Risorgimento Camicie rosse e radici cristiane nel saggio «Una religione civile per una nuova Italia»
di Marco Respinti
Ogni popolo, ogni Paese, ogni tradizione si regge su un’epica di fondazione, intrisa di «leggende» (di cose, cioè, da leggersi, «buona stampa» che edifica) e irta di eroi. L’Italia non è da meno. Il Risorgimento è certamente il crogiuolo che ha forgiato ciò che il Paese politicamente unificato è oggi, e al suo cuore sta sicuramente Il mito di Garibaldi. «Una religione civile per una nuova Italia» (Sugarco, Milano 2010), come suona il titolo dell’opportuno studio dello storico e consigliere parlamentare presso il Senato Francesco Pappalardo. Titolo, il suo, che vale il migliore dei sound-bite che fanno la fortuna di un pubblicitario.
«Mito», «religione civile», «nuova Italia». Il Risorgimento si è retto sull’idea centrale che quel che nella Penisola c’era in mancanza di una unità politica fosse il peggiore dei mondi possibili e che quindi il Paese andasse rigenerato. E siccome i popoli politicamente divisi dello Stivale erano però da secoli uniti da un senso culturale comune tale anzitutto perché figlio di una identità religiosa forte e omogenea (capace pure di produrre una distintiva letteratura nazionale), il cambiamento poteva avvenire solamente attraverso la sostituzione di quell’ethos che teneva divisi politicamente (per accidens) gl’italiani, ma che li accomunava culturalmente in una comunità plurale. Una «religione civile», appunto, di natura politica, che «facesse gl’italiani» finalmente tutti nuovi, sostituendosi al nemico «divisivo».
Ecco qui allora Garibaldi, campione di tutto e del contrario di tutto, ateismo, spiritismo, deismo naturalistico e «cristianesimo liberale» (ma chissà che significa: in quegli anni un Lord Acton, «cristiano liberale» non meno e forse più di Garibaldi, si poneva agli antipodi stessi dell’«eroe»). Tutto, basta che fosse contro la Chiesa Cattolica. Bisognava svellere l’unità cattolica degl’italiani per imporre un ordine nuovo, e Garibaldi si diede volontario.
Ora, avere paura del libro di Pappalardo non serve; occorre invece misurarsi serenamente con quest’altra faccia mai narrata della Luna. Un’opera, quella dello studioso, insulsamente reazionaria e smaccatamente nostalgica? Affatto.
Il cronista apprezzerà in essa il puntiglio della ricerca e l’acribia dei dati, quelli che non debbono mai essere separati dai giudizi ma che se mancano siamo alle solite mere opinioni.
Discutere approfonditamente assieme a uno studioso come Pappalardo del volto vero del Risorgimento, senza tacerne nemmeno i lati nascosti o persino inquietanti, significa buttare a mare l’unità d’Italia? Certo che no. Vuol dire farsi tutti un doveroso quanto umile bagno di realismo per non accontentarsi dei mezzucci e delle verità di comodo.
Per capirci, prendiamo a esempio la Francia. Nel 1989 i nostri cugini transalpini hanno celebrato il bicentenario del loro mito di fondazione, la Rivoluzione Francese. I Pappalardo d’Oltralpe non hanno risparmiato nemmeno i colpi al cuore. Cito per tutti solo gli studi sconvolgenti dello storico Reynald Secher sul genocidio giacobino della Vandea (il primo della storia, che, rimosso dalla memoria collettiva, ha permesso il prodursi degli altri) e l’onda lunga del revisionismo serio approdata a «Le livre noir de la Révolution Française», diretto da Renaud Escande (Cerf, Parigi 2008). In Francia se ne sono insomma date di ogni (accademicamente e mediaticamente parlando), ma ne sono usciti in piedi. Una nazione. Con il pregio di un poco di chiarezza in più. Sono sopravvissuti i francesi, volete che l’Italia non sopravviva a Pappalardo?
Francesco Pappalardo Una religione civile per una nuova Italia Sugarco, Milano 2010
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Cristianità n.360 aprile-giugno 2011
Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, con una Presentazione di Alfredo Mantovano, Sugarco, Milano 2010, pp. 234, € 18,50
di Paolo Martinucci
La figura di Giuseppe Garibaldi (1807-1882) è da tempo oggetto della ricerca e della riflessione storiografica di Francesco Pappalardo, socio benemerito di Alleanza Cattolica, del cui organo ufficiale Cristianità è direttore editoriale, presidente dell‘IDIS, l‘Istituto per la Dottrina e l‘Informazione Sociale, di Roma, autore di diverse opere, fra cui Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione (D‘Ettoris, Crotone 2004) e Il Risorgimento (Quaderni del Timone, Art, Novara 2010).
Con Giovanni Cantoni ha curato e ha collaborato a Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa (D‘Ettoris, Crotone 2006; cfr. la recensione di Massimo Introvigne in Cristianità, anno XXXIII, n. 335, maggio-giugno 2006, pp. 19-22) e con Oscar Sanguinetti ha curato e ha collaborato a 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità? (Cantagalli, Siena 2011). Lo studioso — che aveva già dato alle stampe Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2002; cfr. la recensione di Giuseppe Bonvegna in Cristianità, anno XXX, n. 313, settembre-ottobre 2002, pp. 43-44) — torna sullo stesso personaggio storico con l‘opera Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, che approfondisce i temi trattati nel primo testo e amplia il campo d‘indagine con un arricchimento bibliografico e documentale.
Il libro si apre con una Presentazione (pp. 7-10) di Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato all‘Interno, per il quale le celebrazioni del 150 anniversario dell‘unità politica italiana dovrebbero evitare il duplice errore di un‘apologia acritica e di una svalutazione preconcetta. Occorre invece evidenziare che l‘Italia, già prima del 1861, aveva una precisa identità, risultato del lascito culturale greco-romano inverato nel cristianesimo in un contesto politico policentrico, e rinsaldata dalla plurisecolare resistenza ai nemici esterni.
Sebbene il superamento dei piccoli Stati fosse diventata una necessità, date le nuove condizioni socio-economiche della Penisola e soprattutto il nuovo contesto internazionale, il tentativo di stravolgere l‘identità italiana ha avuto rilevanti conseguenze: la formazione di uno Stato accentrato e uniforme; la nascita di una «questione cattolica» frutto del «“processo culturale” — noto con il nome di Risorgimento — volto a “rifare gli italiani”» (p. 8); e l‘origine di una «questione meridionale», perché le modalità di annessione del Regno delle Due Sicilie hanno causato «la dispersione significativa delle ricchezze culturali del regno» (p. 10) e la distruzione d‘innumerevoli istituzioni.
Nell‘introduzione, La nascita del mito (pp. 11-27), si evidenzia come durante il processo risorgimentale sia stata costruita una leggenda anticattolica, con le caratteristiche di una religione civile, di cui Garibaldi rappresenta l‘icona più duratura, un‘immagine creata ad arte attraverso la trasformazione fantasiosa della sua personalità e, spesso, dei fatti che lo hanno visto protagonista. La nuova religione è funzionale alla creazione di un‘altra identità, che secondo alcune minoranze deve aprirsi alla modernità, ponendo fine alla decadenza iniziata nell‘epoca della Controriforma.
Garibaldi impersona l‘eroe romantico, capace di realizzare quanto l‘ideologia ha elaborato. Ogni aspetto della sua vita viene enfatizzato ai fini della costruzione di questa immagine: la partecipazione ai moti di Genova del 1834, le imprese in Sudamerica (1836-1847), l‘incontro con Ana Maria Jesus Ribeiro da Silva detta Anita (1821 ca.-1849), prima di tre mogli, la partecipazione alla difesa della Repubblica Romana nel 1849.
I discorsi, i proclami, gli abiti e i comportamenti sono accuratamente studiati; gli oggetti a lui appartenuti diventano reliquie; le sue biografie e le memorie sono «rivisitate» e prontamente stampate; non è trascurata neanche l‘arte fotografica, allora ai primordi; e nella ritrattistica Garibaldi assume perfino le sembianze di Cristo Salvatore. Il ritiro a Caprera è l‘apoteosi della leggenda: è un novello Cincinnato, che si estranea dall‘agone politico e militare in povertà. A partire dal 1870, il mito è già una realtà cristallizzata, «pietrificata», che trova un riscontro nella «moltiplicazione di lapidi, monumenti ed epigrafi» (p. 26).
Il primo capitolo, La formazione politica e militare di Garibaldi (pp. 29-70), descrive l‘ambiente familiare e la formazione ideologica del nizzardo, nel contesto sociale e politico dell‘Europa della Restaurazione, il suo ruolo nei primi moti rivoluzionari, l‘attività di corsaro e di guerrigliero nell‘America del Sud. Marinaio mercantile, Garibaldi nei suoi viaggi incontra esuli, cospiratori, massoni e utopisti, formandosi politicamente con alcune precise connotazioni: il pragmatismo operativo, l‘odio verso il cattolicesimo, la militanza politica vissuta come una forma d‘impegno religioso.
È l‘epoca successiva al congresso di Vienna del 1815, caratterizzata dalla politica di conciliazione del cancelliere dell‘Impero d‘Austria, Clemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg (1773- 1859), fautore di una monarchia amministrativa, centralizzata, burocratica e poliziesca, a discapito delle articolazioni sociali, in particolare del patriziato, dei notabili e del ceto borghese, che trovano un punto d‘incontro nel costituzionalismo liberale, ritenuto più rappresentativo dei loro interessi.
Nello stesso periodo laici e religiosi di formazione controrivoluzionaria vogliono «[…] dare un carattere di maggior profondità e incisività alla Restaurazione» (pp. 45-46), correggendone in particolare gli aspetti regalistici e giurisdizionalistici. Gli eredi della tradizione giacobina e napoleonica, invece, si riorganizzano in numerose società segrete, che generano nuove forme di aggregazione sociale, quali i club, i caffè, i salotti e le redazioni dei giornali. La cultura romantica, inoltre, si lega al sentimento d‘indipendenza nazionale e al liberalismo, identificando la nazione con lo Stato e auspicando la distruzione delle «nazionalità spontanee» (p. 52).
Coinvolto nell‘ammutinamento della flotta nel porto di Genova del 1834 e condannato a morte, Garibaldi si rifugia a Marsiglia e presto raggiunge l‘America del Sud, dove non assume la difesa di popolazioni oppresse ma compie azioni piratesche, saccheggi e rappresaglie di ferocia ingiustificata. I resoconti che giungono in Italia sono sempre «ingigantiti e artefatti» (p. 66) dagli agenti mazziniani o, a Londra, dallo stesso Giuseppe Mazzini (1805-1872). Nel 1848 rientra in Italia, con un certificato di apprendista massone quale carta di presentazione per inserirsi nel processo rivoluzionario in atto.
Il secondo capitolo, Garibaldi, spada della rivoluzione in Italia (pp. 71-129), analizza le azioni del nizzardo in un quadro politico che vede Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) assumere la guida del movimento liberale. In Italia, Garibaldi constata che l‘estremismo dei mazziniani ha fatto perdere consenso all‘opzione repubblicana, mentre trovano maggiore considerazione le soluzioni federaliste: quella neoguelfa, sostenuta da Vincenzo Gioberti (1801-1852), ma anche le proposte di Cesare Balbo (1789-1853) e del beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855), nonché quelle repubblicane e rivoluzionarie dei milanesi Carlo Cattaneo (1801-1869) e Giuseppe Ferrari (1811-1876). Anche il nuovo Pontefice, Pio IX (1792-1878), propone la creazione di una Lega doganale italiana.
Durante la guerra fra il Regno di Sardegna e l‘Impero d‘Austria, iniziata da Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), Papa Pio IX — intorno al quale si era creata la leggenda del Papa «liberale» — rifiuta l‘appoggio alla causa rivoluzionaria, mentre le popolazioni rurali, in generale, si schierano con i sovrani legittimi. Dopo l‘assassinio del ministro dell‘Interno e delle Finanze dello Stato Pontificio, Pellegrino Rossi (1787-1848), Garibaldi raggiunge la Città Eterna e si mette al servizio della neonata Repubblica Romana. Mentre il Pontefice trova rifugio a Gaeta, presso Ferdinando II di Borbone (1810-1859), il governo rivoluzionario perseguita i vescovi; su iniziativa del cospiratore romagnolo Callimaco Zambianchi (1811-1860), al servizio di Garibaldi, vengono uccisi numerosi sacerdoti.
Il nizzardo abbandona Roma all‘arrivo delle truppe inviate dal presidente della Repubblica Francese, Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873). Nella ritirata è attaccato dalla popolazione civile e sua moglie Anita muore in circostanze poco chiare. Braccato, riesce a raggiungere Genova, dov‘è arrestato dalle forze sabaude ma, considerato un prigioniero scomodo, viene rilasciato e invitato a lasciare l‘Italia, ricevendo pure del denaro. Nel 1850 è a New York, accolto da esuli politici e da un nutrito gruppo di massoni, quindi ricomincia a navigare lungo le rotte dell‘America Centrale e dell‘Oceano Pacifico, trasportando guano e manodopera cinese.
Quanto non è stato ottenuto con l‘esplosione rivoluzionaria del 1848 e sui campi di battaglia — dopo le sconfitte re Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878) — viene perseguito a livello culturale. Massimo d‘Azeglio (1798-1866), cattolico-liberale e primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, allontana i dignitari di Corte legati alla destra cattolica e dà inizio alla persecuzione del clero, facendo arrestare i parroci più critici della svolta liberale e approvare l‘abolizione del foro ecclesiastico.
Cavour, imparentato con finanzieri ginevrini di origine ugonotta e vicino ad ambienti massonici, presidente del Consiglio dal 1852, continua l‘opera in modo più radicale: accoglie nel regno dissidenti politici espatriati, rivoluzionari, massoni, militari, tecnici e intellettuali e, alleandosi con la sinistra di Urbano Rattazzi (1808- 1873), sopprime le comunità religiose ritenute «non produttive». Il governo, nonostante la resistenza popolare, rifiuta il contributo che i vescovi, pur di salvare gl‘istituti religiosi, avevano raccolto e che era sufficiente a coprire le spese di culto; ciò dimostra che la nuova politica antiecclesiastica poggiava esclusivamente su basi ideologiche.
Alle elezioni del 1857 i cattolici raddoppiano il consenso in percentuale e in seggi, ma il governo annulla le consultazioni in diciassette collegi; in questo contesto matura la posizione cattolica che caratterizzerà lungamente la vita politica italiana, sintetizzata nel motto «né elettori, né eletti», coniato dal sacerdote vercellese Giacomo Margotti (1823-1887).
Garibaldi nel 1854 rientra in Italia e, ritenendo sterile l‘azione terroristica e insurrezionale, forse su pressione di ambienti massonici inglesi, si converte alla prospettiva unitaria imperniata sul Regno di Sardegna. L‘agenda politica italiana è comunque dettata dagli avvenimenti europei. Con un colpo di Stato il presidente Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873) assume il titolo d‘imperatore dei Francesi con il nome di Napoleone III, modificando i rapporti tra le forze della rivoluzione e quelle della conservazione: la guerra di Crimea (1853-1856) fra l‘Impero Russo e quello Ottomano, sostenuto militarmente dall‘Impero Francese e dal Regno Unito, disgrega la Santa Alleanza.
Cavour, inviando truppe sabaude a fianco degli anglo-francesi, guadagna alla causa italiana l‘appoggio di lord Henry John Temple, visconte di Palmerston (1784-1865), e dei bonapartisti francesi e il diritto a partecipare al Congresso di Parigi del 1856, nel corso del quale, non senza difficoltà e il ricorso a intrighi, riesce a far prendere in considerazione il suo disegno di espellere l‘impero asburgico dalla penisola italiana e di procedere ad «annessioni parziali a vantaggio del Regno di Sardegna» (p. 118).
Incontra quindi Giuseppe La Farina (1815-1863), fondatore della Società Nazionale, con cui elabora, con regolarità ma in segreto, piani rivoluzionari, ed entra in contatto anche con Garibaldi, nella speranza di realizzare fatti compiuti che la diplomazia europea non sarebbe riuscita a fermare. La fallita spedizione di Carlo Pisacane (1818-1857) nel Cilento rientra in questo ambito. È tuttavia l‘azione terroristica del cospiratore romagnolo Felice Orsini (1819-1858) nei confronti di Napoleone III a spingere quest‘ultimo, nel 1858, agli accordi di Plombières, che prevedevano l‘intervento francese al fianco del Regno di Sardegna in una guerra contro l‘Impero d‘Austria.
Il conflitto scoppia nell‘aprile 1859 e Cavour ordina l‘insurrezione generale in Lombardia, sperando invano nella diserzione dei cinquantamila soldati italiani in servizio nell‘esercito asburgico. Maggior successo ha, nei piccoli Stati dell‘Italia Centrale, l‘azione destabilizzante degli agenti sabaudi, che costringe i sovrani ad abbandonare i loro territori. L‘insufficiente contributo dell‘esercito sabaudo delude il quartier generale francese e dopo la battaglia di Solferino Napoleone III firma a Villafranca un armistizio con l‘imperatore Francesco Giuseppe d‘Asburgo (1830-1916), ottenendo la Lombardia, che poi cede al Regno di Sardegna.
La conferenza di pace di Zurigo, che stabilisce la creazione di una confederazione italiana presieduta dal Papa, sembra far naufragare definitivamente la strategia di Cavour, ma questi piani non hanno seguito e nel marzo del 1860 l‘annessione dei piccoli Stati al Regno di Sardegna è sancita da artefatti plebisciti.
Il terzo capitolo, Garibaldi e l’Unità (pp. 131-172), approfondisce il contributo del Generale alla realizzazione del progetto unitario, dalla spedizione dei Mille all‘invasione degli Stati della Chiesa. L‘esule siciliano Francesco Crispi (1818-1901), democratico, progetta una spedizione in Sicilia, già in fermento per le aspirazioni autonomistiche e per la presenza di un‘aristocrazia liberaleggiante e di «segmenti delle classi popolari […] in uno stato latente di organizzazione armata» (p. 135).
Nel frattempo la Società Nazionale si occupa dei finanziamenti — fondi consistenti giungono da New York e da ambienti massonici —, del reclutamento e delle armi: ben ventuno spedizioni porteranno in Sicilia quindicimila uomini e undicimila fucili, a bordo di navi battenti bandiera statunitense e protette a distanza dalle unità dell‘ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano (1806-1883). Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpa da Quarto e sei giorni dopo sbarca a Marsala. L‘azione militare è favorita anche dal tradimento di alcuni alti ufficiali borbonici, allettati da promesse di avanzamento di carriera fatte loro dagli agenti sardi.
A Calatafimi Garibaldi è vittorioso a causa dell‘imperizia del generale Francesco Landi (1792-1861), già cospiratore carbonaro, mentre il generale Ferdinando Lanza (1785- 1865), comandante delle forze borboniche nell‘isola, pur in posizione di forza, tratta la resa con Garibaldi, trascurando le difficoltà in cui questi si dibatte: la chiamata alle armi dei siciliani fallisce; nelle campagne regna il caos e si registrano l‘occupazione di terre e una lunga serie di violenze, fra cui il massacro di Bronte, compiuto da Gerolamo «Nino» Bixio (1821-1873) per salvare i possedimenti inglesi della Ducea di Bronte.
Francesco II, mal consigliato, concede un‘amnistia per i crimini politici, autorizza la sostituzione della bandiera gigliata con il tricolore rivoluzionario e nomina ministro di polizia il massone Liborio Romano (1793-1867). Sul continente l‘avanzata garibaldina è favorita dai grandi proprietari terrieri, spesso usurpatori di beni demaniali ed ecclesiastici, che di fronte all‘impotenza delle autorità borboniche difendono i propri possedimenti.
I soldati napoletani, spesso abbandonati dai comandanti, tentano di raggiungere le proprie case o il re Francesco II che, per evitare danni alla popolazione civile, ha lasciato la capitale e si è ritirato a Gaeta con la regina Maria Sofia di Wittelsbach (1841-1925). Garibaldi entra a Napoli applaudito dal popolo radunato dalla camorra.
Cavour, di fronte al successo della spedizione, ingiunge al Papa di congedare i ventimila volontari cattolici, accorsi dall‘Europa e dal Canada per difendere la Santa Sede, e senza attendere la risposta pontificia ordina al generale Enrico Cialdini (1811-1892) d‘invadere gli Stati della Chiesa. L‘esercito papalino è sconfitto a Castelfidardo, nelle Marche, e Ancona si arrende dopo un bombardamento navale proseguito anche dopo la resa. I montanari marchigiani e umbri insorgono contro gli invasori, che tuttavia non si arrestano e invadono, da nord, il Regno delle Due Sicilie.
Cavour decide per l‘immediata annessione del Mezzogiorno dopo un plebiscito, svoltosi con voto palese e sotto il controllo della camorra. Il 26 ottobre Garibaldi «consegna» il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e si ritira a Caprera. Il colpo di grazia alla resistenza di Francesco II è dato da Napoleone III, che ritira la flotta francese posta a protezione di Gaeta. Il 13 febbraio 1861 il re accetta la capitolazione e parte per l‘esilio.
La resistenza popolare contro gl‘invasori si estende all‘intero regno, bollata però come «brigantaggio». Con l‘intento dichiarato di non fare prigionieri, secondo gli ordini del generale Enrico Morozzo della Rocca (1807-1897), si scatena una durissima repressione. Migliaia di soldati irriducibili del Regno delle Due Sicilie subiscono la deportazione nei campi di concentramento piemontesi di San Maurizio Canadese e del forte di Finestrelle, molti la fucilazione.
La «normalizzazione» sabauda passa anche attraverso la spoliazione economica: le spese sostenute per l‘invasione sono poste a carico dei napoletani, s‘inasprisce la pressione fiscale, le industrie meridionali perdono le commesse statali, viene epurato il personale amministrativo e politico ed è introdotta la legge sarda del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Si apre la Questione Meridionale.
Il quarto capitolo, Garibaldi e il Risorgimento (pp. 173-215), descrive il ruolo del nizzardo nel processo di creazione del consenso attorno allo Stato unitario e nella formazione del «nuovo» cittadino, il suo apporto alla nascita della Questione Romana, determinata dal ridimensionamento territoriale dello Stato Pontificio e poi dalla conquista di Roma a opera del Regno d‘Italia. Il presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli (1809-1880), «[…] abbandona il modello di Stato decentrato prefigurato pochi mesi prima da [Marco] Minghetti [1818-1886]» (p. 174); viene introdotto l‘istituto del prefetto; sono limitati i ruoli decisionali dei comuni; si procede all‘unificazione dei sistemi monetari, dei codici e delle procedure giudiziarie: con l‘omogeneizzazione delle istituzioni e la creazione di un forte Stato centralista nasce anche la Questione Istituzionale.
Il partito «anti-italiano» intende non solo «fare l‘Italia» ma anche «rifare» gli italiani, sostituendo l‘ethos nazionale con un ethos estraneo alla tradizione culturale italiana (cfr. p. 176). Pure Garibaldi si fa promotore di una cultura popolare basata su una nuova religione civile, anticattolica, diffusa con «[…] la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuiscono a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa» (p. 177), ispirata ad un umanesimo di stampo massonico, che egli ha assimilato in un impressionante cursus honorum in seno alla libera muratoria.
In effetti la massoneria italiana condiziona l‘agire politico sia dei moderati che dei rivoluzionari: tutta la classe politica, la burocrazia, le forze armate, la magistratura, il mondo dell‘ istruzione ne sono influenzati; la scuola e l‘esercito sono gli strumenti usati per un‘ampia iniziativa pedagogica nei confronti della società italiana. Garibaldi diventa l‘ispiratore dei ministri dell‘Istruzione, Francesco De Sanctis (1817-1883), Michele Coppino (1822-1901) e Guido Baccelli (1830-1916), tutti affiliati alla massoneria.
L‘obbligatorietà del servizio militare, imposto anche ai chierici, è vissuta come un sopruso, che genera, in numero elevatissimo, renitenza alla leva, diserzioni e suicidi. L‘«alfabetizzazione patriottica dei ceti popolari» (p. 186) passa anche attraverso forme di sacralizzazione della monarchia e una massiccia rivoluzione toponomastica. Il Generale è oggetto di venerazione ovunque; sorgono il «partito di Garibaldi» e poi il «garibaldinismo», «termine indicante un fenomeno mentale prima che sociale» (p. 187).
In questo clima nasce il mito della Roma da liberare e da «rigenerare» perché soggetta alla «tirannia» papale. Nell‘attesa di un‘insurrezione dell‘Urbe, che non avverrà mai, fra il 1866 e il 1867 vengono soppresse moltissime istituzioni ecclesiastiche, regolari o secolari: il passaggio dei beni di oltre venticinquemila enti alla borghesia fondiaria ha fortissime ripercussioni sociali e apre la strada al proselitismo dei socialisti in vasti strati della popolazione.
La persecuzione rende i cattolici sempre più consapevoli della necessità di «[…] un’effettiva sovranità territoriale per consentire al Pontefice il libero compimento della sua missione» (p. 193), come implicitamente sostiene Papa Pio IX, nel dicembre 1864, condannando con il Sillabo due proposizioni relative al principato civile del Pontefice e alla sua libertà.
Garibaldi, che nel 1862, durante un tentativo di raggiungere Roma con i suoi volontari, era stato fermato e ferito sull‘Aspromonte in uno scontro con le forze regolari, nel 1867 irrompe nello Stato Pontificio e mette a sacco la città di Monterotondo. Nonostante uno scontro a Villa Glori e l‘attentato alla caserma Serristori, che causa la morte di ventisette zuavi, la sommossa non scoppia e a Mentana, il 3 novembre, le truppe pontificie, appoggiate dai francesi, sconfiggono i garibaldini. Papa Pio IX può convocare, l‘8 dicembre 1869, il Concilio Vaticano I; ma la conquista di Roma è solo rinviata.
Napoleone III, dopo le sconfitte subite nella guerra franco-prussiana (1870-1871), ritira le truppe che difendono Roma. Il 20 settembre 1870, l‘esercito italiano entra nella Città Eterna, aprendo una breccia a Porta Pia. Il governo di Giovanni Lanza (1810-1882), nel 1871, con la legge delle guarentigie assegna al Pontefice il possesso dei palazzi apostolici e subordina la legge della Chiesa a quella dello Stato.
I volontari garibaldini non smobilitano e soccorrono la Francia, divenuta nuovamente repubblicana, dove si distinguono per il loro anticlericalismo, che genera il risentimento della popolazione e della gerarchia cattolica. Inoltre, Garibaldi si schiera con la Comune di Parigi, dove sono compiute sanguinose violenze contro i religiosi. Queste vicende e il trionfo del Reich germanico guidato dal cancelliere Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schönhausen (1815-1898) mutano lo scenario della politica europea.
La Roma enfatizzata dai rivoluzionari precipita «improvvisamente a capitale di un regno di forza mediocre» (p. 206). Con la Sinistra di Agostino Depretis (1824-1897), al potere nel 1876, la politica anticattolica non cambia, essendo le due famiglie risorgimentali unite dalla comune finalità rivoluzionaria.
Nell‘ultimo periodo della sua vita il Generale diventa, poco credibilmente, diffusore d‘ideali pacifisti, auspica l‘avvento di una Repubblica Universale e si prodiga per la costituzione di una Lega della democrazia. Nel capitolo finale del romanzo I Mille delinea la nuova Italia e il ruolo che in essa deve essere assegnato ai sacerdoti, da impiegare, con la zappa e l‘aratro, nella bonifica delle paludi
Ciò costituisce non solo «una sorta di testamento politico, ma anche una sintesi della sua morale» (p. 213). Muore a Caprera il 2 giugno 1882.