Trattativa col diavolo

da Il Sabato n.47

25 Novembre 1989

Il primo rapporto tra un Papa e un leader sovietico fu un messaggio radio di Benedetto XV a Lenin per liberare un vescovo. Nel momento in cui Papa Wojtyla incontra Gorbacev, ecco la storia dei rapporti tra Santa Sede e Stato sovietico prima dell’Ostpolitik. I tentativi di aprire il dialogo da parte della Chiesa, le strumentalizzazioni e la persecuzione sanguinosa in Urss, gli stratagemmi vaticani

Renato Farina

L’ARCIVESCOVO Angelo Sodano, ministro degli Esteri della Santa Sede, ha concelebrato questa mattina la messa nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Mosca». E domenica 22 ottobre, se tutto va bene, dice l’agenzia di stampa, Gorbacev verrà dal Papa il primo dicembre, e già si prepara la futura visita del «Sommo Pontefice della Chiesa universale» nei vasti regni sovietici. Quel nome, San Luigi dei Francesi, riecheggiato dalle tivù e dalle radio, fa però sobbalzare il cuore a qualche vecchio prelato.

Ah, San Luigi dei Francesi! I rapporti tra Lenin prima e Stalin poi con i papi passarono da questa parrocchia «francese» di Mosca. Anzi da qui passò la sopravvivenza stessa della Chiesa cattolica in Urss. Un buon posto dunque per rifare la storia — com’è possibile oggi, senza accesso agli archivi pontifici e sovietici — della diplomazia tra Roma e Mosca prima della Ostpolitik. Un buon posto? Un luogo tremendo. Giusto davanti alla Lubjanka, il quartier generale della Ghepeu, poi Kgb: ne sono passati a migliaia per non tornare più.

VESCOVI CLANDESTINI

Prima di Sodano aveva celebrato messa in questa chiesa, posta sotto la protezione dell’ambasciata di Francia, un altro vescovo. Era il padre gesuita Michel d’Herbigny, e non si limitò a dir messa. Qui, su ordine di Pio XI, tentò di ristabilire una gerarchia cattolica. Il 21 aprile 1926 consacrò segretamente a San Luigi dei Francesi il padre assunzionista Pie Eugène Neveu. D’Herbigny consacrò in seguito altri tre vescovi. Lo ha raccontato, attingendo ad archivi inesplorati, padre Antoine Wenger nel suo, forse un po’ troppo indiscreto, Rome et Moscou, edito da Desclée de Brouwer.

A San Luigi dei Francesi, il 10 maggio 1926 ordinò i monsignori Boleslav Sloskans (gli toccava Mohilev) e Alexandre Frison (per Odessa). Poi a Leningrado d’Herbigny consacrò, a Nótre Dame de France, il 13 agosto 1926 monsignor Antoine Malecki. Il segreto durò poco.

Antoine Malecki

Il primo ad essere arrestato fu Sloskans, spedito al gulag delle isole Solovki. Poi toccò a Malecki, che fece in tempo, con l’autorizzazione di Roma, a ordinare un altro vescovo, Théophilus Matulanis: arrestato lui pure sin dal 1929. Monsignor Frison fu scoperto subito, ma tardarono ad arrestarlo. Fu condannato alla fucilazione «come spia dei tedeschi». Scrisse il vescovo Neveu, ormai esiliato dalla Russia: «Riteniamo che monsignor Frison sia stato fucilato intorno al 20 giugno 1937».

Altri tempi. La diplomazia aveva lo stile di Pio XI che poi fu continuato da Pio XII. Il cardinal Giuseppe Siri lo esprimeva, in conversazioni private, così: «Non farsi legare le mani da nessuno. Privilegiare ad ogni costo l’aspetto apostolico». Così, se dopo i primi approcci non si riusciva ad avere garanzie di libertà per la Chiesa, basta: avanti senza scrupoli. Non prendere impegni diplomatici.

Ma se quello per scopi suoi socchiude la porta, infilaci il piede. Non prometter nulla, e fai il possibile per salvare la Chiesa. Così D’Herbigny fu invitato in Urss per una «vacanza» nel 1925. Trattò e non ottenne nulla. Ripartì l’anno seguente e, prima di varcare i confini sovietici, fu ordinato vescovo segretamente dal nunzio a Berlino, l’arcivescovo Eugenio Pacelli…

Oggi in ambienti vaticani attenti al dialogo ecumenico, si critica molto l’impostazione di Pio XI. Ha buon corso la tesi che la goffaggine delle ordinazioni clandestine abbia nuociuto a rapporti più proficui. E che forse sarebbe stato opportuno arrivare ad un riconoscimento dello Stato sovietico.

Inoltre si fa rilevare una certa mancanza di sensibilità ecumenica verso gli ortodossi. Non così però la pensano i più rappresentativi tra i cristiani russi. Ancora nel 1975 i preti ortodossi Gleb Jakunin e Lev Regel’son invia­rono a Nairobi un appello al Consiglio mondiale delle Chiese in cui ringraziarono Pio XI, per «le sue forti denunce dei persecutori, il grande dolore da lui espresso per le sofferenze del popolo russo».

ANCHE COL DIAVOLO 

Con tutto questo, Pio XI non era affatto contrario al «dialogo». Il cardinale Alfredo Ottaviani, il famoso «carabiniere» della dottrina cattolica, prefetto del Sant’Uffizio, amava ripetere una frase che papa Ratti disse il 14 maggio del ’29 agli studenti del collegio Mondragone: «Quando si tratta di salvare anime o di impedire alle anime danni maggiori, noi sentiamo il coraggio di trattare con il diavolo in persona»

Che la Santa Sede abbia cercato di trattare con i rivoluzionari lo si vide subito. Che si sia accorta di avere a che fare con «il diavolo» è un affare di qualche anno dopo. Prima ci furono ondeggiamenti e speranze. Poi ci fu la fermezza. Fino alla Ostpolitik della prima e della seconda fase: da Paolo VI cioè a Giovanni Paolo II. E una lunga storia.

Nel febbraio del 1917 ci fu la prima rivoluzione, la rivoluzione «borghese». A quel tempo i cattolici russi erano ostracizzati dallo zarismo. E’ abbastanza credibile che l’abdicazione dello zar Nicola sia stata accolta in Vaticano con «ammirazione e gioia», come riferirono i giornali russi.

In questi pochi mesi, prima del colpo di Stato di Lenin dell’ottobre, circola con simpatia una battuta che papa Pio X avrebbe pronunciato a suo tempo sullo zarismo: gubernium diabolicum, governo del diavolo! Ma il vero diavolo doveva ancora venire. Benedetto XV, il Papa regnante, se ne accorse ben presto. Chi gliene diede le prime notizie fu il suo successore, Achille Ratti, nunzio apostolico per tutta l’Europa orientale («ed eventualmente anche la Russia»).

Ratti chiede al Papa di potersi recare in Urss. Subito manifesta la sua attitudine ecumenica. Vuole andar lì «per lavorare in quel Paese in favore dei fratelli separati o, se sarà necessario, morire per loro». Cicerin, il coltissimo «commissario del popolo per gli Affari esteri» di Lenin lo anticipa: Ratti sarà il benvenuto a Mosca. Ratti risponde sì, ma chiede garanzie di libertà di movimento nell’incontrare i vescovi cattolici, e nell’entrare ed uscire dall’Urss. Cicerin tacque. E Ratti venne a sapere che nel frattempo i vescovi cattolici erano stati messi in prigione o cacciati dalle loro sedi.

Il primo a subire questa sorte era stato Eduard von Ropp, arcivescovo di Mohilev, la più grande diocesi del mondo, la cui giurisdizione toccava Mosca e si estendeva alla Siberia. Fu per von Ropp che si stabilì il primo contatto al livello più alto tra Santa Sede ed Urss.

Il segretario di Stato, cardinal Pietro Gasparri inviò un messaggio radio nel febbraio del 1919. Eccolo: «A Lenin, Mosca. Il Papa Benedetto XV ha appreso con immenso dolore che Monsignor von Ropp è stato preso in ostaggio dai bolscevichi. Prega con insistenza Lenin di dar ordine che sia subito messo in libertà». La parola chiave del primo messaggio papale ai sovietici è dunque «libertà». Lenin prese tempo. Rispose per radio il 12 marzo: «L’arcivescovo Ropp non è mai stato arrestato. E’ suo nipote, di 23 anni, che è stato arrestato per speculazione».

MISSIONE CARESTIA

Ratti corse ai confini russo-polacchi a trattare per la liberazione di Ropp: se ne temeva la fucilazione. Viene scambiato con Karl Radek, la più brillante penna dei bolscevichi, prigioniero dei polacchi. Il governo sovietico vuol approfittare della cosa per ottenere un riconoscimento de jure dal Vaticano. La Santa Sede prende tempo.

Ha avuto notizia di persecuzioni contro «i ministri di Dio, soprattutto quelli che appartengono alla religione russa detta ortodossa». Il virgolettato è di un nuovo messaggio radio per Lenin firmato Gasparri. Dice: «Il Santo Padre La scongiura di dare ordini severi perché i ministri di ogni religione siano rispettati». La risposta di Cicerin è sprezzante. Ma come? Fino ad un attimo fa bollavate il Patriarcato di Mosca come «scismatico ed eretico», ed ora lo difendete? Abbiamo trovato «immense ricchezze nascoste nei chiostri» sottratte alle «nostre masse popolari».

La Santa Sede se ne indigna. Ma ormai, dal 6 febbraio 1922, c’è un nuovo Papa: Pio XI, Achille Ratti. Il nuovo Papa sa chi ha davanti, proprio per questo cerca in ogni modo di arrivare ad una coesistenza con il giovane Stato. Nella primavera del 22 c’è a Genova la Conferenza delle nazioni già belligeranti. Monsignor Giuseppe Pizzardo ha l’incarico del Papa di far accettare i sovietici agli altri Paesi.

Pone tre condizioni a Mosca: 1) Piena libertà di coscienza per tutti in Russia; 2) garanzia dell’esercizio «pubblico e privato» della religione; 3) restituzione dei beni immobili alle confessioni religiose. Pizzardo aveva l’indicazione di essere morbido sul terzo punto, ma non ce ne fu bisogno: Cicerin non volle nemmeno discutere.

Ma eccolo che discute, eccome se discute: c’è una spaventosa carestia in Urss. Il Papa vuole che una Commissione pontificia di assistenza si rechi in Urss per tamponare in qualche modo il disastro. Cicerin discute, ma non per affrettare i soccorsi, bensì per ottenere che tale Commissione abbia carattere diplomatico.

Il Papa respinge questa condizione. Ci vogliono mesi ma alfine dodici religiosi ricevono la benedizione del Papa e partono verso la Crimea. Ottengono di non dipendere dal governo di Mosca nell’assegnare gli aiuti. Invano il patriarca ortodosso Tikhon chiede ai bolscevichi di poter dirigere gli aiuti dei fratelli cristiani. La cucina pontificia arriva a servire 160mila pasti al giorno tra la Crimea e Mosca.

Mentre la Chiesa cattolica opera il massimo sforzo caritativo, si abbatte come una mazzata la persecuzione anticattolica. La tecnica di Mosca è sempre la stessa: mostrare di accettare una condizione, e subito infliggere un colpo più forte ed inaspettato. I sovietici imprigionano come «organizzazione controrivoluzionaria» l’intero staff cattolico della diocesi di Mohilev.

Dal 21 al 26 marzo 1923 va in scena il processo. Imputati l’arcivescovo Cieplak, il vicario Budkiewicz, l’esarca per i cattolici di rito bizantino Fedorov, altri preti e due laici : in tutto sedici persone. Due condanne a morte, ed altre quattordici ai lavori forzati. Cieplak viene graziato all’ultimo istante. Budkiewicz no. Alla Lubianka, dinanzi a San Luigi dei Francesi, nella notte di Pasqua del 1923 riceve i suoi «9 grammi di piombo». E’ il primo martire cattolico riconosciuto della persecuzione bolscevica.

Quello stesso giorno, la Terza internazionale comunista reclama la condanna a morte del Papa «perché ha impedito ad un popolo moribondo di essere nutrito e preservato dagli orrori della morte di fame. Egli è dunque responsabile della morte di tutto quel popolo». Poco dopo la Commissione pontificia viene allontanata.

OSSERVATORE ROMANO

In Russia però è rimasto un sacerdote francese, padre Neveu, il futuro vescovo. In questa prima fase egli in ogni modo cerca di far giungere la sua voce a Roma, perché il Papa riconosca l’Urss. Questo per il maggior bene della Chiesa e dei credenti. Neveu, che fu l’ispiratore dell’enciclica contro il comunismo ateo di Pio XI (1937), capovolse negli anni questa posizione e benedisse infine la scelta del Papa.

Prima che D’Herbigny parta per Mosca, c’è tuttavia un episodio strano che coinvolse l’Osservatore Romano. Due articoli furono pubblicati dall’organo ufficioso della Santa Sede. Il 23 agosto 1924: «Pensieri di Lenin sul cattolicesimo. Ricordi personali».

Il 24 settembre 1924: «Il problema russo nel pensiero di Lenin. Ricordi personali». Lenin era morto il 21 gennaio. Ora un prete ungherese, Victor Bedé.che aveva conosciuto Lenin a Parigi e che l’aveva rivisto pochi giorni prima della sua morte, presentava la figura di un leader assai pensoso sulla religione. Diceva Lenin: «Vedo da qui a cent’anni una sola forma di governo, la sovietica, e una sola religione, la cattolica. Il tuo ideale si realizzerà come il mio». Una ben strana profezia… La credibilità di questo racconto resta misteriosa, e comunque contraddice nettamente il trattamento riservato da Lenin a tutte le confessioni cristiane.

Eugenio Pacelli

Intanto Eugenio Pacelli continuava per conto del Papa le trattative con Mosca. Incontrò a Berlino Krestinskij. Le cose promettevano bene. Si parlava di nomine di vescovi, di scuole cattoliche. Sembrava che un nuovo vento soffiasse sulla Russia. In cambio: riconoscimento diplomatico. Pacelli non si lasciava incantare però. Era nunzio in Baviera, a Monaco.

Era in nunziatura quando si presentarono dinanzi a lui gli «spartachisti», i comunisti tedeschi: lo minacciarono di morte. Egli li guardò, ed essi se ne andarono. Monsignor Montini rivelò che Pacelli considerava una delle più grandi grazie della sua vita essere presente in nunziatura in quel momento. Gli rimase per sempre impresso cosa fosse il comunismo.

Eppure c’era nel 1925 aria nuova. D’Herbigny, che era stato rettore del Pontificio istituto per gli studi orientali, fondato da Benedetto XV, fu invitato a far «vacanza» in Urss. Il console generale sovietico gli sussurrò: «Come abbiamo una nuova politica economica, così pratichiamo adesso una nuova politica religiosa. Abbiamo constatato che milioni di uomini sono strettamente legati a queste idee. Abbiamo deciso di cessare la lotta diretta contro queste tendenze».

D’Herbigny tornò dalla Russia convinto più che mai che il bisogno primo fosse di ricreare la gerarchia. Si mosse imprudentemente, D’Herbigny? È probabile. I «suoi» vescovi furono ben presto ridotti all’impotenza. Tranne Neveu, vescovo di Mosca, protetto dall’ambasciata francese.

CROCIATA DI PREGHIERA

Pio XI non cessa di seguire la Russia. La strada diplomatica è chiusa. Si affida alla sola via apostolica. Nel 1929 fonda il Russicum. Un seminario cattolico aperto ai valori dell’ortodossia. I sovietici replicarono con accuse romanzesche: è una scuola di paracadutisti, covo di spie ecc. Il Russicum non fu ben visto, a quei tempi, dalla gerarchia ortodossa.

Lo vedevano come avamposto di una strategia di conquista cattolica della Russia. Del resto, non mancarono da parte dei cattolici comportamenti «unionisti» che oggi sarebbero ritenuti inaccettabili. Si ebbe così un vescovo ortodosso che non rese pubblica la sua conversione cattolica per poter condurre a suo tempo un maggior numero di fedeli nel seno di Roma.

D’altra parte il metropolita Sergio arrivò in un’intervista al Times del 15 febbraio 1930 a dichiarare che la «Chiesa ortodossa continuerà a rifiutare ogni rapporto con la Chiesa di Roma». Eppure Pio XI fu davvero «ecumenico». Lo dimostrò in quello stesso 1930.

Fu un anno cruciale. Il 2 febbraio Pio XI invia un chirografo al cardinal Pompilj. Il tema è la persecuzione antireligiosa in Urss. Rivela l’intenzione di celebrare il 19 marzo «sulla tomba del principe degli Apostoli una messa di espiazione, di propiziazione e di riparazione per tante e così atroci prove e per il sollievo del nostro dilettissimo popolo russo».

L’impressione fu enorme. La stampa del mondo intero fece eco al Papa, la Chiesa luterana di Germania e quella anglicana si associarono. Stalin rispose: «Calunnie!». Ed organizzò la risposta al Papa: una raccolta di fondi per l’Armata rossa.

Ma il governo sovietico dovette fare marcia indietro: il 15 marzo ordinò di frenare l’azione di chiusura delle chiese e la scristianizzazione delle campagne. Si pensava che la persecuzione fosse al culmine: 10mila ministri del culto erano nel 1930 rinchiusi nel solo lager delle Solovki. Ma nel 1937 si supera ogni limite. Monsignor Neveu, definitivamente espulso dall’Urss, fornisce al Papa materiale per la Divini Redemptoris. La condanna del comunismo è totale. Distingue però regime da popoli: «Però non vogliamo in nessuna maniera condannare in massa i popoli dell’Urss, per i quali nutriamo il più vivo affetto paterno».

Quando Pio XI moriva, il 10 febbraio del 1939 non restava più alcuna traccia di gerarchia cattoIica in Unione Sovietica. Ora i cristiani perseguitati fanno sapere che quella apparente lontananza fu per loro il segno della solidarietà: non riconoscere lo Stato sovietico fu un incoraggiamento a perseverare. La giaculatoria di papa Ratti: «Salvator mundi, salva Russiam», fu più forte della propaganda atea.

Papa Pacelli continuò in tutto la linea di Pio XI. Agli americani e a Churchill stesso che volevano convincerlo della conversione di Stalin alla libertà religiosa, Pio XII rispondeva sulla base di informazioni fornite dall’americano padre Léopold Braun, che rimase a dir messa a San Luigi dei Francesi. Tutta propaganda, faceva sapere Braun.

L’opuscolo pubblicato dalla Chiesa ortodossa dal titolo «La verità sulla religione in Russia» era una menzogna. La fermezza fu forse quel che permise al Vaticano di riuscire a non interrompere le trattative con i sovietici. La posizione di assoluta neutralità durante la guerra consentì un gran lavoro di assistenza di profughi e rifugiati. Un lavoro che era sostenuto da un Ufficio informazione per la Russia.

SEMPRE ROSSO

C’è un episodio che rivela il sentire di Pio XII. Non parliamo del decreto del Sant’Uffizio che scomunicava i cattolici iscritti o sostenitori dei Partiti comunisti. Ma di un aneddoto riferito dal futuro cardinale Mario Nasalli Rocca di Cornegliano. Il Nasalli era tornato da un viaggio in Argentina dove aveva fatto parte di una missione pontificia. E il Papa gli domandò un giudizio sul comunismo locale.

Nasalli Rocca rispose: «Santità, un comunismo all’acqua di rose!». Il Papa si alzò dalla sedia e gli disse: «Ingenuo! Il comunismo è rosso, sarà sempre rosso, sarà pericolosamente rosso!» Fu questo, del resto, il periodo peggiore del rapporto tra Vaticano ed Urss. L’avvento di Chruscev segnò, nella sua prima fase, una nuova ondata di persecuzione anti-religiosa. E ci fu la repressione in Ungheria. Pio XII non poteva che dare indicazioni forti.

La situazione mutò dal 1958. Venne Giovanni XXIII. Egli ricordò nella sua prima enciclica Ad Petri Cathedram, i cristiani perseguitati. Ma cercò un approccio, se così si può dire, personale. Approvò la missione in Urss di Giorgio La Pira. Ricevette il potente genero di Chruscev, Adzubej. Ma il cambiamento fu solo psicologico nei rapporti tra Vaticano ed Urss. Nessun patto, nessuna firma.

Siamo già però al sorgere di un’altra epoca: quella della Ostpolitik. È nel 1963 che si costituisce una specie di pattuglia volante con speciale mandato per l’Europa dell’Est. Ci sono monsignor Agostino Casaroli, sostituto agli Affari pubblici, monsignor Giovanni Cheli, legato papale all’Orni, e monsignor Luigi Poggi, nunzio viaggiante nell’impero sovietico.

Ma questa è tutta un’altra storia (e la racconteremo). Una storia che si ricongiunge però con quella antica: a San Luigi dei Francesi. Dove segretamente D’Herbigny consacrò tre vescovi e dove il 22 ottobre scorso Sodano, l’arcivescovo «ministro degli Esteri», dice messa tranquillo e libero, dinanzi ai mass media.

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IL PATRIARCA TIKHON

Lenin non gli perdonò mai l’appello al Papa per i fratelli ortodossi

TIKHON, patriarca di Mosca, il 19 febbraio del 1918 decreta, rivolto ai bolscevichi che avevano spogliato la Chiesa di tutti i beni e abolito l’insegnamento religioso: «E’ un’opera satanica per la quale sarete sottoposti al fuoco dell’inferno dopo la morte e all’orribile maledizione di tutte le generazioni quaggiù. (…) noi vi diciamo: anatema!» Ma i tempi non erano giunti per il suo martirio.

Nel marzo del ’22 Lenin ordina prudentemente «di non toccare il patriarca Tikhon, benché sia indubbiamente alla testa di questa rivolta di schiavisti». Allude alla ribellione del popolo contro la confisca dei beni preziosi degli altari e delle chiese, con il pretesto della carestia.

A Tikhon, però, non fu perdonato da Lenin l’appello al Papa e all’arcivescovo di Canterbury per il soccorso ai fratelli ortodossi. La posizione di Tikhon, durante la carestia, fu: la Chiesa darà tutto, ma la confisca forzata è sacrilegio.

Nel corso del «processo ecclesiastico di Mosca» Tikhon è chiamato come testimone. Il presidente del tribunale gli chiede: «Ritiene che il potere sovietico abbia agito in modo non corretto?».

Tikhon: «Sì». Presidente: «Lei considera vincolanti per sé le leggi esistenti nello Stato?». Tikhon: «Sì, quando non sono contrarie alle regole della devozione». Viene destituito e arrestato, mentre undici tra arcipreti e laici sono fucilati (in tutta l’Urss furono migliaia, tra cui molti cattolici).

Non fu processato per intervento del Papa. Liberato, si trovò circondato da una popolarità accresciuta. Morì improvvisamente il 25 marzo 1925. Martirio? Le circostanze della morte restano dubbie. Sicuro è invece l’abuso del suo nome dopo la morte da parte del potere sovietico.

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IL VESCOVO FRISON

Arrestato dalla polizia prima di raggiungere Odessa, la sua diocesi

IL vescovo cattolico Aleksandr Frison, ordinato il 10 maggio 1926 e destinato a Odessa sul Mar Nero, non riuscì mai a raggiungerla per assistere i 30mila cattolici locali: fu scoperto dalla Ghepeù e confinato in una stanzetta a Simférepol.

Tagliato fuori da ogni contatto con la Chiesa. Si conserva qualche sua rara lettera rimasta senza risposta. «E’ vero che Pio X è stato beatificato e Bernadette canonizzata? La Madonna è apparsa a Banneux in Belgio? Potete mandarmi la vita di Teresa del Bambin Gesù?».

Nel 1933 lo si accusa di aver indotto dei bambini a far parte di un coro e si ha notizia di un processo per perversione di minori.

Nel 1936 si sa che è in prigione. Condannato alla fucilazione per spionaggio a favore della Germania: fecero saltar fuori qualche dollaro: il prezzo del tradimento!

Fu ucciso il 20 giugno del ’37.

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CONIUGI ABRIKOSOV

Vladimir divennesacerdote e Anna suora: insieme, diciott’anni di lager

I coniugi Abrikosov, di Mosca, cugini, ricchi borghesi, si sposarono ortodossi. Furono ricevuti nella Chiesa cattolica nel 1908. Entrarono nel Terz’ordine domenicano dopo essere stati ricevuti a Roma da Pio X; Vladimir fu ordinato sacerdote, venne espulso dalla Russia nel ’22 e si stabilì a Parigi.

La moglie, ormai Madre Anna Abrikosova, trasformò il suo appartamento in convento: vi radunava venti ragazze che si fecero domenicane. Fu arrestata l’11 novembre del ’23 con otto suore. Meraviglia: le suore organizzarono nella prigione di Boutyrki una vera e propria comunità. Qui ricevettero, come si fa con un precetto da obbedire, la sentenza. Dieci anni di lager.

La Madre Abrikosova trovò il modo di dirigere le suore rimaste a Mosca, per lettera, da Tobolsk. Finché fu trasferita a Iaroslavl, dove vigeva un regime spaventoso.

Nell’ora d’aria, incrociando un uomo che riconobbe essere un prete, riuscì, passandogli più volte per pochi secondi davanti, a confessarsi ed essere assolta. Quel prete era monsignor Skalski.

Malata di cancro, operata e convalescente, fu liberata un anno prima del termine. Fu tenuta al confino. Indomita continuava a dirigere per lettera le sue suore.

Nel ’34 fu di nuovo internata e, benché malata, le diedero altri otto anni, ancora a Iaroslavl. Morta il 23 luglio del 1936, i sovietici ne incenerirono il corpo il 27.

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P. JURAVSKI

I suoi diari straordinari

DI padre Anatoli Juravski, sacerdote ortodosso di Kiev, non si saprebbe nulla se non fossero venuti alla luce in questi ultimi tempi i suoi straordinari diari. Finì in un lager negli anni Trenta. Fu probabilmente fucilato nel 1939.

La sua famiglia è riuscita miracolosamente a venire in possesso dei suoi scritti. Nella sua figura si può riconoscere il carattere dei tanti cristiani ignoti che hanno patito per la fede.