da Il Sabato n.49-3 Dicembre 1988
Si può cominciare a tirare qualche conclusione per la storia del cattolicesimo di questo decennio? Quali sono stati i tratti che l’hanno caratterizzata? In che termini i cristiani si sono posti di fronte alla secolarizzazione ed alla mutazione antropologica che ne è seguita? Massimo Borghesi delinea qui alcune risposte. Per la prima volta il cattolicesimo ha dovuto affrontare un contesto ormai profondamente scristianizzato. Di fronte a tale contesto erano possibili due opzioni. O fare della Chiesa un blocco d’ordine raccolto attorno alla difesa di alcuni valori o accettare l’indicazione del Papa a Loreto: l’urgenza di una nuova evangelizzazione.
Massimo Borghesi
LA fine della guerra in Italia, ma anche in Europa, inaugura un processo che vede i cattolici tornare ad essere presenti nella società secondo modi e forme che, dopo l’eclisse conseguente all’affermarsi della politica totalitaria, riattualizzavano la tradizione del cattolicesimo sociale inaugurata a fine ‘800 da Leone XIII. Non è un caso che il nuovo partito dei cattolici, che sorge sotto la guida di Alcide De Gasperi, si denomini Democrazia cristiana, differenziandosi perciò stesso dal partito puramente programmatico di memoria sturziana, e che, contemporaneamente, sorgano le Acli (Associazione cattolica lavoratori italiani) con il preciso intento di una testimonianza cristiana all’interno del mondo del lavoro.
«Noi volevamo» così scriveva Achille Grandi nell’agosto 1946 «che rivivessero nelle Acli le nobili tradizioni della dottrina leonina, e quelle mirabili opere che sorsero, in Italia, in seguito all’immortale enciclica Rerum Novarum, e che raggiunsero il massimo della loro efficienza dopo l’altra guerra», (cit. in: Vittorio Pozzar, La corrente sindacale cristiana 1944-1948, pubblicato nel 1977).
Se il progetto e le speranze erano grandi altrettanto dovette esserlo la delusione che seguì alla sua mancata realizzazione. Baget Bozzo nel suo II partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e Dossetti 1945-1954 (1974) non ha torto allorché coglie nella morte di De Gasperi la fine di un ciclo e di un progetto storico. Lo stesso Ciriaco De Mita nella sua Intervista sulla Dc (Laterza, 1986) conferma come «il punto di svolta, o se si vuole l’origine di quella che poi è la crisi della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta, stia nel graduale affermarsi, dopo De Gasperi, di una concezione della politica tesa a trovare nelle istituzioni il punto di raccordo tra il partito e la pubblica opinione. In tal modo il partito diventa sempre più disattento alla sua presenza nella società», (pag. 105).
Il partito diviene cioè sempre più «chiuso», ripiegato su se stesso, non più rappresentante di un movimento storico, che per altro si sta dissolvendo, ma solo della propria autosufficienza. Parallelamente le Acli, già a partire dal 1948 con il sorgere della Cisl, dovevano attraversare una grave crisi di legittimità da cui non si sarebbero più riprese. Il nuovo sindacato, sorto sotto la guida di Giulio Pastore, si costituirà infatti sul modello del sindacalismo americano, rifiutando ogni rapporto con l’internazionale sindacale cristiana.
«Mi sembra pleonastico» affermava Pastore «il dichiarare esplicitamente in errore quanti considerano la Cisl la continuatrice del movimento sindacale bianco» (è citato nel libro di Pozzar). La Cisl veniva così a togliere ogni spazio politico alle Acli senza che queste riuscissero a ridefinirsi a partire dalla propria posizione originaria.
Verso il comunismo
In tal modo, stretto tra un «leninismo cattolico», affermatosi nella Dc, e un sindacalismo «neutro» e pragmatico, doveva consumarsi la breve parabola del cattolicesimo sociale nell’inquieto clima del dopoguerra. Va detto per altro come a tale presenza mancò, o per lo meno non ci fu in maniera sufficiente, un moto di rinascita cristiana che permeasse in profondità e investisse la globalità della vita. Quando, ad esempio, delle Acli veniamo a sapere che «ad ogni Congresso, puntualmente, l’attività religiosa fu confinata in fondo al volume della relazione generale, capitolo a parte, scritto dagli assistenti ecclesiastici, appendice secondaria del resoconto delle attività svolte» (cit. di Vittorio Pozzar, in: Aavv, L’ispirazione cristiana nel processo di cambiamento della società italiana, «Quaderni di azione sociale», 1976) comprendiamo tutti i limiti di una impostazione.
Non nel senso che si fosse dato poco spazio alla «religione» bensì nel fatto che una «spiritualità» non riesce a saldarsi con la vita rimanendo, rispetto ad essa, del tutto esteriore e convenzionale. Nella dilacerazione tra uno spiritualismo impotente e un volontarismo moralistico doveva logorarsi e dissolversi la militanza cattolica di quegli anni e, insieme, venir meno ogni idea della Chiesa come presenza sociale.
Un partito, la Dc, sempre più «laico» e «borghese» da un lato, e un mondo cattolico sempre più disimpegnato, sempre più chiuso in una dimensione «religiosa» dall’altro: questo è il panorama che si apre nel corso degli anni ’60-’70. E in questo solco che prende forma la secolarizzazione del Paese secondo un processo che vede i cattolici passare dall’idea di una soggettività sociale, espressione e testimonianza concreta di una vita diversa, a quella di un’azione limitata alla semplice collaborazione con tutti attorno ai «valori comuni» propri della tradizione umanistica.
Nella riduzione «etica» del cristianesimo, umanesimo «tra» gli umanesimi, la soggettività cristiana viene meno risolvendosi in un «cristianesimo senza soggetto». Perciò quando esploderà la bufera del ’68 la provocazione in esso contenuta non potrà essere accolta né dal «partito dei cattolici», e nemmeno, in larga misura, dalla Chiesa e dall’associazionismo cattolico. La realizzazione pratica del cristianesimo verrà allora trovata da molti credenti, per i quali la fede coincideva con una pura etica intramondana, nel comunismo: il vuoto lasciato dal cattolicesimo sociale veniva in tal modo riempito e il marxismo diventava il principale veicolo del processo di secolarizzazione in Italia nel corso degli anni Settanta.
Un movimento popolare
A fronte di questo processo la storia di quegli anni ci mostra però anche un’altra direzione ideale da parte dei cristiani. La provocazione del ’68 non era accolta infatti solo da quei cattolici i quali operavano il passaggio verso il marxismo ma, in misura ben diversa, anche da coloro che coglievano l’implicazione profonda dell’Avvenimento cristiano con l’esistenza umana compresa nelle sue implicazioni materiali e sociali. Un nuovo cattolicesimo sociale sorgeva così, a partire da una realtà di cristiani per cui la propria identità era decisiva nel cambiamento della storia, dandosi espressione in un movimento popolare presente nei vari ambiti della vita civile.
Data la sua origine, certamente connessa al declino di una presenza cristiana a livello pubblico e all’estendersi dell’egemonia comunista, esso poteva venir interpretato come una riedizione del vecchio intransigentismo di fine ‘800. I caratteri erano simili: stessa attenzione alla ricomposizione del mondo cattolico in alternativa agli altri mondi, stessa insistenza sulla valenza sociale della fede, ultramontanismo accentuato, opposizione al comunismo sul suo stesso terreno e, quindi, «populismo» democratico secondo la migliore tradizione lamennaisiana propria del cattolicesimo sociale.
Ciò che rimaneva in ombra nel clima iperpoliticizzato di quegli anni era che un siffatto movimento popolare era una novità nella misura in cui si rivelava espressione, del tutto contingente per altro, di un moto di rinascita religiosa. Il rischio che il «progetto», cioè il modello utopico, prendesse il sopravvento non era del tutto assente. Nel «clima di guerra» si trattava di «confermare» l’identità dei cristiani, di modo che non cedessero alle ideologie avverse, e di «finalizzarla» ad un progetto sociale alternativo.
Così si dava spessore ad un soggetto ma l’accento rischiava di cadere non su Cristo bensì sull’«alternativa al sistema»; si affermava che Cristo è la liberazione dell’uomo però, come dichiarerà nell’ottobre 1976 don Luigi Giussani, ad un’assemblea di responsabili di Cl svoltasi a Riccione che segnerà una vera e propria svolta nella storia di questo movimento, «la pressione politica, culturale, sociale era così imponente, la provocazione così violenta che subito dopo questa intuizione giusta si è più o meno scivolati in un privilegio dato ad un progetto alternativo (…) come se volessimo dimostrare che potevamo avere una utopia migliore» (c/r. Il Sabato, n. 9, 1988). È la realtà della persona che qui ne soffriva: sacrificata al «ruolo» essa, come nelle organizzazioni di sinistra, doveva reggere al ritmo e adeguarsi all’immagine funzionale di efficienza che si incarnava nella leadership.
La lezione dell’aborto
Con gli inizi degli anni ’80 il quadro storico si modificava profondamente. Ora il processo di secolarizzazione, di cui il comunismo aveva beneficiato operando una trasposizione dei valori cristiani su un piano immanente, travolgeva lo stesso umanesimo marxista del quale sopravviveva non il progetto utopico della società dell’avvenire bensì il momento negativo della dissoluzione di ogni verità assoluta e trascendente. Il nichilismo relativistico, conseguente allo scacco dell’utopia comunista, si manifestava, come Del Noce ha mostrato per primo con grande acutezza, come società borghese allo stato puro.
Di fronte a questo processo, che si esprime tangibilmente nella definitiva consumazione dell’umanesimo laico così come emerge dalla legge sull’aborto legittimata nel maggio 1981, quello che abbiamo chiamato «nuovo cattolicesimo sociale» intende inizialmente il suo operare come volto alla ricomposizione e rinascita del mondo cattolico in antitesi all’incalzare della secolarizzazione e del laicismo. In questo tentativo esso diviene però parte di un progetto, attuato da settori del cattolicesimo organizzato, per il quale la «ricomposizione dell’area cattolica» risulta finalizzata alla «ricomposizione morale degli italiani».
Di fronte alla crisi delle «tre culture» (cattolica, laica, marxista) il cristianesimo, nella sua valenza sociale, dovrebbe cioè assumere la forma del sostegno ai «valori comuni» pericolanti, obliandosi per intero in tale funzione.
L’idea di un movimento e di una presenza cristiano-sociale in quanto tale viene qui a perdere ogni possibile legittimità. Il credente deve, contribuendo all’opera comune, non manifestare la propria identità ma solo recare una «tacita testimonianza». Sul piano storico l’operazione in questione appare l’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di legittimare un cristianesimo senza soggetto. Rispetto alla scelta «obbligata» per il comunismo, quale si è avuta negli anni ’70, ora la crisi morale diffusa consente di contrattare uno spazio ideale che la Chiesa chiede di poter occupare in cambio del riconoscimento della coessenzialità delle altre forze alla risoluzione della crisi medesima.
Tuttavia è la «mutazione antropologica» che induce qui ad un sensibile mutamento di giudizio. Mentre negli anni ’70 era forse ancora possibile pensare ad una tradizione cristiana ancora formalmente operante nel Paese — e su questa base, di fatto, il moralismo comunista aveva edificato il proprio successo — ora, come il referendum sull’aborto dimostrava, ciò era sempre meno ipotizzabile. Il «blocco cattolico» da soggetto potenzialmente attivo e trasformatore si risolve qui in un inevitabile fattore di difesa, pur legittimo, di valori ormai disconosciuti e negati dal corpo sociale.
D’altra parte l’azione di un «movimento popolare» trovava il suo referente positivo nell’ideale lamennaisiano che presupponeva la persistenza nel «popolo» di quei valori cristiani tradizionali ancora fortemente radicati nel contesto italiano degli anni ’50 e ’60. Su questo presupposto il magistero sociale della Chiesa aveva elaborato la sua riflessione a partire da un secolo a questa parte.
«Popolo infido»
Ora però, per la prima volta la secolarizzazione perveniva ad un livello tale da costringere a ripensare a tale elemento «ovvio». Di fatto, e in questo occorre dar ragione a Pietro Scoppola, si era «chiusa ormai, per il nostro Paese, quella che potremmo chiamare l’età lamennaisiana, quel periodo storico cioè — aperto appunto dalla grande intuizione di Lamennais nel 1830 — che portò la Chiesa a cercare sempre meno nell’appoggio dei monarchi, divenuti ormai infidi, e sempre più nel popolo fedele e perciò nella democrazia le condizioni per una sua efficace presenza nella società civile.
Questa lunga stagione storica si chiude nel momento in cui il popolo, non meno dei monarchi di un tempo, si è fatto infido per la Chiesa» (La «nuova cristianità» perduta, 1986, pp. 139-140). Non si tratta allora di presupporre un terreno già arato a partire da cui si elaborano progetti umanistici, magari come sintesi delle «tre culture» — posizione questa da cui sembra non poter uscire quel settore di cattolici per il quale il cristianesimo designa una semplice visione «etica» — bensì, più radicalmente, di cominciare dall’inizio.
L’ora dei laici
In questa fondamentale percezione risiede l’importanza del discorso pronunciato a Loreto l’11 aprile 1985 da Giovanni Paolo II ai partecipanti al Convegno della Chiesa italiana su «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini». Di fronte al «rischio di una espropriazione effettiva di ciò che è sostanzialmente cristiano sotto l’apparenza di una appropriazione che in realtà resta soltanto verbale, con la conseguenza della assimilazione al mondo invece che della sua cristianizzazione», rischio in cui è inesorabilmente caduto il «cristianesimo senza soggetto», il Papa indicava come prioritario per il cristianesimo, nell’attuale momento storico, l’affermazione anzitutto della «verità» di Cristo.
«La “coscienza di verità”, la consapevolezza cioè di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario dell’intera comunità ecclesiale, come testimonia l’esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle sue origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano quasi ad una nuova implantatio evangelica anche in un Paese come l’Italia, una forte e diffusa coscienza di verità appare particolarmente necessaria».
Di fronte al processo di secolarizzazione che ha dissolto il tessuto cristiano della nazione la testimonianza cristiana non può cioè prescindere dal suo contenuto di verità. Essa non può più presupporre la coscienza cristiana come un dato di fatto. La «cristianità» si è conclusa non solo nel suo aspetto ecclesiastico-politico ma, più radicalmente, in quello antropologico. Per questo, secondo il Pontefice, «per promuovere la comunione ecclesiale e la capacità di presenza apostolica della Chiesa appare molto significativa e carica di promesse la grande varietà e vivacità di aggregazioni e movimenti, soprattutto laicali».
L’incalzare della secolarizzazione pone cioè il problema di una soggettività cristiana tesa a porre in atto una nuova rinascita della fede. «Associazioni e movimenti costituiscono, in effetti, un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo».
Solo a partire da questa coscienza rinnovata si disegna lo scopo: superare «quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l’Italia, il dramma della nostra epoca; occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita, in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all’uomo della società industriale avanzata, il senso e l’orientamento dell’esistenza».
La Chiesa e le opere
Una trasformazione reale della vita e della società alla luce di Cristo: questa è l’opera cui è chiamata la Chiesa. «Anche e particolarmente in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata, la Chiesa è chiamata ad operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia, o ricuperi, un ruolo-guida e un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro». Il necessario rispetto delle altrui posizioni, qual è postulato da una corretta democrazia, non toglie l’urgenza e l’utilità di una decisa presenza cristiana.
Documento quanto mai ricco di tale presenza è, secondo Giovanni Paolo II, «La storia del movimento cattolico» la quale «fin dalle origini, è storia di impegno ecclesiale e di iniziative sociali che hanno gettato le basi per un’azione di ispirazione cristiana anche nel campo propriamente politico». Alla storia del cattolicesimo sociale appartengono in modo particolare le opere e iniziative sociali cattoliche. «Esse non sono mera supplenza di provvisorie carenze dello Stato, né tanto meno concorrenza nei suoi confronti, ma espressione originaria e creativa della fecondità dell’amore cristiano».
Con il discorso di Loreto il Papa riattualizzava così la prospettiva leonina situandola però nel nuovo contesto, segnato da una decristianizzazione che attraversa non solo la élites — come al tempo di Leone XIII — ma anche le masse. Ciò significa che l’ideale lamennaisiano, sotteso al progetto leonino, non può essere oggi materialmente ripreso. Un nuovo cattolicesimo sociale non può sorgere puramente dall’incontro tra una leadership del cattolicesimo organizzato e una realtà popolare, nei suoi ideali ancora sostanzialmente cristiana.
E’ l’idea stessa di impegno sociale che è priva di senso poiché non riesce più ad attingere, in un clima di scetticismo e di nichilismo diffuso, l’energia e lo slancio che gli sono necessari. Per questo il Papa a Loreto collega intimamente una presenza sociale ecclesiale alla urgenza di una nuova evangelizzazione. La Chiesa cioè può tornare ad incidere nella storia solo mediante una rinascita della fede. Rispetto a questa prospettiva ogni impegno ecclesiale il cui orizzonte sia o puramente caritativo-assistenziale o semplicemente etico, appare storicamente inadeguato.
Le nuove virtù
Nel suo discorso di Loreto il Papa veniva così interpretando, e al contempo dando forma, a quella nuova stagione di cattolicesimo sociale che, nata inizialmente a metà degli anni ’70 sotto la provocazione marxista e a motivo della perdita di identità cristiana, si era nel frattempo precisata nella sua fisionomia e nei suoi compiti. Per questo le reazioni a Loreto, sia da parte laica come di certi settori del mondo cattolico, furono dure e di aperto disappunto, perché il discorso pontificio chiariva e indirizzava le linee di un movimento in atto.
Quest’ultimo, declinando la prospettiva lamennaisiana, si era liberato di ogni possibile tentazione utopica nonché da quella, «restauratrice», che il compito principale stesse nella ricostituzione di un blocco cattolico in funzione del mantenimento dei valori comuni. Nel nuovo contesto storico sempre più netta si imponeva la percezione che una presenza cristiano-sociale poteva trovare il suo senso solo nell’ottica di una nuova evangelizzazione, come segno concreto, posto nella realtà, di un Avvenimento che, cambiando la vita e la storia, produce una «fraternità» che si concreta in opere, iniziative, fatti.
Non un progetto ma l’esposizione di un Fatto, il dare «forma» ad un’amicizia che ne è segnata affrontando la materialità dei bisogni, diventa il criterio supremo che muove ad un «incontro», non ideologico ma fattuale e profondamente umano, con gli altri e con il mondo. A fronte di questa percezione, per la quale la leva di una presenza non risiede nelle virtù morali, sempre più evanescenti, bensì nelle virtù teologali (fede, speranza, carità) profondamente radicate nell’Avvenimento di Cristo, un’altra interpretazione veniva però profilandosi della prospettiva dischiusa dal Papa a Loreto.
Per essa il discorso pontificio valeva non tanto per l’idea di un nuovo inizio della fede e per la connessione tra il medesimo e la testimonianza sociale, bensì, all’inverso, perché poteva servire a legittimare il mantenimento del vecchio ordine.
Disegno missionario
In un’ottica puramente politica il programma lauretano, nella misura in cui sottolineava l’impegno unitario dei cattolici in sede storica, poteva cioè venir pensato come criterio di controllo onde impedire ogni possibile autonomia ad un movimento di cristiani nella società. In questo modo il disegno missionario svolto dal Papa non troverebbe altra applicazione se non nella forma di un ordine ecclesiale il cui esito politico potrebbe essere, paradossalmente, gestito da tendenze il cui intento è proprio l’esautoramento della Chiesa come forza sociale.
Così la nozione di «blocco cattolico» veniva risuscitata proprio da coloro, pervenuti nel frattempo alla leadership politica, che, negli anni passati, avevano a lungo ostacolato e combattuto ogni forma di soggettività cristiana in senso storico-concreto.
Dopo aver lottato contro la diaspora e la nullificazione della fede, nel corso degli anni ’70, un movimento che voglia render presente la Chiesa nel mondo deve così oggi reagire contro un ordine, clericale e politico ad un tempo, che rischia di soffocarne ogni reale creatività e ricchezza. Non il «blocco cattolico», anche se l’unità tra i credenti quando non è puramente formale va ricercata e non certo disprezzata, può costituire oggi un segno e una provocazione per il mondo. E’ solo nella persona, in un tempo in cui la «cristianità» si è dissolta e la tradizione appare sempre più impotente a generare la fede, che la Chiesa può tornare ad essere una «forza sociale».