di Mauro Ronco
3. I caratteri essenziali della pena giuridica
Lo studio filologico compiuto merita ora un riscontro filosofico secondo il metodo insegnato da Vico, per cui il certo filologico conforta il vero filosofico, e questo a sua volta rafforza l’autorità di quello.La realtà intima della pena, a prescindere dagli scopi esteriori che essa può accidentalmente raggiungere, tra tutti importante, l’eventuale contributo ab externo al raffrenamento della baldanza e dell’arroganza di coloro che, per inveterata dedizione al crimine, più non sentono nella coscienza il morso e l’angoscia della pena naturale, sembra comporsi -alla luce della lezione filologica- di distinti elementi, che debbono essere visti nella loro profonda unità perché sia colto il senso ed il significato della pena.
L’analisi di ciascun elemento in se stesso è certamente utile, purché tuttavia non sia mai perso lo sguardo d’insieme, che solo riesce a penetrare in qualche misura il senso, in ultima analisi sempre misterioso, della sofferenza umana in cui la pena si consuma.
In primo luogo, la pena deve essere vista come strettamente connessa al delitto, come atto con cui l’autore abusa della sua libertà, violando così il principio fondamentale di responsabilità. In secondo luogo, occorre vedere, come punto di passaggio dalla colpa alla pena, lo status di separatività da Dio e dagli uomini in cui il reo viene a trovarsi per il fatto stesso del delitto. In terzo luogo, occorre scorgere, come principio che muove la società a punire, il dovere di riaffermare la giustizia offesa, promanante dall’inclinazione al giusto che è infusa nella mente dell’uomo. In quarto luogo, occorre vedere, con sguardo un poco raffinato, l’efficacia purificatoria e riconciliatrice della pena. Quest’ultimo è l’aspetto più problematico, e su di esso occorrerà tentare un approfondimento particolare.
E’ opportuno rivolgere lo sguardo anzitutto al primo elemento intrinsecamente connaturato all’esperienza della pena, consistente nella violazione del principio di responsabilità, letto alla luce dell’equazione: libertà = responsabilità. L’uomo risponde di fronte a Dio e agli uomini per l’abuso e la definalizzazione della sua libertà. La filologia non attesta affatto una condizione originaria nella quale l’irrogazione della pena sarebbe stata prescissa dalla responsabilità individuale, bensì piuttosto una condizione diametralmente opposta, in forza della quale era fatto carico all’uomo di una responsabilità eccessiva e superiore rispetto a ciò che sarebbe stato umanamente giusto ritenere in base alla natura e alla portata degli avvenimenti.
Mancata conoscenza dei processi di causalità naturalistica e corto-circuiti di tipo magico-sacro furono probabilmente all’origine di quell’oggettivismo penale che talora è riscontrabile nelle esperienze più arcaiche della pena: ma tale oggettivismo non è conseguenza dell’ignoranza o del rifiuto del principio di responsabilità, bensì, tutto al contrario, della sua sopravvalutazione, ovvero della sua erronea applicazione al caso concreto.
L’opinione positivistica, ben compendiata da Franz von Liszt nel Programma di Marburgo, deve essere perfettamente rovesciata: all’origine della pena non sta l’indiscriminata e cieca difesa contro l’atto dannoso, bensì la stigmatizzazione etico-religiosa, talora impropria o eccessiva, dell’atto che viola l’ordine cosmico al quale la vita sociale appare indissolubilmente congiunta.
A fondamento della pena sta l’esperienza della libertà dell’uomo, come evidenza spontanea e originaria, presente alla mente prima e indipendentemente da ogni riflessione. Come ha osservato Antonio Livi, la libertà è una evidenza primaria “[…]che la riflessione illumina ma non crea, non produce“. (…) La fenomenologia, infatti, descrive l’esperienza della libertà; la metafisica “giustifica (con una ragione ontologica) quanto è stato rilevato dalla fenomenologia, riportando tutto alla struttura dell’essere personale (sostanza spirituale, anima che vivifica e trascende la materia)”; ma “né la fenomenologia, né la metafisica provano la libertà: la giustificazione metafisica, in particolare, è la spiegazione di come l’uomo sia capace di atti liberi, ma a partire dall’evidenza di tali atti liberi; se la riflessione filosofica non li accettasse come evidenza, mai in seguito potrebbe più recuperarli. La libertà può solo essere un dato di partenza, mai può essere una conclusione a partire da altre premesse” (…).
L’evidenza della libertà al senso comune dell’uomo come causalità efficiente dell’atto personale, siccome sperimentato come proprio, orientato autonomamente verso un fine, come valore conosciuto e ricercato in quanto tale, costituisce il presupposto essenziale della pena. Libertà come condizione di possibilità del diritto penale e, dunque, come presupposto di razionalità e di non contraddittorietà della scienza particolare che studia il delitto e la pena negli ordinamenti civili; non conclusione a cui si potrebbe pervenire da altre premesse, bensì evidenza originaria di pensabilità stessa della pena.
Vale qui ricordare le Degnità XII e XIII di Vico, secondo le quali rispettivamente “Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano” (XII), e “Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero” (XIII). Orbene, l’esperienza della libertà è contenuto materiale del senso comune presso tutti i popoli.
E l’idea della pena come retribuzione dovuta per la definalizzazione della libertà verso il nulla, che rompe l’unità e la bellezza del cosmo, ha il motivo comune di vero nell’esperienza essenziale della libertà come prerogativa dell’essere uomo, “[…] come emergente nei confronti della natura, proprio perché la sua causalità razionale si manifesta come superiore qualitativamente alla causalità di tutti gli altri esseri in atto che non siano esseri personali come egli stesso sa di essere” (…).
Il secondo elemento dell’esperienza penale è la percezione in ordine alla separazione del colpevole dalla comunità delle cose divine ed umane ed il conseguente sentimento di isolamento, di abbandono, di solitudine in cui si viene a trovare costui per il fatto stesso del delitto, prima e indipendentemente da ogni reazione che sia diretta contro di lui ab externo. Siffatto sentimento è il segno psicologico della ferita ontologica che si produce nel colpevole per l’avvertire egli una contraddizione tra la realtà esistenziale e la verità che il senso comune gli rivela spontaneamente circa la sua creaturalità, relativa alla sua dipendenza da Dio creatore e provvidente.
Come ha ricordato Livi, l’ultima evidenza del senso comune -mediata dal principio di causa- “[…] è l’evidenza dell’Essere, ragione ultima del mondo: della sua esistenza, del suo ordine, del suo finalismo, delle sue possibilità materiali e spirituali” (). Il sentimento di separazione, sorto per effetto della percezione che si è interrotto il rapporto con Dio creatore e provvidente, si acutizza, trascolorando in esperienza di abbandono e solitudine, non soltanto nei riguardi di Dio, ma altresì degli altri uomini.
Il carattere naturale della vita sociale costituisce ulteriore evidenza, sia pura mediata, del senso comune. Per vero, fino al grido empio di Hobbes, che, drizzandosi contro la tradizione, osò sostenere che l’uomo non era “[…] un animale già atto sin dalla nascita a consociarsi” , giacche intimamente ordinato per natura a nuocere agli altri onde giovare solo a se stesso, la naturale socialità dell’uomo costituiva corollario evidente della sua creaturalità e dipendenza dalla Provvidenza divina.
La filologia, luminosamente indagata da Vico, riscontra d’altronde ciò che il senso comune scopre spontaneamente. Poiché “Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano” (…) e poiché “il gener umano, da che si ha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevolmente in società“, allora è risolta nel senso della tradizione “la gran disputa” “se vi sia diritto in natura, o se l’umana natura sia socievole“
. E poiché il diritto naturale delle genti, nato consuetudinariamente in virtù della comune natura degli uomini, conserva provvidenzialmente l’umanità in vista del conseguimento del bene più grande che è Dio stesso “[…] l’uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole” (Degnità CIV) (). La separazione e l’abbandono che il delitto introduce sono il segno, oltre che della rottura dell’ordine cosmico, altresì della ferita inferta all’ordine della giustizia. E’ un dis-ordine che pone il colpevole al di fuori di siffatto ordine, come ordine proporzionato di partecipazione di ciascuno al bene a tutti comune.
Le considerazioni svolte consentono di trapassare agevolmente al terzo aspetto essenziale al diritto penale, che consiste specificamente nella pena.
Come si è notato soprattutto con riferimento all’istituto della sacertas arcaica, non v’è concidenza tra separazione e pena. La prima è, in qualche modo, la conseguenza naturale del delitto; la seconda costituisce al contempo segno fisico che sottolinea nel mondo fenomenico ciò che già è avvenuto sul piano ontologico e germe del riscatto e della riconciliazione tra il delinquente e la comunità.
I due aspetti, pur costituendo due lati della stessa realtà, meritano di essere distintamente esaminati. Come si è visto, la pena naturale -come sentimento della separazione e conseguente sofferenza per tale stato- costituisce la conseguenza necessaria del delitto, impressa da Dio nell’ordine stesso delle cose e nella natura dell’anima.
San Tommaso D’Aquino ha sottolineato questa verità in modo estremamente chiaro, sulla scia della sapienza antica, pagana e cristiana. Seneca aveva detto: “Prima et maxima peccantium est poena, peccasse; nec ullum scelus impunitum est: quoniam sceleris, in scelere, supplicium est” e Sant’Agostino ” Iussisti enim, et sic est ut poena sua sibi sit omnis inordinatus animus” .
E Vico, con precisione e particolare approfondimento: “Hoc autem poenae genus est omnium maxime proprium, a ‘poenitendo’ dictum, nempe pravi facti conscientia, quae nihil aliud est nisi ignorati veri pudor, quantum ex ignoratione veri turpitudo conflata est“.
Asserire, come fa Vico, che la pena è conscienza dell’azione malvagia, significa affermare che essa consiste nella comune conoscenza, che avvince tra loro l’autore e gli altri membri della società, circa il carattere malvagio dell’azione. In altri termini, la pena sta nella rivelazione alla comune coscienza del reo e delle persone che lo circondano del significato riposto del delitto, inteso come rifiuto e separazione dall’equo-buono.
E, come la conoscenza dell’azione retta è il premio del riconoscimento del vero, posto da Dio nell’onestà, così la conoscenza dell’azione malvagia è il castigo del misconoscimento del vero, pure da Dio riposto nella disonestà. Sì che a giusto titolo può ritenersi che Dio stesso sia autore della pena naturale, siccome Egli è l’Autore della società del vero e della ragione. Senonché, poiché gli uomini, siccome creati da Dio buoni e, nonostante il peccato, non irrimediabilmente malvagi, sono capaci di giustizia in virtù del loro arbitrio libero, e debbono, per la loro vocazione ad essere pienamente uomini, perseguire la giustizia, allora alla pena naturale si aggiunge, come conseguenza indotta dall’esigenza del rispetto del naturale vincolo sociale, la pena giuridica irrogata dalla autorità.
Come osserva Vico, a presiedere all’irrogazione della pena giuridica sta, oltre alla fondamentale ragione di giustizia, altresì una condizione di utilità. Vi sono infatti dei comportamenti (in particolare quelli negligenti), per i quali la prudenza non consiglia ordinariamente l’irrogazione di una pena supplementare ed aggiuntiva rispetto a quella naturale, riveniente dal riconoscimento dell’errore, e consistente nel sentimento da confusione per aver errato.
Vi sono, poi, altri comportamenti, caratterizzati dall’indifferenza consapevole verso il bene comune, per i quali è opportuna prudenzialmente l’irrogazione della pena giuridica soltanto allorché siano estremamente alti la dignità ed il valore del bene offeso (la vita, in particolare). Ricorrono, infine, comportamenti, caratterizzati dalla decisione malvagiamente deliberata di nuocere agli altri, i quali esigono per ragioni essenziali di giustizia l’irrogazione della pena giuridica.
In questi casi, invero, l’atteggiamento del colpevole non offende soltanto questo o quel bene particolare, bensì soprattutto la dimensione categoriale del bene come tale, sì che per tale reo più non vale la norma stessa che proclama e rende noto alla coscienza il valore del bene, essendo in lui quasi del tutto spento il senso umano.
La pena giuridica, come retribuzione del male compiuto, appare nell’orizzonte del senso comune come naturale conseguenza dell’evidenza alla coscienza dell’ordine morale. Al senso comune appaiono via via come evidenti il mondo, se stesso inserito nel mondo come capace di modificarlo in quanto dotato di libertà, l’ordine cosmico come valore, dunque, come ordine morale cui adeguarsi liberamente nell’orizzonte dell’intersoggettività, cioè di una natura razionale comune a tutti i soggetti.
L’intuizione della libertà e della doverosità per ciascuno di questo ordine è accompagnata dalla forza, infusa nella natura stessa, che può meglio essere definita come inclinazione, volta a far sì che questo ordine sia rispettato, tanto da sé quanto dagli altri. L’ordine morale non è soltanto conoscibile come vero dalla ragione, ma anche oggetto d’amore da parte della volontà come bene. E una forza misteriosa inclina a vendicare quest’ordine allorché esso, per deliberata decisione, sia non soltanto violato, ma addirittura rifiutato categorialmente e perciò messo a rischio di essere completamente sconvolto.
Nella definizione ciceroniana di quella parte della giustizia che consiste nella “vindicatio“, come abito mentale avente origine nella natura, con il quale si allontana tutto ciò che può essere dannoso “defendendo aut ulciscendo“, è magistralmente colta l’inclinazione ad bene esse, che caratterizza l’uomo, correlativa all’inclinazione ad esse (consistente quest’ultima nell’autotutela, nel matrimonio, nella procreazione, nell’educazione della prole), che rispecchia l’ordine oggettivo dell’essere e lo promulga.
Dario Composta ha ben definito l’oggetto di tale inclinazione come una sorta di giudizio a priori, senza il quale ogni discorso umano sulla giustizia sarebbe impossibile. Commentando il frammento 23 Diels di Eraclito (“Dikhs onoma ouk an hdesan, ei tauta mh en” -Non capirebbero il nome di giustizia se non esistesse già ciò che tale nome esprime), egli ha osservato che il giusto, non percepibile tramite l’esperienza sensibile, è un nesso o un rapporto tra le persone e le cose colto in virtù di una intuizione originaria della mente.
La legge morale nasce contemporaneamente con caratteri di oggettività, come ordine cosmico, e di intersoggettività, come ordine comune a tutte le nature razionali: ordine che ogni uomo, in virtù della natura razionale, è capace di conoscere e di attuare volontariamente, secondo l’ordine della libertà intrinseca alla propria natura spirituale e libera.
La mentalità del giurista moderno è fuorviata dall’assuefazione a secoli di volontarismo e positivismo giuridico, sì da non riuscire più a scorgere il nesso tra lo iustum come res iusta sul piano oggettivo e la virtù della giustizia come forza impressa nella natura umana che, inclinando l’uomo alla realizzazione dello iustum, lo induce a respingere il male, defendendo aut ulciscendo, realizzando la difesa tanto nei confronti dell’ingiustizia ancora in divenire, quanto irrogando la punizione del male compiuto.
Se il diritto non si identifica con la forza, pure esso sorge da una inclinazione intima e connaturale all’uomo che tende ad attuarsi, in virtù di un dinamismo intrinsecamente connesso alla sua libertà, per cui il bene conosciuto costituisce l’orizzonte intenzionale che orienta le scelte della volontà. Ha messo magistralmente in luce la scaturigine del diritto nell’inclinazione dell’uomo alla giustizia, sia pure con tratti inaccettabili di naturalismo, Rudolf von Jhering ne Lo spirito del diritto romano.
Osservando con grande acribia filologica il diritto romano arcaico, il grande studioso tedesco notava come non soltanto sul piano della creazione del diritto, bensì anche sul piano della sua attuazione il momento genetico non sta nell’iniziativa dello Stato, ma nel dinamismo della libertà di ciascuno a regolare i problemi della convivenza secondo giustizia.
Come è falsa l’idea della legislazione come unica sorgente del diritto, poiché il criterio della sua formazione è il contemperamento per via consuetudinaria delle utilità di ciascuno al principio del bene comune, così è falsa l’idea per cui soltanto lo Stato potrebbe attuare il diritto, sì che, secondo il pregiudizio evoluzionistico, le epoche che non conobbero Stato sarebbero state prive di diritto.
Nello Stato – dice Jhering- ” […] si ravvisa il segno che nell’istoria del diritto annunzia l’aurora, e si raccapriccia all’idea della supposta notte che avanti dominava; anzi non si agitò mai nemmeno la domanda, se l’immediata virtù organizzatrice propria della vita, che supplì lungamente alla mancanza del legislatore, non abbia potuto prestare l’istesso ufficio riguardo al giudice. Siffatto pregiudizio desta ancor più maraviglia, avvegnache appunto il diritto romano antico, purché nol si giudichi colle idee del secolo decimonono, ne convince più che ogn’altro l’insussistenza. L’autorità del giudice occupa nell’antico diritto romano così umile posto, e si dimostra così poco compresa dell’idea che lo Stato ministri giustizia, che si può giustamente reputarla una instituzione uscita dal sistema della attuazione immediata del diritto (cioè della privata difesa) e destinata a completarlo. Da tutti i punti del diritto romano di quell’età sorge la prova, che quel principio pretto romano che tramontò solo con quel popolo, cioè l’idea, che la sorgente del diritto non è nello stato, ma nell’individuo, ebbe allora pieno ed inconcusso vigore. Ma la privata difesa non è che un corollario di questa idea; e viene manifestata a priori l’intensità straordinaria della virtù del sentire giuridico romano, e la sana costituzione della vita romana da ciò, che la privata difesa non trasse seco, siccome in Germania ai tempi del diritto del più forte, le risse in che il più potente avea il sopravvento, e così ella da sé si distrusse; ma fu in Roma foggiata a sistema tanto pratico d’effettuare il diritto, che si poteva fare a meno dell’ajuto e dell’indirizzo delle pubbliche autorità”.
Né la sorgente del diritto nell’individuo e il riconoscimento a lui della facoltà e doverosità di attuarlo equivaleva alla condizione dell’homo homini lupus; programma, quest’ultimo, partorito dal razionalismo antigiuridico, che ritiene il diritto non coessenziale alla natura umana, caratterizzante la dis-società macerata da secoli di positivismo e volontarismo, e non condizione originaria della vita sociale. Come notava Jhering, infatti, con riferimento alla vita arcaica romana, il diritto si attuava per virtù immediata della vita, anche senza la cooperazione dello Stato.
Chi ricorreva alla difesa privata in risposta all’ingiustizia patita, poteva far conto non soltanto sulla sua forza, ma anche su quella dei suoi vicini: ” […] quella ingiustizia eccitava nella comunanza una reazione del sentimento giuridico simile a quella da lui provata, cioè attiva, reale“. Sì che “la preponderanza della forza…gravitava ordinariamente dalla parte che aveva ragione” (). Ciò perché: “il sentimento giuridico racchiude lo stimolo a realizzarsi, ed un’offesa, quantunque non risguardi che un singolo, eccita questo stimolo nell’universale“
Anche in epoca storica, come ben ha mostrato Yan Thomas, l’istanza vendicativa dell’ingiustizia sta alla base del diritto criminale romano (). Essa era a tal punto cogente che il perseguimento privato della punizione del colpevole costituiva un dovere morale e giuridico per l’erede della persona uccisa. Lungi dall’apparire come una reazione di pura violenza, momento privatistico che rinnegherebbe il diritto e lo Stato, la “vindicatio” costituisce un vero e proprio “officium pietatis” in capo all’erede, tanto che sarebbe stato disdicevole sottrarsi al dovere di perseguire l’assassino e l’accusatore del proprio padre.
Florentino nel libro de iustitia et iure ricollega perspicuamente il dovere di respingere l’offesa e quello di realizzare la giustizia al comune principio di diritto naturale che stigmatizza come nefas l’insidia portata all’altro uomo “cum inter nos cognationem quandam natura constituit“
Cicerone, d’altronde, nel passo del de inventione sopra citato ravvisa nella virtù di giustizia un plesso composito di abiti spirituali, ove la “vindicatio” è strettamente congiunta alla “religione”, come osservanza di riti sacri in onore di una natura superiore a quella umana, alla “pietà”, come onore dovuto alla patria ed ai propri consanguinei, alla “gratitudine”, come sentimento di riconoscenza per l’amicizia che gli altri ci hanno riservato, alla “riverenza”, come sentimento di rispetto per coloro che ci superano in dignità, alla “verità”, come sentimento che, riconoscendo il primato dell’essere, ci porta a non alterare il vero delle cose passate presenti e future.
La “vindicatio“, allora, è lo stimolo attivo e dinamico, insito nella natura dell’uomo, che eccita la volontà a garantire e tutelare l’ordine dei valori che costituiscono il tessuto vivente della comunità umana, sotto la Provvidenza di Dio, nel rispetto della realtà del mondo e nell’articolarsi vivificatore dei rapporti che arrecano a ciascuno il nutrimento indispensabile per la crescita fisica e spirituale.
La pena, dunque, esprime un dovere di giustizia che incombe su ciascun uomo e che, in funzione dell’organizzarsi delle società complesse in Stato, finisce per concentrarsi istituzionalmente su coloro che rappresentano la società, assumendo su di sé il compito di esercitare i doveri principialmente gravanti su ciascuno.
Senonché, la pena giuridica non costituisce soltanto l’espressione di un dovere di giustizia connaturale all’uomo, che impone la riaffermazione dell’ordine dei valori sconvolto dalla frattura del delitto, bensì anche motivo di purificazione e germe di riconciliazione. Si tratta dell’aspetto della pena più difficile e complesso, in relazione al quale occorre tentare qualche approfondimento.
Sembra anzitutto opportuno ricorrere al supporto della filologia, tenendo conto della Degnità XIII della Scienza Nuova, più volte menzionata, secondo cui “Idee uniformi nate appo interi popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero“. In effetti, lo studio dedicato ai modi della risposta punitiva nella Grecia antica ed in Roma, con la ricostruzione nel tempo delle forme dell’esecuzione capitale, hanno rivelato che la pena, regolata da procedure di tipo rituale, possedeva un significato ed una funzione magico-sacra.
Come ha scritto Eva Cantarella ” […] l’uccisione del colpevole immolato agli dèi era dunque atto di espiazione, gesto catartico, atto di culto volto a ristabilire quella che i romani chiamavano la pax deorum“.
Precipitazione, vivisepoltura e sommersione appaiono ispirate allo stesso principio retributivo e sono volte a raggiungere il medesimo scopo di consacrare e consegnare in modo sacrificale agli dèi ctonii il colpevole in espiazione della colpa. Evidente è il significato sacrificale della suspensio all’arbor infelix, prevista dalla lex horrendi carminis per la perduellio, ove la prescrizione che “al reo sia coperto il capo -caput obnubito” conferma la consacrazione del reo agli dèi cui era sacro l’albero infelice.
Il supplizio del fuoco previsto dalle XII Tavole per l’incendiario, oltre ad esprimere il principio del talione in modo evidente, sembra altresì fosse inflitto in onore di Cerere dea delle messi. Con la pena del sacco, descritta da Modestino, riservata al parricida, si celebrava un rito del tutto particolare. Immediatamente dopo la condanna, al parricida venivano fatti calzare degli zoccoli di legno ed attorno al suo volto veniva legato un cappuccio di pelle di lupo.
Il colpevole, prima di essere cucito nell’otre, veniva fustigato con verghe ricavate da infelicia ligna. Nell’otre, insieme con lui, venivano inseriti quattro animali: il cane, il gallo, la vipera e la scimmia, che lo dilaniavano lungo il tragitto verso le acque che lo avrebbero alla fine ricevuto. Egli veniva cucito nel culleus, in modo che, privato del contatto con l’aria, con la terra e con l’acqua, non potesse contaminarli: ” […] cucito in un culleus e chiuso nella sua stretta mortale… verrà gettato nel mare, se vicino, o in un fiume, così che cominci da vivo a mancare di ogni uso di elementi, e sia privato del cielo finché è vivo, e della terra da morto“.
Il significato sacrificale e purificatorio di tale pena è evidente e traspare da ogni fase della procedura, dalla fustigazione, all’inserzione nel sacco degli animali, alla cucitura. Al di là dell’aspetto di deterrenza, segnalato da Cicerone , la pena appare soprattutto una procuratio prodigii , preceduta da una cerimonia purificatoria, con la quale, disvelando la mostruosità del crimine, si voleva realizzare in forma di contrappasso l’espiazione della colpa, concentrando sul colpevole e facendo perire con lui tutto il male che la sua azione contro natura aveva rivelato.
La pena arcaica, dunque, che conserva evidenti i caratteri sacrificali anche in epoca storica, appare come sacramento della restaurazione dell’ordine cosmico ed etico violato. La sofferenza della pena purifica lo spazio civile e riscatta la caduta della colpa.
Si è in precedenza notato come la pena giuridica, irrogata per decisione di un giudice o per azione vendicativa della persona offesa o di un suo consanguineo, è concettualmente distinta dalla pena naturale, consistente nella separazione del reo dalla comunione con le cose divine e umane.
La sacertà romana, nelle fasi più arcaiche, allorché l’abbandono fisico del reo nello spazio ostile circostante comportava inevitabilmente la sua morte oscura e terribile, in forma di dedicazione agli dèi inferi, perviene quasi a identificare pena naturale con pena giuridica, immedesimando la seconda nella prima. Ma più ci si allontana dall’immediatezza originaria, più la pena giuridica tende a distinguersi dalla pena naturale, caricandosi di rituali che ne manifestano il significato purificatorio e riconciliatorio.
Con l’esecuzione della pena la società purifica lo spazio contaminato: invero, lo sconvolgimento del kosmos provocato dal delitto può essere espiato con un rito vittimario per cui il colpevole, jarmakos-avvelenatore, attraverso il patimento della pena si tramuta in jarmakon -medicina che guarisce, recando i frutti benéfici della redenzione anche sugli altri membri della comunità.
Se ci accostiamo alla pena degli antichi con lo sguardo volto vichianamente a riconoscere con la dovuta pietas il “motivo comune di vero“, non possiamo non meravigliarci dell’unità profonda di significato nascosta e racchiusa nelle crudeli modalità con cui la fantasia mitica aveva rivestito ed accompagnato l’esecuzione della pena.
Per la mentalità mitico-magica, il significato della pena consiste nella purificazione dello spazio contaminato e nella restaurazione sacramentale dell’ordine: nel colpevole sono obbiettivate, attraverso la sacra rappresentazione, le forze del male. Le pene crudeli e il contrappasso manifestano la coincidenza tra il male della colpa e il male della pena, idonea a realizzare efficacemente la restaurazione.
Invero, a fronte della legge dello scambio equivalente, che regola ai vari livelli il dinamismo tanto della natura, quanto della vita economica e della vita morale degli uomini, stanno la sfera divina del dono gratuito e la sfera demoniaca dell’annientamento: la prima, propria di chi dà senza pretendere nulla in cambio, ricavando dalla diffusività del Bene sempre nuove ricchezze da donare; la seconda, propria di chi toglie senza nulla dare in cambio, impoverendo la realtà fino a farne un deserto, sì che più nulla al fine residuerebbe del reale se la tendenza nichilistica non venisse contrastata.
Il mondo del delitto appartiene alla sfera demoniaca di chi prende senza dare, come nel caso della rapina e del furto si fa manifesto, nonché di chi distrugge i beni contro ragione, come nel caso dell’omicidio e di molti altri reati appare evidente, con l’annichilimento degli altri e del mondo circostante.
Poiché factum infectum fieri nequit, l’imperativo della giustizia, come principio di equivalenza tra ciò che si prende e ciò che si dà, impresso come legge nella natura, come tendenza nella vita economica e come inclinazione nella vita morale, impone di pareggiare con un equivalente ciò che è stato tolto senza ragione, senza cioè cedere un valore corrispondente.
Con la pena, che sacrifica un bene del colpevole -la vita, la libertà, l’onore, il patrimonio, il tempo- viene ripresa in termini di equivalente non la cosa distrutta, bensì il suo valore, sì da assicurare l’immortalità del valore oltre il tramonto della cosa.
Come ha scritto profondamente Hugo Marcus “[…] la giustizia mira, realizzata universalmente, all’immortalità del valore, cioè al mantenimento della comune altezza dei valori pur nel perimento dei singoli oggetti” (). Sì che realmente, e non apparentemente, la pena è intrinsecamente emendativa, come ben aveva intravisto Platone nel Gorgia, rispondendo a Polo (), indipendentemente dalla consapevolezza che di ciò abbia la persona punita, perché la sofferenza in cui si consuma la pena costituisce un valore concreto e reale, che vale in qualche misura a compensare il valore che è stato annientato, secondo un’economia misteriosa, per cui chi è stato veleno diventa con la sofferenza per sé e per tutti medicina.
Senonché, seppure la sofferenza in cui consiste la pena costituisca un valore, sì che essa è intrinsecamente medicinale per il reo e per la società, tuttavia realmente la distruzione arrecata dal male del delitto non può essere compensata se non dalla gratuità del dono proveniente da Dio, in quanto soltanto il Bene in se stesso può in modo reale dare gratuitamente senza richiedere alcunché in cambio. E ciò viene rivelato in maniera sublime dall’accadimento cristiano, per cui Dio stesso prende nel Figlio la natura umana, patisce con la sua vita e con la morte sacrificale redime la colpa dell’uomo.
L’incarnazione, la passione e la morte di Cristo frantumano definitivamente il discorso mitico-magico della pena, perché ciò che in precedenza era stato compiuto figuralmente, in uno sforzo vano (ma non per questo meno straordinariamente meritevole di rispetto) della ragione fantastica di rappresentare e realizzare l’esigenza pareggiatrice della giustizia, impressa come inclinazione nell’animo, si è effettivamente realizzato, per dono gratuito proveniente dall’Alto in maniera reale e definitiva.
L’accadimento cristiano abolisce il mito non perché lo neghi razionalmente, ma perché lo invera concretamente: ciò che prima, nel mito, era rappresentazione figurale e, perciò, semplice segno inefficace, preparatorio e rammemorativo di ciò che sarebbe accaduto, la restaurazione teandrica, la riconciliazione tra Dio e l’uomo promessa dall’Alto nel momento stesso dell’inflizione del castigo per la colpa, diventa realtà, realizzazione, attualizzazione piena con l’incarnazione, la passione e la morte del figlio di Dio, Gesù Cristo, seconda persona della Santissima Trinità.
Possono e debbono sparire, perciò, nell’economia nuova delle nazioni civili le pene crudeli, che cercavano inefficacemente, in un accanimento tanto più vano quanto più tragicamente patetico, di realizzare il pareggiamento dei valori e la purificazione dello spazio contaminato. Ma non sparisce, e non deve sparire, fin quando si compiranno i delitti, la pena come valore, in quanto sofferenza del colpevole che, seppure inidonea a pareggiare il valore di ciò che è stato ingiustamente annientato, esprime tuttavia, con il primato dell’ordine morale sull’arbitrio dell’individuo e con la subordinazione di ciascuno, volente o nolente, alla Provvidenza divina, la compartecipazione dell’uomo colpevole alla sofferenza di Colui che ha pareggiato, una volta per tutte e con efficacia verso tutti, il conto della colpa.
Prof. Mauro Ronco – Università di Modena