di Jacopo Guerriero
Come un’Odissea dei tempi moderni, un viaggio nella memoria dell’oppressione perfezionata. Al centro un protagonista tra i cortocircuiti della storia: è Jan Karski – cattolico, militare, membro di spicco della Resistenza antinazista in Polonia – Il testimone inascoltato (Guanda, €15,00, pp.163) di Yannick Haenel [nella foto]. Romanzo, “oggetto narrativo” che sta facendo litigare la Francia, perché viola un tabù: avvicina (anche) la Shoa attraverso il racconto, per di più mettendo in scena una figura chiave, realmente esistita, politicamente scorretta e poco amabile agli occhi del secolo: il cattolico che, alla Casa Bianca, nel 1942, urlava in faccia a Roosevelt – ricambiato da un sostanziale disinteresse – l’enormità della Sterminio di massa.
Ora, come si spiega una vicenda così enorme? Chi era questo messaggero del dolore, perennemente inascoltato, per cui la storia non ha avuto riguardo?
Se volete vederlo lo trovate in Shoa di Claude Lanzmann, lo storico direttore di Les Temps Modernes, il cui nome resterà legato al documentario di nove ore che, attraverso le testimonianze delle vittime dei campi di sterminio, tenta di abbozzare le dimensioni del Male. Karski lì spiega a fatica, con i suoi occhi liquidi, alto, magro, un elegante completo grigioazzurro. Proprio la sua testimonianza nel documentario – tagliata – è stata di recente al centro di polemiche feroci.
L’ipotesi narrativa di Haenel ci racconta invece in tre parti il personaggio: le prime due fanno i conti con le avventurose vicende di Karski nel Ghetto e poi nella Resistenza. La terza, una vera e propria esplosione narrativa, è un sublime gesto d’invenzione e, con la forza della letteratura, mette in scena i trent’anni di silenzio – la notte bianca, l’insonnia perpetua – che hanno avvolto il protagonista dopo la guerra.
Haenel, partiamo dalle polemiche: a Claude Lanzmann, che ha fatto conoscere Karski al mondo intero, il suo libro non è piaciuto: l’ha accusata di falsificazione.
Le sue accuse sono aberranti. Lanzmann ha agito per interesse personale. È interessato a far passare l’idea che solo lui possieda la verità su Jan Karski: vuole trattenerlo prigioniero del suo film. D’altra parte è il solo discorso che può tollerare, per Lanzmann esiste solo ed esclusivamente Shoa, tutto il resto lui lo disprezza. Gli piacerebbe che, sul tema, si fossero espressi solo lui e il suo film. Ma tempo è trascorso, non siamo più nel 1985.
La scelta di usare la narrativa però è audace.
La vita di Karski non si riduce a quello che Lanzmann ha mostrato nel film. Al contrario, egli è un uomo di segreti, non ha detto “la” verità a Lanzmann. Ci sono “delle verità” di Jan Karski. Bisogna documentarsi su di lui: il suo modo di vivere la clandestinità, la sua furbizia nei confronti delle parole, la sua abitudine a modificare i racconti a seconda del suo interlocutore lo spiegano: Karski è magnificamente multiplo, in una parola è romanzesco. Coloro che pensano di conoscerlo veramente hanno la vista corta.
Sulle falsificazioni?
Lanzmann capisce poco di narrativa: per lui la fiction è ciò che racconta il falso! Io penso al contrario che il romanzo sia una forma di conoscenza. Un modo di porre domande. Che, tornando a Karski, è assolutamente necessario: perché tutta una parte della sua vita resta misteriosa. Non si possono fare altro che ipotesi su ciò che lui pensava e su come viveva. Per questo la terza parte del mio libro è scritta come una suggestione. Lo rivendico nella nota preliminare al libro: la fiction è un’esperienza produttrice di ipotesi.
Su un personaggio del genere, però, prima del romanzo la storia deve dire una parola importante.
Lo sanno tutti, tanto in Francia quanto in Polonia: è Lanzmann che ha falsificato l’immagine di Karski censurando il racconto della sua missione presso gli Alleati. Il problema è tutto politico: Lanzmann non vuole ammettere che il mondo occidentale avrebbe potuto salvare gli ebrei d’Europa; non vuole, per ideologia, che si attacchi la politica americana. Al contrario si vuole far credere che la mia visione di Karski sia una bugia, che sia scandalosa. Ma Karski ha veramente pensato che gli Alleati avessero abbandonato gli ebrei d’Europa. Egli l’ha anche scritto, nell’86, nella rivista Esprit: «I governi alleati che, soli, avevano i mezzi di venire in aiuto agli Ebrei li hanno abbandonati alla loro sorte».
Approfondiamo la sua scelta di utilizzare il genere narrativo per avvicinare questo personaggio.
Dopo la guerra Jan Karski ha taciuto per trent’anni. A quel punto la sua vita è scappata di mano agli storici. E’ questo silenzio che mi ha interessato. Non può esistere alcuna documentazione sul silenzio di un uomo: da qui la scelta della letteratura. Mi sono inventato una fiction per far capire quello che, nella vita di Jan Karski, sfugge alla Storia: i suoi pensieri, la sua sofferenza, la sua metamorfosi spirituale.
Perché il libro è diviso in tre parti?
Ho adottato questo dispositivo per scrupolo. I primi due capitoli si basano sui documenti: non potevo muovermi senza fare i conti con la testimonianza di Jan Karski rilasciata a Claude Lanzmann o con le memorie di guerra del mio protagonista. Non ho inteso assolutamente ammorbidire queste informazioni con elementi romanzeschi. Nello stesso tempo, però –e veniamo così alla terza sezione- quello che mi interessava era immaginare la vita di Karski dopo il 1945.
All’inizio della sua gestazione il libro aveva già questa triplice struttura?
All’inizio avevo in mente una sorta di monologo indirizzato ai morti. La mia idea era che Jan Karski, ogni notte, tornasse a recitare il messaggio che i due uomini del ghetto di Varsavia gli affidarono nel ’42. E che la sua fedeltà a quel messaggio si incarnasse in una perenne notte bianca. Ho trascorso molti anni a trovare il giusto registro: che, ai miei occhi, è poi quello definitivo: la separazione del documentario dalla fiction; così le prese di posizione di Karski sono rigorosamente rispettate. E il lettore, quando arriva infine all’esplosione narrativa del libro, quando entra nella notte bianca della fiction, ha tutti gli elementi storici a sua disposizione: è libero di farsi da solo un’idea di Karski stesso.
Di lui mi colpisce soprattutto la vocazione a essere contro: è un cattolico fervente, è amico degli ebrei, combatte quell’antisemitismo da cancelleria diplomatica di cui non si parla volentieri…
Jan Karski resiste per tutta la vita. Direi addirittura che la sua reale resistenza comincia a guerra finita. E’ uno che non può stare a quei compromessi su cui poggia l’ordine mondiale alla fine della guerra. Ma la sua resistenza è segreta: è spirituale. C’è un’infinita nobiltà nell’impegnare così interamente la propria solitudine: a schiudere la propria a memoria al nome degli Ebrei d’Europa sterminati. A non dormire più. In definitiva a non essere altro che un ricordo. A vegliare su un messaggio che non si è potuto trasmettere perché nessuno l’ha voluto ascoltare.
In effetti, a vederla così, i confini narrativi si dilatano.
Ho immaginato che Karski patisse nella sua vita la morte di Dio: che egli vivesse, nel centro della sua depressione, una lotta incessante tra Dio e lo Sterminio, che la sua notte bianca fosse il luogo di questo scontro titanico. Io chiamo senz’altro resistente qualcuno che storicamente si è battuto contro l’oppressione; ma spiritualmente lo è anche colui che non appartiene in fondo ad alcuno schieramento, che non si soddisfa con nessuna soluzione politica. Jan Karski è fedele per tutta la sua vita a questa ferita che ha aperto in lui la questione del male: per me incarna questa follia e questa saggezza.
In fondo lontano dalla politica, il suo libro, pure, sembra aprire a nuove piste per l’indagine storiografica, soprattutto relative agli errori degli USA e dell’Inghilterra…
La passività degli Alleati di fronte allo sterminio degli Ebrei è conosciuta. È stata stabilita dagli storici. Io ho molto apprezzato il libro di Wyman, The Abandonment of the Jews: America and the Holocaust, 1941-1945 con la prefazione di Wiesel.
Non si tratta in alcun modo di ridurre la colpevolezza dei nazisti. Io mostro, attraverso l’esperienza di cui è vittima Karski, che gli Alleati non sono innocenti. E che, oggi, se si tenta di farlo credere, è per interesse. Gli Inglesi e gli Americani si sono macchiati di una colpa maggiore rispetto a quella di tacere: hanno deciso di non accogliere i rifugiati ebrei. E’ questa chiusura che ha condannato a morte gli Ebrei d’Europa. Che lo si voglia o no Karski è stato un testimone di tutto questo.
In che modo, in definitiva, può essere politica la storia del suo protagonista?
Un romanzo, per me, è uno spazio in cui i valori, le credenze, le ideologie si rimettono in questione. In questo senso Il testimone inascoltato è un libro politico. Per certi versi è anche un libro violentemente anti-politico: attraverso l’itinerario di Karski esso manifesta il rigetto dei compromessi che caratterizzarono le decisioni nazionali e internazionali dopo la seconda Guerra mondiale. Nella mia lettura, Karski è il dissidente assoluto. «Polacco», nel mio libro, significa il totalmente minoritario. Quelle che un romanzo mette in scena, è, come hanno detto due grandi scrittori , la possibilità di uscire dall’incubo della Storia e di fare un salto al di fuori dalla schiera degli assassini
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Dal sito www.wefor.eu/
L’albero di Jan Karski
Patriota polacco impegnato nella resistenza all’occupazione nazista del suo Paese, fu scelto per tenere i contatti con i dirigenti delle organizzazioni clandestine del Ghetto di Varsavia, che lo informarono della situazione tragica in cui versavano gli ebrei rinchiusi nei ghetti in tutta la Polonia o deportati nei campi di sterminio.
Uomo di grande coraggio e umanità, entrò di nascosto sia nel Ghetto della capitale che nel campo di transito di Izbica, per poter testimoniare ciò che aveva visto con i propri occhi nelle missioni diplomatiche a cui fu destinato, prima a Londra, dove incontrò il segretario di stato Eden, e poi a Washington, dove riuscì a farsi ricevere dallo stesso Roosevelt.
Perorò la causa degli ebrei con passione e determinazione, ma rimase inascoltato. Per tutta la vita fu tormentato dal rimorso per il fallimento del suo tentativo di scuotere le coscienze dei potenti del mondo sulla necessità di fermare lo sterminio degli ebrei. Nel 1982 la “Commissione dei Giusti” di Yad Vashem gli ha conferito il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.
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Jan Karski (nome di battaglia) nasce Jan Kozielewski, il più giovane di otto figli di una famiglia di Lodz. Studente modello, viene presto reclutato dal servizio diplomatico, che gli assegna incarichi a Parigi e a Londra. Nel 1939 si arruola in cavalleria. Il 1° settembre la Polonia è invasa dai tedeschi, due settimane dopo dai sovietici. Catturato e richiuso in un campo di prigionia, il giovane Jan riesce a scappare e si unisce alla Resistenza, mentre la maggior parte dei suoi compagni sarà fucilata dai russi.
Karski tiene abilmente i contatti tra i combattenti polacchi e l’Occidente. Nel 1940 viene catturato e torturato dalla Gestapo durante una missione in Slovacchia; temendo di rivelare qualcosa sotto tortura si taglia le vene, ma viene salvato e ricoverato in ospedale, da cui un commando della Resistenza lo aiuta a evadere e a riprendere la missione di ufficiale di collegamento.
Dal 1939 gli ebrei, rinchiusi nei ghetti circondati da filo spinato, muoiono di stenti. Dal luglio 1942 iniziano le deportazioni nei campi di sterminio. In quel periodo, come diplomatico clandestino del governo polacco in esilio a Londra, Karski si prepara a una missione segreta per portare informazioni dalla Polonia in Gran Bretagna e a Washington.
Prima della partenza da Varsavia viene raggiunto da due leader della Resistenza ebraica fuggiti dal ghetto, che gli raccontano della “guerra di Hitler contro gli ebrei”. Dicono che, secondo i loro calcoli, più di 1,8 milioni di ebrei sono già stati uccisi dai nazisti e che circa 500 mila internati nel Ghetto sono stati portati in un campo di sterminio a 96 km dalla capitale polacca. I resistenti gli chiedono di informare Churchill e Roosevelt e lo invitano a verificare di persona la situazione. Karski, che possiede una memoria fotografica, acconsente: nell’agosto 1942 entra nello scantinato di una casa nella parte “ariana” sul confine del Ghetto, si traveste con abiti cenciosi su cui è cucita la stella di David e viene condotto “all’inferno”.
Decenni più tardi ripensando a quei momenti, Karski dirà semplicemente: “Ho visto cose terribili”, ma nel film Shoah di Claude Lanzmann descriverà i molti corpi nudi stesi nelle strade, la gente emaciata in procinto di morire di fame, i bambini senza più emozioni né espressioni e i ragazzi della Hitlerjugend a caccia a questi ebrei per ridere della loro agonia. Ad accompagnare Karski sono Menachem Kirschenbaum e l’avvocato Leon Feiner, che per tutta la durata della visita continua a mormorargli: “Ricordati di questo, ricordatelo”. Gli ebrei vogliono che il mondo sappia dei campi di sterminio tedeschi.
A settembre si intensificano le deportazioni da Varsavia. Feiner, che finirà tra le centinaia di migliaia di vittime, comunica a Karski le richieste da passare alle Cancellerie occidentali: gli alleati, una volta informati dello sterminio, devono assumersi la responsabilità di fermarlo, anche bombardando le città tedesche. Feiner conclude: “Faccia in modo che nessun leader occidentale possa dire che non sapeva.”
I due poi accompagnano Karsky a Izbica, un paesino vicino Varsavia, punto di raccolta in cui migliaia di ebrei cecoslovacchi venivano perquisiti, spogliati e messi su camion per il campo di sterminio di Belzec. Qui, Karsky, nascosto sotto l’uniforme di un miliziano ucraino, vede arrivare migliaia di ebrei affamati e terrorizzati, sente le urla strazianti di donne e bambini e l’odore della carne umana bruciata.
Ritorna a Varsavia e si preparara al pericoloso viaggio a Londra con i microfilm di centinaia di documenti. Temendo le conseguenze dell’accento polacco alle frontiere e ai posti di blocco, si fa estrarre alcuni denti per procurarsi un gonfiore che possa giustificare il suo silenzio di fronte ai tedeschi. Durante il viaggio tiene le mani sempre nascoste per non mostrare le cicatrici del tentato suicidio. Raggiunge Berlino, poi attraversa la Francia di Vichy e da qui arriva prima in Spagna, infine a Londra via Gibilterra.
A Londra consegna i microfilm, descrive la Resistenza e la situazione degli ebrei sottolineando che il loro destino è peggiore di quello dei polacchi. Molti dei suoi superiori pensano che la questione ebraica sia una componente marginale della tragedia nazionale e temono che una vittimizzazione degli ebrei possa nuocere alla causa della Polonia facendola apparire meno rilevante.
Nel febbraio del 1943 Karsky incontra il segretario di Stato Anthony Eden che risponde alla richiesta di aiuto sostenendo che l’Inghilterra ha già accolto 100 mila profughi polacchi: non è possibile fare di più. Karsky informa anche il rappresentante del governo in esilio, Szmul Zygielbojm, che, impotente, si uccide il 12 maggio 1943 con una lettera di protesta per l’indifferenza generale verso lo sterminio ebraico: a Varsavia in quei mesi era scoppiata la rivolta nel Ghetto, raso al suolo dai nazisti dopo la disperata resistenza dei suoi abitanti.
Due mesi dopo, nel luglio 1943, Karski arriva negli Stati Uniti, dove a fronte di un forte sostegno popolare ritrova la stessa inerzia delle autorità con cui si è scontrato in Gran Bretagna. L’incontro con Roosevelt è deludente. Karski spera di influenzare Felix Frankfurter, magistrato della Corte Suprema ebreo che afferma: “Io non dico che questo giovane stia mentendo, ma che sono incapace di credergli”.
Conclusa la missione, Karski freme per ritornare in Polonia ma i superiori glielo impediscono: ormai è un volto noto per i tedeschi e quindi deve rimanere negli USA, dove rilascia interviste e scrive il libro Story of a Secret State. Un anno dopo il governo in esilio polacco per cui lavora si scioglie: la Polonia è passata nell’orbita sovietica. Karski consegue un dottorato nella Scuola di diplomazia americana e insegna alla Georgetown University fino alla pensione nel 1984.
Nel 1954 diventa cittadino degli Stati Uniti. Tiene molte conferenze esprimendosi contro il comunismo e per una Polonia libera e indipendente. Dedica più di dieci anni alla stesura di The Great Powers and Poland: 1919-1945, che uscirà nel 1985. Nel 1965 sposa Pola Nirenska, ballerina e coreografa di origine ebreo-polacca che è l’unica sopravvissuta alla Shoah di una famiglia numerosa. Per molti anni preferisce non parlare della sua “missione impossibile”, e si sente un uomo sconfitto: “Ho la sensazione che gli ebrei non abbiano avuto fortuna con me, ero troppo insignificante per suscitare interesse alla causa”.
Solo nel 1981, su invito di Elie Wiesel, Karsky ricorda: “Il Signore mi ha assegnato un ruolo di messaggero e scrittore durante la Guerra, quando, così mi sembrava, sarebbe potuto essere utile. Non lo fu… allora divenni un ebreo. Come la famiglia di mia moglie – tutta perita nei ghetti, nei campi di concentramento, nelle camere a gas, così tutti gli ebrei assassinati sono diventati la mia famiglia. Ma sono un ebreo cristiano. Sono un cattolico praticante. Anche se non sono un eretico, la mia fede mi dice che l’umanità ha commesso il suo secondo peccato originale attraverso l’azione, l’omissione, l’ignoranza autoimposta, l’insensibilità, l’interesse egoistico, l’ipocrisia o ancora la razionalizzazione priva di emozioni”.
Moshe Bejski che l’anno successivo gli conferisce la medaglia di “Giusto tra le Nazioni” ha detto di lui: “Mi ricorderò sempre la rabbia che aveva in corpo quando parlò davanti a me il giorno in cui ricevette l’onorificenza di Yad Vashem. Era ancora furioso con Roosvelt e Churchill, i due potenti capi della coalizione che non lo avevano ascoltato. Si sentiva uno sconfitto e io lo rincuoravo