Principi del diritto penale e certezza del senso comune (parte I)

lexdal sito di Alleanza Cattolica (www.alleanzacattolica.org)

di Mauro Ronco

1. Universalità del diritto naturale delle genti

In molteplici passi delle sue opere Gianbattista Vico contrasta le opinioni di Hobbes, Grozio e Pufendorf, additando agli studiosi del suo tempo un fondamento e una strada di ricerca tutt’affatto diversi rispetto a quelli che la filosofia e la scienza del diritto avrebbero percorso nell’epoca della modernità sulla scia di tali Autori.

Particolarmente istruttivo tra i molti sembra il rilievo che Vico muove a Grozio nel Libro I Sezione IV ( Del metodo ) della Scienza Nuova Seconda, ove, rimarcata l’attitudine dell’Autore del De iure belli ac pacis a combattere i giureconsulti romani quasi a riguardo di ogni singolo profilo del diritto naturale delle genti, conclude criticamente che, però ” […] i colpi tutti” di Grozio “cadono a vuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giusto sopra il certo dell’autorità del genere umano, non sopra l’autorità degli addottrinati“.

E’ possibile comprendere il significato e la portata della critica mossa da Vico a Grozio soltanto tenendo conto che scopo dell’opera del grande Autore napoletano fu di rintracciare nella storia dell’umanità il filo che congiunge le prove filosofiche con le prove filologiche, cioè propriamente ermeneutiche: tra esse corre un circolo di reciproca illuminazione, poiché l’autorità delle prove filologiche trova conferma nella ragione delle prove filosofiche, e questa riceve a sua volta conforto dall’autorità di quelle, secondo quel processo di reciproca integrazione espresso dall’assioma per cui factum et verum convertuntur.

Prestando seriamente attenzione ai reperti documentali provenienti dalla cultura greca e dal diritto romano, con bella espressione definiti “[…] i grandi frantumi dell’antichità” , Vico cerca di cogliere nell’opera tramandata, con la pietas che è giusto riservare ai padri comuni in umanità, il senso che in essa si ritrova, cosciente, da un canto, che la spiritualità del creatore è diversa da quella dell’interprete, ma consapevole, da un altro canto, che creatore ed interprete posseggono la capacità di comunicare tra loro in virtù della comune umanità.

Come ha osservato Emilio Betti a proposito del processo interpretativo in generale, l’opera foggiata dall’autore, trascendendo gli immediati bisogni della vita quotidiana, non è fine assoluto a se stessa, ma è “[…] forma rappresentativa, essenzialmente destinata, come ogni altra, a fungere da arco di mediazione da spirito a spirito“, e il cui punto di “più alto interesse ermeneutico” sta nel fatto che essa, una volta uscita dall’artefice, “non appartiene più a lui, ma diviene proprietà noetica di tutti coloro che partecipano alla comunione di spiritualità ove l’opera si inserisce… di coloro che siano in grado di raccoglierne il messaggio e di penetrarne il senso“, secondo una legge di acquisto e di distribuzione dei beni spirituali di genere tutt’affatto diverso da quella relativa ai beni materiali, per cui i primi, a differenza dei secondi, tanto più si accrescono quanto maggiore è il numero dei loro fruitori.

L’opera oggettivata è veicolo di spiritualità tra uomini che, pur appartenendo a epoche lontane, comunicano sul presupposto della comune umanità e procedono insieme in un itinerario di arricchimento spirituale, per cui dal deposito della tradizione si ricavano sempre nova et vetera, cose nuove e cose antiche.

Nella certezza, propria del senso comune, che, pur attraverso le trasformazioni culturali, la mente umana sia essenzialmente identica a se stessa, in quanto partecipe della medesima capacità di conoscere la realtà e se stessa inserita in tale realtà, sta il grande messaggio della Scienza Nuova, secondo cui, come è scritto all’inizio dello stabilimento dei Princìpi, essendo questo mondo civile certamente stato fatto dagli uomini, allora ” […] se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana“: ove per “modificazioni” vanno intesi (giusta la Degnità XV, n. 148) i modi di essere e gli atteggiamenti con cui questa mente è nata.

Sì che con molta precisione ha osservato Betti che tale assioma costituisce un cardine di tutta la teoria dell’interpretazione, consistente nell’inversione dell’iter genetico nell’iter ermeneutico, per cui è legittimo e fecondo trascorrere dal mondo civile storicamente formato all’energia creativa della mente umana nei suoi vari atteggiamenti e modi di essere, secondo una corrispondenza tra il fare demiurgico dell’uomo nella storia e il posteriore riconoscere ermeneutico.

Tale analogia, peraltro, suggerisce a Vico l’accostamento dell’operare umano all’operare divino “[…] perocché in Dio il conoscere e il fare è una medesima cosa”, secondo una prospettiva, opposta a quella panteista, da ricondursi a fonti cristiane, che Betti indica espressamente nell’insegnamento di San Paolo nell’epist. ad Rom., 8, 16, che, cioè, lo stesso Spirito fa fede al nostro spirito che noi siamo figli di Dio.

Vico cerca di cogliere nel corso delle vicende dell’umanità, attraverso la definizione filologica di ciò che è tipico, i princìpi del vero su cui si fonda il diritto universale delle genti. Il metodo è opposto a quello delle moderne filosofie immanentistiche della storia che, sulla scia del grande disegno di Herder (), hanno preteso di utilizzare la storia a conferma di uno schema preconcetto nel quale protagonista è lo sviluppo dello spirito che si autocrea e si realizza nel mondo.

A questo principio, che predica la conoscibilità del reale storico, siccome fatto da uomini capaci di comunicare alle generazioni future il senso di ciò che essi hanno compiuto, in quanto v’è un vero universale ed eterno che costituisce il comune fondamento del conoscere, si aggiunge un secondo principio, non meno importante del primo e a esso connesso, secondo cui le idee comuni a tutti i popoli e ricorrenti in ogni tempo esprimono verità permanenti.

Possono tali verità essere celate sotto veli espressivi più o meno spessi; possono essere frammiste e quasi sfigurate da interpretazioni false o persino mostruose; possono essere accompagnate da prassi attuative grossolane, crudeli e ignobili; eppure tali verità costituiscono la sostanza incorruttibile e il sostegno inconcutibile della vita dell’umanità, il cui rifiuto o la cui dimenticanza porterebbero il mondo allo stato selvaggio o addirittura lo sprofonderebbero nell’abisso del nulla.

Il diritto naturale delle genti è fondato sul senso comune del genere umano, che la Degnità XII definisce luminosamente come “[…] giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano“. E poiché, alla stregua di tale senso comune, ciascun popolo in qualsivoglia tempo è capace di percepire con l’intelligenza le verità indispensabili al vivere in società secondo il bene che è a tutti comune, allora può comprendersi ciò che afferma la Degnità XIII, secondo cui “Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero“.

E’ compito della scienza storica, pertanto, ricercare con pazienza filologica ciò che è stato fatto dagli uomini, per verificare ” […] in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni“.

La scoperta vichiana, fondata sull’intuizione di un senso comune a tutta l’umanità, come ambito di certezze che derivano direttamente dall’esperienza in quanto tale, non mediate da una riflessione culturalmente condizionata, connaturali all’intelligenza umana e, dunque, universali nel tempo e nello spazio, si arricchisce filologicamente con la constatazione che ” […] tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate…” custodiscono sempre ” questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti…”.

Questi costumi, per essere comuni a tutti i popoli in ogni tempo, esprimono un principio universale ed eterno di vero che rivela la missione affidata all’umanità dalla Provvidenza divina. Per quanto, infatti, il mondo umano non risponda ad alcuna necessità intrinseca a Dio, ma sia stato da Lui creato in un tempo particolare con un atto liberissimo di amore ( e ciò vale contro ogni immanentismo e panteismo), tuttavia i princìpi che Dio ha posto nel mondo sono universali ed eterni, sì che nella storia l’umanità realizza, seppure oscuramente, una missione provvidenziale volta a conseguire “[…] un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini”.

Laonde” conclude Vico “cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch’ella v’ha posto sono universali ed eterni“.

Gli ordini universali ed eterni messi dalla Provvidenza nel mondo valgono come princìpi della giurisprudenza, che è, secondo la definizione di Ulpiano, in primo luogo ” […] divinarum atque humanarum rerum notizia” e soltanto poi ed in conseguenza di ciò “justi atque injusti scientia“.

Il senso comune dell’umanità, senza riflessione alcuna, è in grado di percepire intellettualmente tali princìpi. Essi provvedono alla conservazione del genere umano in vista del conseguimento del suo fine, che è la stessa immensa bontà di Dio, infinitamente superiore al bene intravisto dai singoli uomini come fine particolare delle loro azioni. Nella storia i princìpi della giurisprudenza civile sono traccia o segno della presenza di Dio trascendente: la scienza storica deve perciò essere ” […] una teologia civile ragionata della provvedenza divina“, che svolge una ” […] severa analisi dei pensieri umani d’intorno all’umane necessità o utilità della vita socievole, che sono i due fonti perenni del diritto natural delle genti“.

Esso è costituito dalle consuetudini nate presso tutti i popoli ed in ogni tempo ” con essi costumi umani usciti dalla natura comune delle nazioni” : diritto non ordinato con legge, ma connaturato alla natura umana, che è intrinsecamente socievole, poiché da essa sono usciti i costumi che reggono giuridicamente il vivere civile. Tali costumi, per quanto corrompibili e spesso corrotti e deformati, non sono intrinsecamente ingiusti, poiché ” […] l’uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole“. Sì che alla base dei costumi giuridici giusti v’è la libertà dell’arbitrio, aiutato però dalla Provvidenza divina, senza cui l’umana libertà è incapace di realizzare le opere buone.

Libertà e responsabilità dell’uomo, per un verso, e Provvidenza divina, per un altro, si incontrano nella storia dando vita alle civiltà: se il loro incontro è misterioso, non meno certi al senso comune sono tanto la libertà e la responsabilità dell’uomo, quanto l’ordine morale che costituisce il dinamismo finalistico dell’ordine cosmico, quanto Dio come Causa prima e Fine ultimo, cui la società umana e tutto il divenire cosmico fanno capo come a loro Principio.

E’ straordinariamente significativo osservare che i fondatori del diritto naturale moderno mettono in dubbio al contempo la libertà e la responsabilità dell’uomo, con il finalismo dell’ordine cosmico (in particolare a partire da Hobbes) e la Provvidenza divina, a partire almeno dall’etsi daretur di Grozio, in una negazione simultanea delle evidenze primordiali del senso comune del genere umano: sì che a buon diritto e con acribia Vico rimprovera essenzialmente ai fondatori del diritto naturale moderno di aver pretermesso tanto la Provvidenza divina quanto le testimonianze dei popoli: sull’una e sulle altre, invece, avrebbero dovuto fondare i loro sistemi, e così ” […] convenire coi romani giureconsulti, che definiscono il diritto natural delle genti essere stato dalla divina provvidenza ordinato“.

In realtà, al contrario di ciò che afferma ogni forma di volontarismo giuridico, v’è stretta analogia tra conoscenza del vero e volontà del giusto. L’uomo, socievole per natura, comunica agli altri uomini “[…] per communes veri aeterni notiones” ed è dotato della parola, affinché, giovandosi dello stesso corpo che, per la sua finitezza , è segno della separazione tra gli uomini, “possit cum aliis rationem et verum communicare“.

La natura lo ha formato in tal guisa che egli pervenga al suo fine vivendo in società e in virtù del diritto , di cui è causa l’onestà, mentre l’utilità ne è soltanto l’occasione (“Utilitas occasio, honestas est caussa iuris et societatis humanae”). L’utilità non fu madre del diritto, come non lo furono la necessità, il timore e il bisogno , bensì la semplice occasione “[…] per quam homines, natura sociales et originis vitio divisi, infirmi et indigi ad colendam societatem, sine adeo ad celebrandam suam socialem naturam reperentur“.

Allo stesso modo in cui il corpo non è la causa, ma l’occasione per cui nella mente viene a promuoversi l’idea del vero, “[…] ita utilitas corporis non est caussa, sed occasio ut excitetur in animo voluntas iusti” .

Le sfere del vero e del giusto si implicano l’una con l’altra in un circolo di reciproca inerenza coessenziale, così che, giusta la formula di Varrone , confessata da Vico come “initium” del suo scrivere, l’idea del vero è la “formula naturae”quae nobis dictet ius naturale”.

2. La pena retributiva segno di un principio universale di giustizia civile

Anche in relazione al diritto punitivo occorre ricercare quell’idea veri che, pur nel cambiamento dei fatti e nel diverso affollarsi delle occasioni di utilità, costituisce il tessuto permanente della giustizia dell’ordinamento. E’ ciò che tenterò di tratteggiare, con timore e tremore, nelle pagine seguenti.

Tra le consuetudini non ordinate con legge, ma uscite dalla comune natura delle nazioni v’è la sanzione penale retributiva, che prevede sia applicata al colpevole del crimine una pena conveniente commisurata alla sua gravità.

Già nel secolo scorso L. Günther, nella monumentale opera Die Idee der Wiedervergeltung in die Geschichte und Philosophie des Strafrechts, aveva mostrato, facendo seguito, tra gli altri, agli studi di B.W. Leist sulla storia giuridica delle popolazioni greco-italiche (), che l’idea della retribuzione sta al centro delle esperienze giuridiche riguardanti tutte le antiche nazioni, senza che le specificità caratterizzanti la punizione penale presso ciascun popolo intacchino un forte nucleo retribuzionistico a tutte comune.

L’esame comparato delle consuetudini penali praticate dagli antichi consente di mettere in luce che più elevato è il livello di autoconsapevolezza critico-riflessiva di un popolo sulle proprie istituzioni, più spiccato e più puro è il senso retributivo assegnato alla pena dalla coscienza collettiva, siccome meno intriso di elementi di convenienza utilitaristica.

Prima di procedere a qualche esemplificazione, preme sottolineare che il senso retribuzionistico assegnato alla pena dagli antichi è complesso e ricomprende una pluralità di risvolti, come più sotto si cercherà di dimostrare, sì da non poter essere compreso rettamente assumendo la retribuzione nell’accezione laicizzata, come è intesa dai moderni a partire dall’opera di Hegel, che, distaccando la pena dal riferimento a una moralità fondata sulla trascendenza dell’essere, ha per ciò stesso compromesso la legittimità etica della retribuzione penale.

In questo intervento svolgerò qualche considerazione relativa esclusivamente a talune consuetudini giuridico-penali degli antichi israeliti, come risultano dai libri mosaici, nonché agli aspetti più evidenti del diritto penale vigente presso gli antichi greci e romani.

Volgendo lo sguardo al diritto degli antichi israeliti, estremamente numerosi sono i passi dell’Antico Testamento in cui appare evidente il senso retribuzionistico della pena, come “vendetta” che viene doverosamente esercitata nei confronti di chi ha perpetrato l’ingiustizia. Particolarmente importante è l’istituto del vendicatore del sangue, presente nei libri mosaici, come in molte altre culture. Chi ha provocato volontariamente la morte di un uomo, cade in potere del vendicatore del sangue, parente prossimo dell’ucciso, che lo deve uccidere nello stesso modo in cui egli ha ucciso la sua vittima.

In Num. 35, 16-21, dopo la previsione delle città rifugio per coloro che hanno ucciso involontariamente, è detto: “16. Ma se uno colpisce un altro con uno strumento di ferro e quegli muore, quel tale è omicida; l’omicida dovrà essere messo a morte…19. Sarà il vendicatore del sangue quegli che metterà a morte l’omicida, quando lo incontrerà lo ucciderà…”.

Il dovere del vendicatore del sangue è sacro, perché risponde a una fondamentale esigenza di purificazione religiosa, onde evitare che la colpa ricada sul popolo, come è detto nei passi successivi: “31. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida reo di morte, perché dovrà essere messo a morte.. 32. Non accetterete prezzo di riscatto che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di rifugio e di tornare ad abitare nel suo paese fino alla morte del sacerdote. 33. Non contaminerete il paese dove sarete, perché il sangue contamina il paese, non si potrà fare per il paese alcuna espiazione del sangue che vi sarà stato sparso, se non mediante il sangue di chi l’avrà sparso. 34. Non contaminerete dunque il paese che andate ad abitare e in mezzo al quale io dimorerò; perché io sono il Signore che dimoro in mezzo agli Israeliti“.

Lo spargimento del sangue richiede la vendetta del sangue, come è detto in Gen. 5-6 con espressione che inaugura il nuovo ordine del mondo dopo il diluvio, giacché l’uomo è icona di Dio: “5. Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. 6. Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo. E voi, siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela“.

In Es. 21, 12-17 è prescritta la pena della morte per colui che ha volontariamente ucciso un uomo, nonché per colui che ha percosso o maledetto il padre o la madre o per colui che ha rapito un uomo allo scopo di venderlo.

In Lev. 24, 10-23 è pronunciata, nello stesso contesto dell’episodio concernente il bestemmiatore condotto fuori dall’accampamento e lapidato da tutta la comunità per la sua colpa, la legge del talione. Come deve essere punito con la morte colui che maledice il suo Dio, così merita la morte chi uccide il suo prossimo: ” 17. Chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte…19. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro“.

In Deut. 19, 1-21 vengono ribaditi, in un ampio contesto che sottolinea la rilevanza del profilo intenzionale della condotta e la garanzia della salvezza per chi ha agito involontariamente e senza aver odiato la vittima, tanto la legge del talione (“21. Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede“), quanto l’istituto del vendicatore del sangue (“12. Gli anziani della città lo manderanno a prendere di là e lo consegneranno nelle mani del vendicatore del sangue perché sia messo a morte“).

Pur non potendo qui esaminare il tema nei suoi aspetti particolari, occorre tuttavia sottolineare, a riscontro del fatto che alla rigorosa disciplina è estraneo ogni finalismo general-prevenzionistico, che, allo stesso modo in cui è prevista l’indagine sull’intenzionalità della condotta, con la salvaguardia di chi ha agito involontariamente, ugualmente è esclusa la propagazione della vendetta nei confronti dell’innocente, pur legato al colpevole da vincoli parentali. In Deut. 24, 16 è detto infatti: “Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato”.

Per quanto attiene all’esperienza giuridica greca, conviene anzitutto ricordare che nell’età degli eroi, di cui rappresenta un’eco la letteratura poetica pervenutaci, la vendetta compensatrice erogata in guisa di retribuzione appare come qualcosa di grande e di buono, che i prossimi parenti dell’ucciso o la vittima stessa dell’ingiustizia coltivano come il loro più sacro dovere.

Come Esiodo nella Teogonia, così Omero nell’Odissea mettono in evidenza che tanto gli dèi, quanto gli uomini esercitano la punizione sui colpevoli attraverso il contrappasso. In Eschilo, forse, il dovere della vendetta assume il carattere più sacro, tanto che Jo. Kholer, nella sua acuta lettura della tragedia shakespeariana di Hamlet, ha potuto con buona ragione dire che le Coefore di Eschilo “[…] sind das hohe Lied der Blutrache, die Verherrlichung des rächenden Sohnes, der die grollenden Manen des gemordeten Vaters beruhigt“.

Apollo ha comandato ad Oreste la vendetta come dovere sacro, minacciandolo di amari tormenti ove egli avesse trascurato di esercitare il giusto castigo sull’assassino del padre: ” No, certo non può tradire la dura, poderosa voce dell’Obliquo. Suo è il comando di varcare questo passo rischioso. Parole mi leva all’orecchio taglienti: ghiacciate perdizioni minaccia, sul mio cuore di febbre, se non mi aggrappo a chi colpì mio padre, con identico scatto. “Morte a compenso di morte” chiaro mi dice! Se no, un caro prezzo mi costava: la vita! Tra una folla di amari tormenti! E io, rabbia di toro a infliggere pene che nessuna taglia cancella”.

Morte infatti esige morte ed è la giustizia a reclamare il suo saldo, come il coro proclama: “Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpìVoce di detto millenario. E a Elettra che invoca giustizia le Coefore rispondono: “Lascia! E’ già legge; sangue che goccia, chiazza la terra, è richiamo di sangue. Delitto strepitando attira Vendetta: lei, pronta -spira da quelli uccisi in passato- ammucchia a perdizione fresca perdizione”.

In Atene classica, poi, i fondamenti della repressione penale non sono affatto mutati, relazionandosi strettamente con la nozione dell’impurità (miasma) e dell’esigenza vendicativa della sua purificazione. Come ha notato E. Karabélias in La peine dans Athènes classique ciò che veramente rende necessaria la pena è l’esigenza di eliminare dallo spazio civico l’impurità provocata dal comportamento delittuoso: “L’espace civique souillé par l’acte délictueux doit être purifié par le moyen d’une peine qui possède la vertu de faire enlever la souillure provoquée par le comportement qui offense le citoyen, la polis, le mort, la morale civique, la religion”.

Le nozioni dell’impurità e della purificazione si ritrovano in ogni manifestazione della repressione penale. Ciò vale per la punizione dell’ omicidio, del sacrilegio (’´agos) provocato dal tradimento, per il regicidio, per il parricidio, per l’omessa sepoltura di un morto, per la violazione del diritto d’asilo, per l’adulterio, che crea interdizioni gravi tanto per l’uomo quanto per la donna, per la prostituzione maschile, la cui conseguenza è il rigetto dalla società.

La pena applicata rivela un contenuto catartico. Così è per l’’atimia, consistente nella privazione o sospensione dei diritti civili e del prestigio sociale (timh¢) del condannato, per cui costui si vede impossibilitato a esercitare i suoi diritti ed escluso dalla partecipazione alla vita civica e religiosa, come se la Città gli avesse ritirato la sua protezione. Lo stesso ostracismo, pena “politica” per eccellenza, irrogato dall’Assemblea, senza alcuna previa procedura giudiziaria, che colpisce colui che per ’´ubriV ha suscitato la gelosia (jfónos) del corpo sociale, ha carattere purificatorio, giacché l’esilio purifica la dismisura manifestata dall’ostracizzato .

Il procedimento, infine, previsto per l’irrogazione della pena è modellato sul concetto della vendetta pubblica e privata, come dimostra l’area semantica dei termini che caratterizzano la penalità: timwria, timwros, timwrein, timwreisqai, tutti a forte valenza religiosa, soprattutto per ciò che riguarda l’omicidio, che evocano la vendetta del sangue.

Se è vero che Solone interdisse formalmente la vendetta privata, il cittadino esercitava ugualmente la vendetta provocando con una ¶ikh jonou l’intervento della giustizia cittadina, adempiendo così agli imperativi morali derivanti dalla solidarietà familiare. Le modalità procedurali di tipo accusatorio, a carattere fortemente antagonistico, in assenza della figura del pubblico ministero, in cui la pretesa alla punizione è reclamata avanti ai giurati (héliastes) dagli accusatori privati, sottolineano ed accentuano il carattere vendicativo della giustizia penale in Atene classica.

Il sommo filosofo Platone condivide la concezione della pena come dovere rigoroso di giustizia derivante dall’esigenza di purificare lo spazio sociale contaminato dal delitto. I fraintendimenti moderni del pensiero di Platone sulla pena, peraltro sulla scia della superficiale classificazione di Aulo Gellio in Noctes Atticae 7, 14, 1 ss., hanno voluto fare di Platone di volta in volta un sostenitore della prevenzione speciale (alla stregua di una lettura approssimativa di un passo del Protagora) o della prevenzione generale ( alla stregua di una lettura altrettanto approssimativa del passo del Gorgia citato da Aulo Gellio).

In realtà, la profondità della riflessione di Platone, che non nega, bensì riafferma la concezione della vendetta purificatrice, cerca di cogliere, mediante la dialettica del discorso filosofico, il significato della pena come bonum per il reo, in quanto via anche per la sua salvezza e redenzione: significato che le mitologie evidenziavano icasticamente, senza però essere in grado di spiegarne in modo razionale il fondamento e la portata.

Egli, in altri termini, ha posto le basi concettuali, soprattutto nel fondamentale passo del Gorgia, in cui rivolgendosi a Polo, afferma che l’infelicità di chi commette ingiustizia è ancor più grande se egli non sconta la pena e non riceve la punizione dell’ingiustizia, per il riconoscimento razionale che la pena contiene intrinsecamente un valore medicinale per il colpevole.

In ogni caso però, la concezione della pena come doverosa retribuzione per il maleficio compiuto, onde non sia contaminato lo spazio della città, sta in primo piano nel pensiero di Platone ed è espressamente proclamata in Leggi, IX 871: “Chi con premeditazione e senza legittimo motivo di sua mano uccide un suo concittadino, innanzi tutto si tenga lontano dai pubblici luoghi, e non contamini i templi, l’agorà, i porti, né alcuna altra riunione pubblica, glielo vieti qualcuno oppure no -ché la legge lo vieta, e poiché la legge glielo vieta a nome di tutto lo stato, essa è e sarà sempre a lui manifesta- e se qualunque parente del morto, sia da parte maschile sia da quella femminile, fino al grado di cugino, pur dovendolo, non cita in tribunale l’omicida, o non gli vieta di astenersi dalla vita pubblica, innanzi tutto sopra lui ricadrà la macchia del delitto e l’odio degli dèi, come indica la sentenza della legge; in secondo luogo sarà obbligato a comparire in giudizio se qualcuno voglia vendicare il morto. Chi voglia compiere tale vendetta, perfettamente eseguisce tutto ciò che va fatto relativamente ai sacrifici espiatori e a tutto ciò che prescrive la divinità in simili circostanze; quindi, fatta la dovuta citazione in tribunale, costringa il rea a sottoporsi, conformemente alla legge, all’azione della giustizia” .

I medesimi concetti sono espressi nel Politico, 293, ove, parlando della costituzione retta, Platone dice che sono giusti reggitori coloro che rendono lo stato per quanto possibile migliore da peggiore che fosse esercitando la giustizia e purificando lo Stato tramite l’uccisione o l’espulsione dei cittadini malvagi, e 309, ove dice che l’arte regia o politica, scaccia dallo Stato con la punizione della morte, dell’esilio o dell’estremo disonore coloro che “[…] non sono in grado di partecipare di un costume di vita valoroso e saggiamente temperante e di quant’altro c’è che tende alla virtù, ma sono respinti verso l’ateismo, la sregolatezza, l’ingiustizia dalla violenza di una natura malvagia” .

Anche il più antico diritto romano rivela che l’idea guida ispiratrice della pena era la vendetta restauratrice e purificatrice. Non essendo qui possibile addentrarsi nell’esame delle fonti, in particolare delle XII Tavole, ove espressamente è fatta menzione del talione per il membrum ruptum ed è manifesta la funzione satisfattoria della pena per le varie ipotesi di furto, è opportuno soffermarsi un poco sulla sacratio capitis, consistente nell’abbandono del reo alla divinità, prevista ancora in epoca storica per i crimini politici di particolare gravità, ove è meno evidente rispetto alle altre pene il profilo vendicativo, tanto che qualche Autore ha voluto individuare nella sacertà, oltre che nella consegna nossale, uno stadio punitivo anteriore a quello della vendetta, contrapponendo così tra loro due fasi distinte dello sviluppo sanzionatorio .

Carlo Gioffredi, pur riconoscendo che nella sacratio capitis è meno evidente la funzione di vendetta, ha ritenuto che la devoluzione agli dèi, nei casi in cui un crimine sia costituito dal sovvertimento delle istituzioni cittadine e dal passaggio al nemico, non rappresenti soltanto un abbandono del reo alla vendetta della divinità, ma anche una esplicazione della vendetta della comunità, un compenso al turbamento ed al pericolo provocato, nonché un atto di difesa, secondo una pluralità di valenze e di significati propri della funzione penale.

Per inquadrare correttamente il problema credo sia utile prendere lo spunto dall’intuizione di Rudolf von Jhering, secondo cui la sacertà originaria non era tanto una pena, quanto la condizione di separazione del colpevole dagli dèi e dagli uomini insorta per lo stesso fatto del delitto. A causa di esso il colpevole perdeva ogni comunione con la divinità e la comunità; egli era escluso da ogni rapporto con loro definitivamente, a meno che non avvenisse una purificazione riconciliatrice.

Quale uomo impuro egli non poteva compiere sacrifici alla divinità (Festo, sub voce sacer…neque fas est eum immolari); da tutti era sfuggito e a chiunque era permesso di ucciderlo. Non poteva partecipare con gli altri ai beni della comunità, senza contaminarli, e tra questi principalmente all’acqua ed al fuoco, simboli della purezza, sì che la comunità ne decretava l’espulsione con l’aquae et igni interdictio.

La separazione dalla comunità è al contempo impurità religiosa, sì che -come rimarca Jhering- “[…] il fuoco e l’acqua, simboli della purezza, non poteva essere che mancassero in qualunque atto rivolto a fondamentare un sodalizio avente rispetti religiosi, verbigrazia nei sacrifizi che congiungono Iddio agli uomini nel concludere le nozze, le alleanze e simili. Laonde la patria non sottrae queste cose al delinquente fuggitivo, perché elle siano gli elementi indispensabili alla vita, come si pensa comunemente; ma bensì a mezzo di codesti simboli di una comunanza intemerata, lo si discaccia dalla società che egli contaminerebbe con la sua presenza. Tutto ciò che egli abbandona si avoca al tempio e si destina al culto degli iddii, e la comunanza ripudiando per tal modo così la persona come la sostanza del malfattore, può aspettarsi con fiducia dagli iddii che non richiedano da essa l’espiazione del debito di uno di essi“.

La prospettiva concettuale va, dunque, rovesciata: la sacertà non è la pena con cui la comunità priva taluno di alcuni beni, bensì lo status ontologico di assoluta privazione dell’uomo impuro per la colpa, che ha perso la comunione con la divinità e perciò con gli altri uomini e, dunque, è abbandonato agli dèi inferi. La pena, invece, è la via che consente la purificazione e, dunque, la riconciliazione: anche la morte inflitta come pena contiene quel germe di riconciliazione in grado di purificare la società e lo stesso colpevole.

Anzi, la pena è essa stessa una purificazione, come l’etimologia del termine utilizzato per designarla rivela: la voce poena accenna all’idea di purezza; castigatio è castum agere, per cui si purifica l’incasto, l’immondo; luere, in particolare nella frase poenas luere, esprime il significato di lavare, purgare (lustrum, lustratio, lustricus); supplicium, la pena capitale, etimologicamente significa placamento degli dei (subplacare, supplex).

Tenendo conto dell’indistinzione originaria tra la dimensione religiosa, quella psichica e quella fisica, vissute in modo unitario nell’esperienza del mondo caratteristica della mentalità mitica e pre-riflessiva e considerando che il linguaggio realizza, secondo la geniale intuizione di Mircea Eliade, una frattura verticale lungo i piani orizzontali dell’essere, la sacertà dovette esprimere, come ha sostenuto Giampaolo Sabbatini, un significato specifico per ciascuno dei piani dell’essere: a) sul piano fisico e materiale, essa significava separazione irrimediabile dalla compagine sociale; b) sul piano psichico, significava sentimento morale di essere reietto dalla società o sacrificato per essa; c) sul piano religioso, appartenente agli dèi (infernali o superi).

In epoca storica residua quest’ultimo significato, che tende ad esprimere non più lo stato ontologico di chi è ormai privato, per il fatto stesso del delitto, della comunione con gli dèi e con gli uomini, bensì la conseguenza sanzionatoria del delitto commesso, ove la causalità umana viene proiettata sul decorso degli avvenimenti in guisa di spiegazione di un avvenimento misterioso: non si è sacri (cioè separati e consacrati alla divinità) perché colpevoli, bensì sacri in quanto condannati siccome colpevoli.

Se si vuole, poi, trovare la prova storica, oltre quella etimologica, che la pena non consiste nella sacertà, bensì è la purificazione di tale stato, occorrerà rievocare l’episodio dell’Orazio superstite che uccide con la spada la sorella piangente la morte di uno dei Curiazi, cui era fidanzata. Racconta Livio che il giovane condannato dai duumviri per il reato di alto tradimento, ormai prossimo all’esecuzione capitale, si appellò al popolo, che l’assolse, dopo la perorazione del padre “…admiratione magis virtutis quam iure causae“.

Tuttavia il delitto non potè non essere espiato, per intrinseca necessità civile e religiosa, tanto che fu ordinato al padre di fare un sacrificio espiatorio per il figlio a spese pubbliche (“itaque ut caedes manifesta aliquo tamen piaculo lueretur, imperatum patri ut filium expiaret pecunia publica“).

Il delitto postula la necessità di purificazione; la pena è la via che riscatta la colpa e riconcilia il colpevole con la divinità e la comunità da cui era stato separato a causa del delitto.

Come ha notato profondamente Matthias Vereno, che ha esaminato con sguardo filosofico l’esperienza della pena presso le culture pre-riflessive, predominano nella coscienza di coloro che infliggono la pena non tanto il concetto della perdizione del condannato bensì quello della salvezza della comunità: “Celle-ci expie et se purifie en sacrifiant celui de ses membres devenu coupable, même quand son exécution ou son expulsion ne représentent pas un sacrifice cultuel”.

La circostanza che il procedimento punitivo si svolga nella forma del rito conferma che per la mentalità arcaica l’aspetto essenziale è quello espiatorio e purificatorio: “Ce n’est pas un rite, bien sûr, rentrant dans l’ordre sacré ou cultuel de la communauté, puisqu’on le met en oeuvre contre celui qui de soi-même s’est exclu de cet ordre; et pourtant toute la vie de la communauté est centrée sur le souvenir cultuel de la représentation de la vraie parole, du muqos :parole qui annonce et manifeste immédiatement ce que les forces surhumaines ont fait pour fonder le kosmos , le monde du sacré et de l’ordre, et la vie de la communauté -et ces exécutions extrêmes elles-mêmes ne peuvent pas rester sans rapport avec ce mythe exemplaire En elles, en effet, se rend présent et se réalise le climax décisif de ce mythe: la victoire des forces bonnes, ordinatrices, dispensatrices de salut, sur les puissances de l’abyme. C’est aux puissances du chaos, ennemies de l’être et destructrices, que le condamné est donné en proie; mais cela ne fait que rendre manifeste à quoi il appartient réellement. Et au moment où la société triomphe sur le transgresseur du droit, elle renouvelle et re-présente la victoire des dieux de la lumière créateurs de l’ordre: Marduk contre Thiamat, les Devas contre les Asuras, les dieux de l’Olympe contre les Titans. L’exécution par ex. qui consiste à précipiter le condamné du haut d’un rocher présente une évidente analogie avec la chute des démons, comme par exemple des Titans dans le Tartare”.

Anche nel diritto romano dell’età storica l’essenza propria della pena sta nell’esigenza di realizzare la giustizia retributiva, e non nel perseguimento dei finalismi esteriori, come l’intimidazione, l’emenda, la prevenzione speciale dalla ricaduta nel delitto. Vero è che le fonti menzionano tali finalismi, ora la intimidazione sociale tramite l’esemplarità della condanna, ora l’emenda del reo e la prevenzione speciale.

Si possono leggere,tra i molti passi, nelle fonti letterarie, Aulo Gellio, in Noct. att., 16, 14 nonché, nelle fonti giuridiche, in relazione all’intimidazione, Ulpiano, nel libro de poenis: “quod quidem facendum est, ut exemplo deterriti minus delinquant“; Claudio Saturnino e all’emenda, Paolo, che, spiegando la ragione dell’intrasmissibilità agli eredi della pena, adduce lo scopo dell’emenda: “[…] quod poena constituitur in emendationem hominum:quae mortuo eo, in quem constitui videtur, desinit“.

Tuttavia, tali finalismi esteriori si giustappongono ad un nucleo retributivo ben definito e determinato, che caratterizza l’essenza della pena, non bisognoso di essere ribadito perché impresso in guisa quasi indelebile nella struttura dell’atto punitivo e nella coscienza comune. E’ significativo allora che l’essenza retributiva della pena emerga quasi proverbialmente nei versi dei poeti (di Fedro, Seneca, Orazio) , negli asserti degli storici (Livio, Tacito) o nella riflessione degli oratori, in specie di Cicerone, più che non nelle sentenze dei giuristi, i quali non definiscono l’essenza della pena, ma risolvono i casi pratici alla luce dei finalismi esteriori che rendono comprensibile la ragione per cui la pena, in qualche situazione, non debba essere applicata, ovvero debba avere determinate caratteristiche.

In Cicerone il tema retributivo assume il suo vertice concettuale, forse a tutt’oggi insuperato. Anzitutto, per quanto espressamente non si rinvenga nel de Legibus una definizione formale, l’intero sviluppo concettuale del primo libro di tale opera, imperniato sulla sovranità della giustizia come regola che vale tanto per l’uomo retto quanto per la respublica che persegue il bene comune, presuppone come fondamento l’idea della giusta retribuzione.

Nel capitolo 41 si trova la critica magistrale ad ogni forma di general-prevenzionismo, laddove, mettendo Cicerone a modello della pena giusta la cosiddetta pena naturale,come angoscia del rimorso e tormento della colpa (“angore conscientiae fraudisque cruciatu“) e ricordando l’esperienza degli antichi, che non irrogavano la pena con processi (probabile reminiscenza della sacertà arcaica), accontentandosi della pena naturale, osserva che se fosse la pena, e non la natura, a tenere gli uomini lontano dalla colpa, allora la giustizia non reggerebbe il mondo, perché, eliminato il timore della punizione, il reo sarebbe felice.

All’inverso e simmetricamente, poi, se fossero la punizione e il timore della pena a tener lontano dal delitto, e non la sua bruttezza in se stesso, allora non vi sarebbero più bontà e malvagità, e i colpevoli sarebbero piuttosto imprudenti anziché disonesti. Dunque, come critica valevole in ogni tempo e in qualsivoglia circostanza al general-prevenzionismo, Cicerone ha messo in evidenza una volta per tutte che la pena giuridica non costituisce mezzo adeguato per impedire il delitto, bensì ne rappresenta la sua conseguenza giusta.

Indirettamente soltanto, ove sia rispettato rigorosamente il criterio della giusta retribuzione, la pena, esercitando sulla coscienza sociale un influsso confermativo del giudizio della coscienza, possiede un effetto di carattere preventivo: effetto mediato dal riconoscimento sociale circa la giustizia della pena, e non discendente direttamente da una minaccia lanciata dalla volontà del sovrano.

In molti passi del de Legibus, peraltro, Cicerone afferma espressamente la corrispondenza alla giustizia della pena retributiva, proporzionata alla gravità del delitto. Nel libro III, capitolo 20, proclama che pena giusta è quella il cui carattere corrisponde alla natura del delitto: “noxiae poena par est, ut in suo vitio quisque plectatur, vis capite, avaritia multa, honoris cupiditas ignominia sanciatur” (); nel de officiis 1, 25 esprime il principio di proporzionalità: “Cavendum est, ne maior poena quam culpa sit“.

Va poi ricordato lo stupendo passo del de inventione, II, c.53, ove la pena è ricollegata alla sua fonte costituita dalla giustizia come virtù cardinale dell’uomo. Due sono le parti dell’onesto, la “semplice” e quella in cui l’onesto si mescola all’utile, detta “mista”. La parte semplice, che racchiude nella sua essenza tutti gli attributi dell’onesto, è la virtù, abito spirituale conforme alla norma naturale e alla ragione (“Nam virtus est animi habitus naturae modo atque rationi consentaneus“).

La virtù si divide in quattro parti: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. La giustizia è l’abito mentale che garantisce a ciascuno la sua dignità non disgiunta dall’interesse comune. Ebbe origine naturale; in seguito certe azioni entrarono nell’uso, in base al criterio dell’utilità; poi il timore della legge e il senso religioso consacrarono quanto era connaturato con essa, oltre a ciò che era stato riconosciuto utile dalla consuetudine.

E’ “diritto naturale” quello che non fu generato dall’arbitrio, ma che una forza indefinibile inculcò nella natura stessa, come la “religione”, la “pietà”, la “gratitudine”, la “vendetta”, la “riverenza”, la “verità”. Con la “vendetta” allontaniamo la violenza e l’ingiustizia e , in una parola, tutto ciò che può essere dannoso, difendendoci e vendicandoci (“vindicatio, per quam vis aut iniuria et omnino omne, quod obfuturum est, defendendo aut ulciscendo propulsatur“).

La radice comune della difesa e della pena è la giustizia, come forza misteriosamente inculcata da Dio creatore nella natura dell’uomo per provvedere a se stesso e agli altri secondo la convenienza propria dell’essere libero e ragionevole.

Non è questa la sede per l’ulteriore disamina delle fonti romane. Basti per il fine di questo intervento aver menzionato i luoghi ciceroniani dai quali maggiormente traluce la sapienza dei gentili, quasi presaga della luce soprannaturale che l’irruzione del Figlio di Dio, Sol iustitiae, avrebbe portato all’umanità, pochi anni dopo la proclamazione in termini razionali del vero diritto naturale delle genti.

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