, noi europei siamo giunti a un punto in cui la maggior parte delle leggi che ci riguardano vengono imposte da persone che nessuno ha mai eletto e che non rispondono affatto dei propri errori.
Alcuni si sono adattati a coesistere con questo problema, ritenendo che i benefici portati dall’Unione europea superino i costi. Altri – specialmente gli “euroscettici” del mio paese – pensano invece che i costi superino i benefici. Per questi ultimi, la confisca del processo decisionale operata da élite non elette è un difetto fatale dell’intero progetto eurofederale.
Da qualsiasi delle due parti ci si schieri, è comunque evidente che la spinta verso una governance mondiale configura un movimento che si allontana dalla democrazia. Ora, possiamo pure ritenere la globalizzazione un fenomeno inevitabile, ma non è necessario pensare che essa debba includere anche il governo del mondo. Per il vero democratico, la politica deve controbilanciare la globalizzazione, non esserne assorbita.
Immaginiamoci un villaggio che commerci con i propri vicini, vicini con i quali convive pacificamente. Tutte le decisioni che incidono su quel villaggio vengono prese da un consiglio elettivo. A propria volta, questo consiglio invia un rappresentante al governo centrale affinché questi promuova gli interessi di detto villaggio presso l’Assemblea nazionale. Questo processo, ci dice la storia, è il migliore che possiamo instaurare per via democratica.
E’ peraltro possibile immaginare l’esistenza di più livelli rappresentativi fra il villaggio del nostro esempio e il governo a cui esso fa capo: rappresentanze, cioè, a livello di contea, di regione, di cantone o di qualsiasi altra sia l’unità amministrativa adottata. Ma il principio è chiaro: democrazia significa controllo dal basso, con il popolo che decide.
Supponiamo però adesso che si affermi un movimento di riforma politica il quale dice che il villaggio è una unità troppo piccola per prendere le decisioni che sono necessarie al bene comune. A scopo elettorale, il villaggio deve venire quindi considerato adesso come parte di una grande città che dista dieci chilometri. Le argomentazioni a favore di questa modifica sono facili da immaginare: le relazioni commerciali, gli interessi reciproci e le esigenze di buon vicinato vengono infatti seriamente compromesse dallo stato di fattuale indipendenza in cui vive il villaggio.
C’è per esempio bisogno di una strada che tagli fuori la città ormai congestionata dal traffico. Ma l’unico tracciato possibile per costruirla corre in prossimità del villaggio, a totale detrimento della tranquillità fino a quel momento goduta dai suoi abitanti. Naturalmente, il villaggio si opporrà al progetto della strada e questa non verrà costruita. Ma se invece il villaggio è inglobato in una città, i voti dei suoi abitanti verranno superati da quelli dei residenti urbani e la strada si farà.
L’aumento della capacità d’intervento governativa viene insomma acquisito a scapito della democrazia del villaggio. L’esempio illustra bene un principio di ordine generale: più è ampia la capacità d’intervento governativa, minore è la possibilità di controllo che il popolo ha sullo spazio che direttamente lo circonda.
Ve n’è riprova estremamente chiara nelle questioni inerenti le pianificazioni e le infrastrutture. I villaggi svizzeri hanno mantenuto parecchi dei diritti democratici altrove invece confiscati dai governi centrali. Ne deriva che è comprovatamente impossibile costruire grandi autostrade attraverso i numerosi passi alpini che connotano il paese, dal momento che le popolazioni locali votano costantemente contro di esse.
Il traffico della Svizzera rurale è notevolmente più lento che altrove e lì i confini tra i villaggi assai più netti e marcati. In Francia, invece, le autostrade vengono imposte dal governo, la terra acquisita per decreto e nell’intera faccenda nessuno fuorché l’Assemblea nazionale ha gran voce in capitolo.
Ne consegue che in Francia il traffico scorre più rapidamente, l’economia nazionale ne trae vantaggio e la vita lungo le autostrade è un inferno. La Francia è dunque più o mena democratica della Svizzera? Alcuni direbbero che il potere dei villaggi e dei cantoni elvetici impedisce la realizzazione di progetti che sarebbero altrimenti positivi per l’intero paese e che quindi esso si oppone alle aspirazioni della maggioranza.
In Francia, invece, la capacità del governo centrale di superare gli interessi locali indica che il bene comune può essere promosso nonostante gli egoismi localistici e che quindi la maggioranza svolge un ruolo assai più grande nelle decisioni che la riguardano direttamente.
Altri però direbbero che questa sottrazione dei poteri e dei processi decisionali alle comunità locali a tutto vantaggio del governo centrale configura una perdita di democrazia giacché indica che le decisioni non vengono più prese da coloro che ne sono direttamente toccati in misura maggiore e che dunque la voce delle autentiche comunità umane è ascoltata solo di rado. Ché ne pensiamo noi?
Quando un gruppo di stati nazionali si unisce per dare vita a una unione dotata di poteri legislativi, ognuno di essi perde il diritto di decisione su materie d’interesse nazionale in cambio di una voce in decisioni che interessano quell’unione nel suo insieme. Quando e in relazione a cosa ciò è giustificato? Un trattato fra due stati confinanti finalizzato alla difesa dei reciproci territori in caso di attacchi esterni è un contratto franco e leale.
Nessuno dei contraenti perde più di ciò che guadagna e ognuno mantiene il controllo sovrano sugli affari interni. Un simile contratto di mutua difesa non implica alcuna resa di sovranità ed è esso stesso soggetto al controllo democratico. I popoli di ciascuno dei due stati contraenti il patto possono infatti votarne la rescissione in qualsiasi momento. Raramente si sono dunque considerati i trattati bilaterali una minaccia alla democrazia: al contrario, sono stati visti come esiti naturali del processo appunto democratico con cui i cittadini conferiscono ai governi a cui sono soggetti la libertà e il dovere di agire per parte loro.
Anche i trattati multilaterali possono di per sé non costituire minacce alla sovranità degli stati nazionali o all’intero processo democratico. Anche quando quei trattati istituiscono infatti organismi burocratici esclusivamente dediti al perseguimento dell’accordo che ne sta alla base – come per esempio avviene per la Nato, essi non minacciano la democrazia fintanto che non si spingono oltre i propri scopi statutari.
I paesi firmatari di quegli accordi mantengono la propria sovranità in qualsiasi ambito, inclusi quelli che rientrano nelle provvisioni del patto comunemente e concordemente sottoscritto. Benché il trattato ponga loro dei vincoli, questi obblighi si verificano soltanto in determinate circostanze specifiche e sono liberamente accettati dagli organi legislativi dei paesi sottoscrittori come giusto prezzo pagato per ottenere i benefici che ne conseguono.
I trattati multilaterali sono un modo concreto per amministrare la globalizzazione. Man mano che su di essi si esercitano pressioni esterne sempre crescenti, gli stati nazionali possono unirsi siglando accordi e stabilendo procedure comuni che permettano di resistere a dette pressioni: trattati che proteggono gli spazi abitati comuni, le risorse naturali comuni (come la pesca e l’acqua) e le comuni esigenze di sicurezza.
Qui il punto qualificante è che un trattato, proprio come un contratto, conferisce potere di veto a ciascuno dei suoi firmatari. Se i termini di esso non vengono onorati da uno dei contraenti, gli altri sono liberi di chiamarsi fuori ponendo così fine al patto stesso.
In questo modo, i trattati possono essere, efficacemente adoperati per controllare la globalizzazione poiché l’assoggettano alla disciplina della democrazia esattamente come il processo politico attivo in Svizzera è soggetto a quella disciplina della democrazia locale che in merito alle decisioni riguardanti le comunità appunto locali esige il consenso di queste stesse.
Ma non tutti i trattati hanno il carattere dei contratti. A far data dalla Seconda guerra mondiale (1939-1945) è divenuta pratica comune un nuovo tipo di trattato: un accordo mediante il quale le parti contraenti si accordano per abdicare al proprio potere decisionale negli ambiti che rientrano nelle leggi del patto stesso, trasferendo agli organismi istituiti dal trattato ciò che i propri elettorati nazionali non sono in grado di controllare.
L’Unione europea ne è il caso paradigmatico. Come la Corte penale internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio e la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Ue è una forma di globalizzazione e non un modo per resistere a essa. Benché create mediante trattati, queste istituzioni confiscano i poteri legislativi dei soggetti che vi aderiscono, imponendo agli stati nazionali leggi e regolamentazioni che i loro cittadini mai avrebbero votato, ma che pure non possono respingere.
Consideriamole normative circa la libertà di movimento istituite dai Trattati di Roma. Danno ai cittadini della Ue il diritto si spostarsi in qualunque luogo dell’Unione al fine di cercare lavoro o stabilire la propria residenza là dove trovano lavoro. Quando gli originari Trattati di Roma furono firmati, nei paesi sottoscrittori vigeva una sostanziale parità fra redditi e livelli occupazionali, e nessuno immaginava che il risultato di quelle decisioni sarebbero state le migrazioni di massa da un capo all’altro del continente.
Se fossero stati consultati, i cittadini italiani avrebbero certamente votato a favore di un emendamento ai Trattati che escludesse la clausola relativa al diritto di libera circolazione per le persone oppure negando l’ingresso della Romania nella Ue. Ma i cittadini non sono stati consultati.
Di conseguenza, gli italiani si trovano oggi costretti ad accettare l’immigrazione nel proprio paese di gente proveniente dalla Romania senza che nessuno prenda in seria considerazione il fatto che la maggioranza di essi è fortemente contraria. Con ciò non intendo dire che gli italiani abbiano ragione. Ma questo è ciò che essi pensano, oltre che ritenere un proprio diritto democratico l’imporre, attraverso i propri rappresentanti politici, controlli sui flussi migratori: dopo tutto, si tratta del loro paese. E però questo diritto è stato loro confiscato. Qualsiasi partito votino alle elezioni, i cittadini italiani non possono fare alcunché per rivendicare il proprio paese a se stessi.
E’, questo, solo un esempio delle lagnanze che si levano oggi in tutti gli. stati membri della Ue nell’Europa occidentale e settentrionale. Abbiamo perso cioè il controllo dei nostri confini e non vi è modo compatibile con la permanenza di ognuno di noi nella Ue per riguadagnarlo. Per di più, non vi è modo per emendare le istituzioni della Ue affinché esse se ne facciano carico.
Le norme incorporate nei Trattati di Roma non sono leggi ordinarie: non possono cioè essere corrette in sede parlamentare e così, una volta in vigore, divengono di fatto irreversibili; oppure reversibili solo attraverso la dismissione dei Trattati e di tutta la sovrastruttura d’istituzioni e di procedure che sono state costruite su di essi: E questo nessun partito politico ha il coraggio di farlo, giacché le conseguenze sono incalcolabili.
Ora, coloro che hanno progettato i Trattati di Maastricht e di Lisbona erano consapevoli del fatto che la Ue stava perdendo credibilità presso i popoli d’Europa. Ma erano altresì membri di un nuovo ceto politico, transnazionali quanto alle proprie fedeltà, ben ricompensati nelle proprie vite professionali e completamente dipendenti dai privilegi assicurati loro dai meccanismi eurofederali.Del resto, questo ceto politico è anche parte in causa dell’economia globale.
Riesce a relazionarsi più facilmente con le multinazionali che con le comunità locali, contratta apertamente con le élite estere e onora disinvoltamente gli incarichi fittizi che si è dato dentro la Ue. Un tipico membro di questo nuovo ceto politico è l’attuale Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Ue, cioè di fatto il suo ministro degli Esteri, Catherine Margaret Ashton, baronessa Ashton di Upholland, britannica.
In Gran Bretagna nessuno sapeva chi fosse finché non n’è stata annunciata la nomina. La Ashton non si è mai candidata a elezioni per nessuno degli incarichi che ha ricoperto: dal Partito laburista e dalla rete di organizzazioni non governative che fa capo a esso ha fatto carriera fino a raggiungere la Camera dei Lord senza mai nemmeno una volta attirare l’attenzione su di sé ed é stata nominata come nostra rappresentante agli Affari esteri senza che nessuno nel mio paese abbia avutola possibilità di proferire parole nella vicenda, a eccezione dei suoi colleghi dentro quel medesimo nuovo ceto politico.
Questo ceto politico è dunque davvero molto più interessante per le multinazionali che per la gente comune, dato che controlla una macchina legislativa in grado di aggirare i cittadini. Attraverso il lavoro lobbistico che svolgono le burocrazie di stanza a Bruxelles, il mondo dei grandi affari mondiali ha insomma il potere di modificare a proprio favore le leggi di qualsiasi stato nazionale.
Appartenenti a questo ceto politico, coloro che redigono i trattati della Ue sono naturalmente inclini a salvaguardare queste posizioni. Gran parte dei loro sforzi è infatti stata profusa per creare un tipo di “democrazia presunta” in cui un Parlamento modello Potemkin finge di vagliare leggi e di esercitare su di esse diritto di veto, ma in cui nessuno degli stati membri della Ue può di fatto esercitare potere.
I Trattati comunitari ci assicurano continuamente che nell’Unione vige il principio di “sussidiarietà”, in base al quale le decisioni debbono essere sempre assunte al più basso livello possibile: ma essi implicano anche che sono la Ue e le sue Commissioni a decidere quale sia quel livello. Da ciò deriva che in essi la sussidiarietà è semplicemente un sinonimo di quel controllo onnipervasivo esercitato dall’alto al basso che ha confiscato i nostri poteri legislativi nazionali e che ci permette di esercitarli solo quando alcuni funzionari non eletti ci permettono di farlo.
Ciò che vediamo all’opera nella Ue, così come in ogni nuova forma di tribunale internazionale o di agenzia legislativa tipo l’Organizzazione mondiale del commercio e le sussidiarie dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, è la globalizzazione della politica. Invece di difendere la sovranità nazionale dall’invasione globale, oggi il processa politico auspica ulteriore invasione globale ai danni dello stato nazionale.
E perché no? ci si domanderà a questo punto. Che c’è di tanto male? Dato che viviamo in una società globale, non c’è forse bisogno di un governo globale che risolva i nostri problemi comuni? Il lato problematico di questo approccio è che esso ignora il fatto da cui dipende la legittimità di ogni democrazia: il fatto dell’identità nazionale. In una democrazia, i cittadini si identificano come parte di una prima persona plurale: un “noi” fondato da una eredità e da una storia, evidente nella lingua, nella religione e nell’attaccamento al territorio e alla comunità.
In Europa, questo “noi” è un “noi” nazionale, ed è in nome di esso che gli uomini politici possono ottenere il consenso delle persone in merito a decisioni politiche che a breve termine possono pure danneggiarle. Gli italiani vogliono un governo che difenda e promuova l’interesse nazionale italiano. Non vogliono un governo che promuova l’interesse di un ceto politico internazionale o quello di una rete globale di multinazionali. Ma il numero delle leggi nazionali che quel ceto politico internazionale impone loro sotto la pressione degli interessi economici che lo influenzano cresce di continuo.
Cosa fare? E’ mio parere che in assenza di cambiamenti radicali la Ue entrerà in un periodo di crisi. Le sue decisioni verranno disattese e respinte in numero sempre maggiore, e le persone faranno di tutto per riconquistare i poteri erroneamente consegnati a essa.
In un modo o nell’altro, la Ue deve insomma cessare di essere un agente della globalizzazione per divenire un centro di resistenza a essa: un modo, cioè, d’imporre l’ordine politico all’entropìa sociale ed economica. E penso che questo potrà accadere solo attraverso la restaurazione della sovranità nazionale in tutti gli ambiti in cui essa è andata persa, ancorché come ciò possa essere concretamente fatto é materia da uomini politici, non da semplici filosofi.