Ha un sistema politico antidiluviano e una spesa militare bassa, ma Pechino condiziona tutto lo scacchiere internazionale. Come? A suon di ricatti ai paesi poveri e arroganza con le deboli democrazie occidentali. È la strategia degli yuan
di Rodolfo Casadei
Eppure dai giorni della crisi finanziaria mondiale innescata dalla bancarotta di Lehman Brothers nel 2008 la Cina proietta un’immagine di potenza pari se non superiore a quella degli Stati Uniti, tanto che il suo presidente Hu Jin-tao è stato classificato dalla rivista americana Forbes come l’uomo più potente del mondo.
Capi dell’esecutivo di grandi paesi europei come il britannico David Cameron e il francese Nicolas Sarkozy balbettano quando si chiede loro quale linea sui diritti umani terranno nei loro colloqui coi vertici di Pechino (per non parlare di capi di Stato come Giorgio Napolitano, sempre pronti a scusare i comportamenti della Cina e a prendere per oro colato gli impegni puramente verbali dei suoi leader) e la diplomazia cinese può permettersi di esercitare pressioni ricattatorie sugli ambasciatori dei paesi europei alla vigilia della consegna del premio Nobel attribuito al dissidente Liu Xiabao senza sollevare vera indignazione. Perché?
La risposta è duplice: la Cina si è creata una rete di alleanze fra i paesi in via di sviluppo, e in particolare fra gli stati canaglia, che le permette di sfuggire alle critiche in sede di organizzazioni multilaterali; e inoltre sfrutta la sua grande mole economica e la mancanza di coordinamento e di politiche concordate fra i suoi interlocutori euroatlantici per ricattarli efficacemente.
Se si va a vedere come i 191 paesi rappresentati all’Onu hanno votato negli ultimi anni quando sono state proposte risoluzioni concernenti i diritti umani, si scopre che le convergenze di voto fra gli stati membri della Ue e i paesi in via di sviluppo (Pvs) sono scese dal 75 per cento del 1998-99 al 55 per cento del 2007-08, mentre nello stesso periodo le convergenze di voto fra Cina e Pvs sono cresciute dal 50 al 74 per cento delle risoluzioni. I paesi che nel giro di un decennio sono passati dal fronte Usa-Ue a quello della Cina nei voti sui diritti umani sarebbero ben 41.
L’apoteosi della campagna cinese di conquista del consenso è stata raggiunta nel maggio 2006, quando la paradossale candidatura di Pechino a un seggio nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu ottenne ben 146 voti su 191. A risultati così spettacolari la Cina è arrivata percorrendo due vie. La prima è stata quella di moltiplicare investimenti e aiuti nei paesi in via di sviluppo, in particolare in quelli dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia. La Cina investe più risorse finanziarie nell’Africa nera (62,2 miliardi di dollari) che non in Europa (53,1 miliardi) o nel Nordamerica (59 miliardi), regioni il cui Pil supera di 40 volte quello africano, e in Asia appena meno che nel Medio Oriente crocevia dell’energia (44,9 miliardi contro 49,5).
Ma perché, potrebbe chiedersi qualcuno, i Pvs dovrebbero mostrare più gratitudine per i doni e gli investimenti cinesi anziché per gli aiuti e la cancellazioni del debito estero ad opera dell’Occidente? Perché le seconde sono sempre accompagnate da condizioni come l’assunzione di impegni in materia di lotta alla corruzione, incremento della spesa sociale, rispetto dei diritti umani e promozione della democrazia, mentre la Cina pone una sola condizione: che gli appalti di grandi opere pubbliche e i contratti per lo sfruttamento di risorse minerarie vadano a imprese cinesi.
La Cina non ha esitato a salvare decine di volte gli “stati canaglia” alle Nazioni Unite. In Consiglio di sicurezza ha ostacolato o bloccato risoluzioni di condanna e sanzioni internazionali contro il Sudan per le stragi del Darfur, lo Zimbabwe per la repressione violenta dell’opposizione, la Birmania per la detenzione del premio Nobel Aung San Suu Kyi e gli arresti e uccisioni di monaci buddhisti, lo Sri Lanka per il suo assalto alle roccaforti delle Tigri Tamil con bombardamenti indiscriminati che hanno causato un elevato numero di morti (forse 10 mila) fra i civili negli stessi giorni in cui l’Onu condannava Israele per le vittime civili dell’operazione Pugno di ferro a Gaza, la Corea del Nord per l’affondamento di una nave militare sudcoreana in marzo, l’Iran per il suo programma nucleare sospettato di scopi militari (alla fine ha appoggiato sanzioni molto annacquate).
Queste scelte interpretano due dei capisaldi della politica estera cinese: uno è che gli avversari della declinante egemonia occidentale vanno sempre difesi e incoraggiati; l’altro è che nei rapporti internazionali il principio di non interferenza negli affari interni dei vari paesi, cioè nello spazio della loro sovranità, è più importante che non l’affermazione per via multilaterale di principi e valori presunti universali. Il secondo motivo della crescita esponenziale dell’influenza cinese a livello internazionale attiene all’atteggiamento e alle politiche sbagliate dei paesi occidentali, soprattutto di quelli dell’Unione Europea, nei confronti del Celeste impero.
La lezione di debolezza di Napolitano
Ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano in occasione della sua recente visita a Pechino: «II premier Wen Jiabao ha espresso all’Onu la necessità di rafforzare la democrazia, il sistema giuridico e i diritti umani. Io penso che ci sia la convinzione dei dirigenti cinesi che questo è uno sviluppo a cui non si potrà sfuggire da parte cinese. Però, se noi siamo lì a puntare il dito o a fargli la lezione, non credo che siamo molto efficaci». Due settimane prima il ministro degli Esteri Frattini si era espresso in termini analoghi.
Ecco espresso in poche parole il modo più sbagliato possibile di rapportarsi con la potenza cinese: dichiarare che il proprio paese è diverso da quelli che rivolgono critiche inopportune alla Cina, mostrarsi imbevuti di umiltà e timore reverenziale, e prendere per buone dichiarazioni alle quali non corrispondono fatti.
Questi atteggiamenti alimentano una spirale perversa: i cinesi interpretano queste timidezze come debolezza e diventano più arroganti; fanno leva sulle divisioni nel campo occidentale per punire selettivamente i paesi che manifestano posizioni per loro spiacevoli. Di conseguenza le timidezze occidentali aumentano per evitare che nuove punizioni si aggiungano, e i cinesi finiscono per conquistare posizioni senza cedere nulla in cambio.
Gli esempi sono innumerevoli. Come è noto, la Cina punisce i paesi le cui autorità ricevono in forma anche solo ufficiosa il Dalai Lama riducendo le importazioni da essi: uno studio dell’università di Gottinga ha stimato una flessione media dell’8,1 per cento nei due anni successivi.
Questo innesca comportamenti umilianti come quello della Danimarca, che nel dicembre 2009, dopo che il governo cinese aveva cancellato una visita ufficiale del primo ministro Rasmussen a Pechino e creato difficoltà alle imprese danesi in Cina proprio a causa di una precedente visita del Dalai Lama a Copenaghen, emise la seguente nota diplomatica: «La Danimarca è pienamente consapevole dell’importanza dei temi legati al Tibet e riconosce grande importanza al punto di vista del governo cinese su questi temi.
La Danimarca prende in considerazione molto seriamente l’opposizione cinese a incontri fra membri del governo danese e il Dalai Lama, e ha debitamente preso nota della posizione cinese secondo cui questi incontri sono contrari ai più vitali interessi della Cina, e tratterà questi temi con prudenza. A questo riguardo la Danimarca riafferma la sua politica di riconoscimento di una sola Cina e la sua immutata posizione secondo cui il Tibet è parte integrante della Cina. La Danimarca riconosce la sovranità della Cina sul Tibet e di conseguenza si oppone all’indipendenza del Tibet».
E l’Europa cala le braghe
Nel 2008 il Regno Unito ha riconosciuto ufficialmente la sovranità cinese sul Tibet senza nessuna contropartita. L’anno dopo i cinesi hanno eseguito la sentenza di condanna a morte di Akmal Shaik, cittadino britannico accusato di traffico di droga affetto da malattia mentale, nonostante la richiesta di Londra che gli fosse risparmiata la vita. E in occasione della visita del premier David Cameron la settimana scorsa hanno esercitato pressioni – senza successo – perché la sua delegazione non esponesse appuntato sulla giacca il papavero rosso che il 10 novembre di ogni anno commemora i caduti del Commonwealth nella Prima guerra mondiale.
La posizione europea ha cominciato a franare nel 1997, quando Germania e Francia hanno cessato di votare mozioni di censura della Cina nel contesto della Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite in nome dell’ “impegno costruttivo” con Pechino e della “diplomazia silenziosa”. La nuova linea non ha conseguito il benché minimo risultato e ha diviso per sempre il campo europeo.
Per prendere in considerazione le richieste dei paesi Ue la Cina chiede in cambio la luna: e cioè la cancellazione dell’embargo sull’esportazione di armamenti in Cina che vige dal 1989 (dopo la repressione di piazza Tienanmen) e il riconoscimento della Cina come paese a economia di mercato, atto che farebbe decadere gran parte delle accuse di dumping contro le aziende cinesi che operano all’estero.
Il successo della tattica del “divide et impera” nei confronti dei paesi europei, insieme alla crescita della propria potenza economica e militare, hanno spinto la Cina a voltare le spalle al multilateralismo, a prediligere i rapporti bilaterali e a rafforzare quello che all’interno dell’Onu è conosciuto come l'”asse della sovranità”, un gruppo di 40 paesi che bocciano quasi tutti i trattati internazionali e quasi tutte le proposte di sanzioni contro paesi che violino i diritti umani.
Negli anni Novanta la Cina ha sottoscritto accordi di partnership con la Ue e l’Asean, ha aderito al Wto e alla Shanghai Cooperation Organization. Ma negli ultimi quindici anni invece ha rifiutato di assumersi impegni in materia di riduzione delle emissioni di Co2 (sia a Kyoto che a Copenaghen), di aderire al Tribunale penale internazionale, ecc.
Il governo cinese potrebbe ora diventare vittima della propria arroganza, se la Ue terrà fede ai propositi espressi dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, secondo il quale gli ambasciatori dei paesi europei a Oslo risponderanno con una presa di posizione unitaria alle pressioni di Pechino affinchè non partecipino alla cerimonia per il Nobel al dissidente Liu Xiabao.
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CRESCITA RECORD
Il terzo Pil del mondo
4,9 trilioni di dollari è la cifra con cui nel 2009 la Cina si è piazzata di poche lunghezze dietro al Giappone (5 trilioni) nella classifica dei paesi col maggiore Prodotto interno lordo (Pil), risultando così la terza economia del mondo (al primo posto ci sono gli Stati Uniti). La Cina ha già scavalcato il Giappone nel secondo trimestre 2010 (1,33 trilioni di Pii contro 1,28 del Giappone), e alla fine del 2010 sarà la seconda economia del mondo.
LE IMPRESE
Fatturati da capogiro
37 sono le imprese cinesi fra le prime 500 del mondo classificate in base al fatturato da Fortune. Nel 2000 erano solamente 8. L’incremento di presenze in tale arco di tempo è stato dunque del 261 per cento, il più alto mai registrato. Nello stesso periodo le imprese statunitensi presenti nella classifica sono invece diminuite da 180 a 140 (meno 22 per cento). La prima impresa cinese è il gigante petrolchimico Sinopec, settimo assoluto
I MILIARDARI
Chi ha guadagnato
Sono 79 i miliardari in dollari che la Cina contava alla fine del 2009. Nel 2000 erano solo 2. La maggior parte proviene dal settore immobiliare e da aziende che si sono quotate in Borsa.