da Il Nuovo Arengario 31 Agosto 2019
di Domenico Bonvegna
E’ una frase che gli agenti del KGB hanno urlato in faccia a Vladimir Borisov, presidente dell’Unione dei giovani indipendenti nel giugno 1969. Borisov fu internato nell’ospedale psichiatrico e a forza gli furono iniettate sostanze pericolose come la Aminazina, riducendolo allo stato di “choc”; successivamente fu sottoposto a perizia psichiatrica e venne dichiarato incapace di intendere e di volere.
Il 1 maggio 1970 Vladimir Borisov si è impiccato all’infermeria della prigione di Butyrki a Mosca. Come questo caso ce ne sono tanti altri, centinaia, migliaia di uomini e donne internati negli ospedali psichiatrici perchè invisi al sistema sovietico comunista. Esiste un libro ben documentato che tratta di questi casi, «Condannati alla follia», scritto da A. Artemova, L. Rar e M. Slavinskij, pubblicato da Garzanti nel 1972, l’ho trovato rovistando tra gli scaffali della mia biblioteca in Sicilia.
Siamo negli anni 60/70. In questo periodo il potere sovietico comunista, in modo sistematico, applica il metodo della repressione psichiatrica. Da questo provvedimento può essere colpito chiunque, per esempio, basta possedere un libro sgradito alle autorità per il suo contenuto (“detenzione di letteratura antisovietica”), e si può essere condannati al lager fino a 7 anni di reclusione.
Alla stessa pena si può essere condannati se nella corrispondenza privata e nelle lettere indirizzate alle redazioni di giornali sovietici si dichiara insoddisfazione per gli ordinamenti vigenti. «Alla stessa pena può essere inoltre condannato qualsiasi persona abbia espresso verbalmente la sua insoddisfazione nei confronti di vari aspetti della vita sovietica (“diffusione di calunnie”), o sia rea di tenere in casa scritti “faziosi” (espressione preferita dai poliziotti) sotto forma di diari, annotazioni, appunti (“stesura di letteratura antisovietica”)».
Sostanzialmente per il regime sovietico sono considerate sovversive tutte le pubblicazioni di carattere filosofico e storico edite all’estero, la maggior parte delle opere letterarie e soprattutto i libri di contenuto religioso. Pertanto «nell’Unione Sovietica, dunque, la strada che conduce dietro le sbarre è aperta ad ogni individuo pensante».
Ma perchè si è arrivati ad utilizzare questo metodo? Non bastavano quelli tradizionali: lavori forzati, prigione, confino? Secondo gli autori del libro, le autorità comuniste utilizzano l’arma della psichiatria perchè, «… probabilmente per la natura stessa del nuovo movimento contestatore che non si dichiara nemico del potere sovietico e non aspira alla conquista del potere. La difficoltà di trovare capi d’imputazione concreti non ha lasciato altra soluzione che dichiarare malate di mente le persone ostili al regime».
Questo libro contiene la prima documentazione sistematica sulla repressione psichiatrica in Unione Sovietica. Sono numerosi i casi scelti dai curatori, troviamo personaggi noti e altri meno noti. Ci sono minuziosi resoconti, racconti drammatici, testimonianze, appelli, racconti. E’ una vasta documentazione che rende il libro di grande interesse.
Il testo è completato da alcuni documenti come la lettera aperta di A. Solzenicyn e testimonianze tratte dal Samizadt (l’editoria clandestina). I curatori hanno scelto di raccontare l’internamento di alcuni uomini.
Tra quelli più conosciuti c’è il biologo Jaures Medvedev, che viene internato come schizofrenico perchè si occupa oltre che di biologia, anche di problemi politici e sociali. Altro personaggio noto è Vladimir Bukovskij, più volte internato sia nelle carceri che nei manicomi. Il testo riporta sue interviste, appelli, lettere.
Riguardo ai “pazienti” presenti in questi ospedali, scrive: «per poterli in qualche modo isolare e punire, si bollano questi individui col marchio dell’alienazione e, a guisa di malati si rinchiudono in un ospedale psichiatrico carcerario […]». All’interno operano veri e propri guardiani, carcerieri di professione, i quali indossano un camice bianco sopra l’uniforme.
Poi ci sono gli infermieri, sono dei reclusi, delinquenti comuni, che scontano la pena e spesso sfogano sui malati la loro collera, le loro frustrazioni. Il regime vigente in questi ospedali è molto simile a quello carcerario.
Interessante la testimonianza di Bukovskij: tra le sue amicizie in ospedale ha incontrato un comunista francese e uno australiano, entrambi avevano creduto alle meraviglie che gli scrittori sovietici raccontavano sulla vita dell’Unione Sovietica ed erano emigrati per conoscerla. «Disgustato dal salario in fabbrica di scarpe moldava, il francese aveva incitato gli operai allo sciopero. “Il comunismo non attaccherà mai la classe operaia che combatte per i suoi diritti,” sosteneva. Fu condannato a tre anni di manicomio».
Mentre l’australiano, deluso della vita di Mosca, aveva semplicemente chiesto di ritornare a casa. Per le sue insistenze fu rinchiuso nel manicomio di Leningrado. In questi ospedali esistevano tre tipi di punizioni, la peggiore era quella medica: iniettavano sostanze che causavano violenti crampi e febbre a 40°.
Un’altra sostanza induceva al sonno e intorpidiva il cervello. Questo per 10 giorni, ti risvegliavi ridotto allo stato vegetativo. La terza era la “fasciatura”. Il detenuto veniva avvolto strettamente in teli bagnati, dalla testa ai piedi, i teli mentre si asciugavano si restringevano; il trattamento durava due o tre ore.
Dopo Bukovskij i curatori presentano la figura di A. Esenin-Vol’pin, scienziato di fama mondiale nel campo della logica matematica. Fu arrestato per aver partecipato ad una manifestazione contro la condanna di A. Sinjavskij. Fu rinchiuso nell’Ospedale psichiatrico n.5, alla stazione Stolbovaja nei pressi di Mosca. In una lettera inviata a Solzenicyn, parla di assassinio spirituale per tutti i reclusi ingiustamente nei manicomi.
Lamenta l’impossibilità di scrivere, di avere libri o una semplice carta. «Ho l’impressione che, se la lingua nella bocca dell’uomo fosse asportabile, essa verrebbe immancabilmente tolta ai pazienti degli ospedali psichiatrici, e le ragioni addotte sarebbero di ordine squisitamente terapeutico e suonerebbero inconfutabili».
Rilevante il racconto dei curatori del libro in merito a Viktor Fajnberg: insieme ad altre persone si radunano il 25 agosto 1968, sulla Piazza Rossa per dimostrare contro l’occupazione della Cecoslovacchia. Dopo qualche secondo persone in borghese si gettano loro addosso e vengono spazzati via. Indicativo l’appello firmato da Fajnberg del luglio 1970, dall’ospedale psichiatrico speciale di Leningrado al mondo occidentale, che viene pubblicato da Bukovskij.
Fajnberg spera nell’ONU che faccia rispettare i diritti dell’uomo, inoltre spera nei lettori dell’appello affinchè si adoperino a levare la voce contro la repressione in Urss. Tra l’altro i curatori chiedono aiuto ai lettori del libro per fare il possibile per alleviare il soggiorno di Fajnberg fra le mura dell’ospedale carcerario e per affrettare la sua liberazione.
E qui sarebbe interessante aprire una amara riflessione sul cosiddetto mondo occidentale di allora, sul perchè tanti uomini di cultura, giornalisti, religiosi, in quegli anni, nonostante arrivassero queste informazioni dal gualg sovietico, non hanno mosso un dito per la liberazione di tanti dissidenti schiacciati sotto il tallone comunista.
Nell’appello Fajnberg descrive dettagliatamente la vita all’interno degli ospedali. Appena arrivi i medici fin dal primo contatto ti pongono un’alternativa: o l’internamento a tempo indeterminato o il rinnegamento delle proprie convinzioni. Chissà che cosa avrebbero scelto tanti nostri politici italiani del giorno d’oggi.
Anche Fejnberg racconta delle continue percosse subite dai detenuti, facendo nomi e cognomi di chi le subisce. «Qui l’avanzamento di carriera dei guardiani e degli inservienti è direttamente proporzionale alla quantità e alla “qualità” delle “imprese manesche” da essi compiute».
Inaspettatamente nel febbraio del 1971 Fejnberg viene dimesso e gli viene concesso il visto per andare in Israele. Altri nomi conosciuti che hanno subito le “cure” di queste “psicocliniche speciali” sono la poetessa Natalja Gorbanevskaja e il vecchio generale Petr Grigorenko.
Anche per questi internati il libro offre abbondanti racconti e documentazione dei loro processi e dei referti medici. Avviandomi verso la conclusione reputo interessante qualche altra scheda di dissidenti “curati” dal KGB sovietico.
Al filologo Ju. Mal’cev impediscono di emigrare in Italia ed egli intende rinunciare alla cittadinanza sovietica, perchè non gli è consentito di svolgere il suo lavoro di letterato. Qui in Urss sono condannato alla morte spirituale, afferma Mal’cev. Come poteva finire uno come Mal’cev che rifiuta il paradiso comunista?
Come tutti gli altri, al settore n.5 dell’ospedale psichiatrico Kascenko. Altro caso interessante è quello dello scultore Michail Aleksandrovic Narica, ex recluso dei campi di concentramento sovietici, che fece pervenire in Occidente un suo racconto autobiografico e addirittura una copia la inviò a Chruscev.
Nel dicembre del 1961 le autorità lo dichiararono infermo di mente e lo trasferirono per “accertamenti” in un ospedale carcerario. Narica ha una storia particolare, subisce l’aggressione dei vicini. Viene dichiarato pazzo e quindi internato.
Un altro racconto interessante riguarda lo scrittore Valerij Jakovlevic Tarsis. Anche lui racconta lucidamente la sua odissea e quella degli altri reclusi negli ospedali. Divide le cliniche dove vanno a finire gli oppositori in tre categorie.
Tra quelle più penose c’è la “Belye Stolby”, situata a una cinquantina di chilometri da Mosca. Intorno mura altissime e filo spinato. La popolazione del reparto di isolamento si aggira sulle venti-venticinquemila persone. Tarsis racconta altri particolari metodi repressivi adottati in questi luoghi, che lui stesso ha osservato.
La solita aminazina viene somministrata anche per via rettale se il paziente si rifiuta di prenderla per via orale o intramuscolare. Così per mesi interi il paziente non può più sedersi. Tarsis afferma che la categoria più numerosa presente negli ospedali erano i giovani che protestavano nelle università. Il 70-75 per cento, la cui età non superava i 23 o i 24 anni. Eppure si sentiva che la gioventù rappresenta il nostro avvenire, che ama Lenin e sta con i comunisti.
Qualche professore sapientone, sosteneva che certe malattie psichiche si diffondono soprattutto tra i giovani. Una grande percentuale di questi giovani si vota al suicidio o almeno lo tenta. Tarsis descrive anche i grossi privilegi che ha la nomenklatura comunista. Qui enumera diversi casi, come quello del capo del distretto che andando in vacanza a Soci aveva dimenticato il gatto nella villa, e così fa decollare un aereo per riportare il gatto dimenticato.
In altri documenti che ho letto emerge un’assoluta similitudine tra i metodi repressivi dei sovietici comunisti e quelli dei nazisti delle SS. Entrambi usavano la medicina per scopi repressivi. Però a Norimberga i nazisti sono stati processati, anzi nel libro si accenna che ancora alcuni li stanno cercando, mentre per i sovietici dopo la caduta del Muro, ancora si aspetta che qualche tribunale si prenda cura di loro, prima che sia troppo tardi.
Un’ultima considerazione. Qualche settimana fa leggendo un articolo su La Verità, ho appreso che un papà, da un giorno all’altro, ha perso la possibilità di vedere liberamente i figli: la mamma glieli ha portati via, dopo l’ennesimo litigio, è andata a vivere con il compagno ateo e comunista.
Per farla breve, i servizi sociali di Genova ritengono il papà un estremista perchè dice le preghiere e vota Lega, quindi può vedere i propri figli soltanto un’ora e in presenza degli assistenti. Certo non siamo come in Urss dove si era internati con facilità, ma ci manca poco. Il papà genovese non viene ancora internato ma viene ritenuto un pericoloso estremista, quindi bisogna stare attenti, chissà se tra un colloquio e l’altro insegni qualche preghiera ai propri figli…