5 Novembre 2019
Papa Francesco ha voluto ricordare i 100 anni della Lettera apostolica di Benedetto XV per “Alimentare l’ardore dell’attività evangelizzatrice della Chiesa ad gentes” e “riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale”. Senza la missione ad gentes, l’impegno dei cristiani scivola verso un “grigio pragmatismo” fatto di riti, celebrazioni, attività senza volto.
di Bernardo Cervellera
Città del Vaticano (AsiaNews) – Le divisioni “di destra” e “di sinistra”, fra “tradizionalisti” e “progressisti” che si percepiscono in molte parti della Chiesa hanno un’unica ragione: la smemoratezza per cui la Chiesa esiste, che è la missione verso il mondo, che ha la sua punta avanzata nella missione ad gentes, verso i non cristiani.
Rinverdire e potenziare la missione ad gentes è lo scopo delle celebrazioni volute da papa Francesco per il centenario della Maximum Illud, la Lettera apostolica di Benedetto XV, come pure il Mese missionario straordinario appena trascorso, un po’ oscurato dalla copertura mediatica del Sinodo sull’Amazzonia e dalle sue polemiche.
Presentiamo qui la prima parte di una riflessione del direttore di AsiaNews sulla Chiesa contemporanea alla luce della Maximum Illud. La seconda e la terza parte saranno pubblicate domani e dopodomani.
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Il prossimo 30 novembre si celebra il centenario della Maximum Illud, una Lettera apostolica di Benedetto XV (1854-1922). Papa Francesco ha voluto ricordare questo evento lanciando il Mese missionario straordinario, celebrato l’ottobre scorso.
Nell’ottobre 2017, condividendo quell’idea in una lettera inviata al prefetto di Propaganda Fide, card. Fernando Filoni, Francesco ha sottolineato il motivo: “Alimentare l’ardore dell’attività evangelizzatrice della Chiesa ad gentes” e “riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria della vita e della pastorale”.
La Maximum Illud è una lettera che papa Benedetto XV ha diffuso a circa un anno dalla fine della Grande guerra (quella che lui stesso ha definito “l’inutile strage”). Se nel leggerla si supera lo stile un po’ ottocentesco – si parla di “infedeli”, di “barbarie” delle culture extraeuropee, ecc. – si trova che essa è animata da un grande afflato missionario.
In essa il papa, rivolgendosi ai fedeli del mondo intero, invece di piangere sulle rovine della guerra appena finita, chiede alla Chiesa di riprendere la missione universale. Egli sottolinea che tutti i cristiani devono essere impegnati in quest’opera.
Addirittura prende in esame ad uno ad uno chi deve impegnarsi e come: i vescovi, che non devono preoccuparsi solo delle loro diocesi, ma anche di quelle vicine e di tutte le altre diocesi del mondo; gli amministratori apostolici, che non devono stare soltanto nella loro residenza, ma andare ad incontrare tutti i missionari che sono nel loro territorio; i missionari e le missionarie con la predicazione, il catechismo, le scuole, gli ospedali; i sacerdoti; i laici.
Egli sottolinea di continuo che tutto questo impegno nasce dall’amore della Trinità per la salvezza dell’uomo. Tale sottolineatura rende vicina la Maximu Illud a papa Francesco e all’Evangelii Gaudium (EG).
Nell’EG si parla proprio della missione come sgorgante dal cuore della Trinità, da questo amore tenerissimo, profondo, appassionato di Dio verso l’uomo e di cui la Chiesa è continuatrice. E se la Chiesa è continuatrice, vuol dire che tutti i battezzati sono continuatori. Ed è ciò che papa Francesco vuole rimettere in luce.
Nel Messaggio per la Giornata missionaria mondiale di quest’anno, egli afferma che “la profetica lungimiranza della sua [di Benedetto XV] proposta apostolica mi ha confermato su quanto sia ancora oggi importante rinnovare l’impegno missionario della Chiesa, riqualificare in senso evangelico la sua missione di annunciare e di portare al mondo la salvezza di Gesù Cristo, morto e risorto”.
E nella lettera al card. Filoni: “Quanto stava a cuore a Benedetto XV quasi 100 anni fa e quanto il documento conciliare Ad Gentes ci ricorda da più di 50 anni, permane pienamente attuale”.
Nella lettera a Filoni, il papa cita anche altri documenti (Redemptoris Missio) per riaffermare che occorre un rinnovato impegno missionario nella convinzione che la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana.
Tale nuovo entusiasmo nel riprendere le sorti della passione missionaria verso il mondo, serve pure a risvegliare e rimettere in stato di missione tutta la vita della Chiesa: attraverso la missione, noi convertiamo le nostre comunità; nel vivere la missione ci si converte, si cambia.
Il grigio pragmatismo
Attraverso la missione si corregge il pericolo che il papa cita nella EG: il rischio di vivere tutto come “grigio pragmatismo” (n. 83), fare le cose come burocrati, senza nessuna tensione dentro. Benedetto XV e papa Francesco vogliono invece che si comprenda che la missione è l’identità della Chiesa, la missione è ciò che definisce la Chiesa; che la Chiesa è la continuatrice della missione di Gesù.
Del resto, come appare nel vangelo di san Giovanni, Gesù si definisce il “mandato” dal Padre: Gesù non aveva nessun altro orizzonte nella vita che quello di essere missionario, di portare l’amore del Padre nel mondo. Papa Francesco vuole che su questo nucleo riscopriamo la missione universale, la nostra identità come missionari, o come lui dice, di “discepoli missionari”.
Perché “discepoli missionari”? Perché il missionario non è tanto la persona che sa tutte le cose e allora le va a dire agli altri, ma è colui che si fa ammaestrare, cresce nella fede e nell’amore, nel rapporto con Cristo; segue Cristo e proprio per questo riesce a donare qualcosa all’esterno di sé.
“Discepolo missionario”: vuol dire che uno impara sempre da Cristo, e proprio perché riceve tutto da Cristo continuamente riesce a donare. Per il papa, la riscoperta della dimensione cattolica e universale della missione e quella della identità del cristiano – essere discepolo missionario – creeranno senz’altro conseguenze su tutte le strutture ecclesiali, le metodologie pastorali e le prospettive di evangelizzazione.
(seconda parte)
Oltre al “grigio pragmatismo”, vi è un altro problema che Francesco mette sempre in luce quando parla di gnosticismo e di neopelagianesimo: l’indifferenza verso Dio. Se c’è una cosa che caratterizza il nostro mondo è proprio l’indifferenza verso Dio, che poi si traduce anche in indifferenza verso il prossimo.
Questa doppia indifferenza, che poi è una sola, è caratteristica dell’occidente, ma è percepibile anche in tanti Paesi di missione. Si riesce a vederla ad esempio in India, dove ci sono urbanizzazioni gigantesche e spersonalizzanti, ma anche in Giappone o in Corea…
Fra i cristiani, l’indifferenza verso Dio e verso il prossimo trova di solito due tipi di risposta. Davanti allo spopolamento delle chiese, all’abbandono dei giovani, uno ha la tentazione di dover potenziare la proposta per quelli che rimangono.
E quindi nella parrocchia, in diocesi, nel gruppo, si accrescono le veglie, la Lectio Divina, i pellegrinaggi, ecc.: tante occasioni per tenere viva la fede in quelli che sono rimasti. Non poche volte, questo atteggiamento scivola in una modalità un po’ tradizionalista: “Bisogna fare le cose come si facevano una volta, altrimenti qui tutti se ne vanno!”.
L’altra risposta, invece, è di attuare un potente attivismo sociale. Per riuscire a incontrare le persone lontane dalla Chiesa, io vado di qua e di là, incontro mafiosi, non mafiosi, gay, prostitute, ecc. Questo avrebbe senso se è parte di una testimonianza della fede.
Purtroppo, da tante persone, anche preti, che si impegnano in questo modo – ad esempio contro gli stupri, contro la mafia, contro l’inquinamento… – si sente parlare poco di Gesù Cristo.
Davanti a questi due atteggiamenti è importante quanto dicono Benedetto XV e Francesco: riqualificare la vita del cristiano come missione.
Cosa vuol dire? Che io sono preso per partecipare alla vita di Cristo, e perché la vita di Cristo venga comunicata. La missione, allora, non è anzitutto attività, valori, riti, ma la vita di Cristo e questa vita di Cristo si vede dalla nostra umanità riplasmata da Cristo stesso.
È evidente che qui parliamo delle due tensioni presenti nella Chiesa, la tradizionalista e la progressista, che rischiano entrambe una posizione pelagiana (ossia che la salvezza viene dai propri sforzi).
Entrambe le tensioni sottolineano punti importanti, ma poi li fanno diventare tutto il loro orizzonte: da una parte si sottolinea una identità; dall’altra si sottolinea l’impegno nel mondo. Il punto è che queste cose debbono andare insieme.
La Chiesa esiste per il mondo, non per sé stessa. Essa esiste per comunicare al mondo la vita di Gesù Cristo; quindi la direzione della Chiesa è sempre il mondo. Quella frase di papa Francesco, divenuta uno slogan, “una Chiesa in uscita” è importantissima: la Chiesa tende ad incontrare sempre chi non è cristiano, ma i cristiani “escono” non per passeggiare, o fare i propri affari, o realizzare le loro ideologie.
La Chiesa esce per incontrare coloro che non sono cristiani a cui offrire la propria fede. Per questo è importante la Maximum Illud, perché in essa si dice: “La Chiesa esiste soltanto per comunicare la vita di fede”.
E papa Francesco nel Messaggio per la Giornata missionaria 2019 dice: “Noi non siamo dei proselitisti, non abbiamo una merce da vendere, noi abbiamo una vita divina da offrire”: è Cristo stesso che noi portiamo, non anzitutto le nostre opere, le nostre analisi sociologiche, i nostri lavori; oppure i nostri riti, le nostre cerimonie perfette.
Il caso delle “Pachamama”
Una simile divaricazione – fra “identitari tradizionalisti” e “dialogici progressisti” è avvenuta durante il Sinodo sull’Amazzonia, con il caso delle “Pachamama”.
Queste sono delle statuette-amuleti di divinità della fecondità, che il 4 ottobre papa Francesco ha voluto si portassero nei giardini vaticani per depositarli vicino ad un albero piantato per l’occasione. Alla fine, gli indios amazzonici che avevano trasportato le statuette si sono chinati in preghiera; il papa ha recitato il Padre Nostro, vera fonte di ogni fecondità, per il buon andamento del Sinodo che stava per iniziare.
I tradizionalisti hanno giudicato la cerimonia “un gesto di idolatria”, anche se di per sé può essere letto come un gesto di rispetto verso la cultura india.
Nei giorni seguenti le “Pachamama” sono state esposte in una chiesa vicino al Vaticano – S. Maria in Traspontina – e un centro missionario ha addirittura diffuso una “preghiera ai Pachamama”. Questo ha radicato ancora di più la convinzione fra i tradizionalisti che si stava rischiando di scivolare nell’idolatria e nella stregoneria, tanto che alcuni hanno preso le statuette dalla chiesa di S. Maria in Traspontina e le hanno gettato nel Tevere.
Il papa ha chiesto scusa per il gesto di intolleranza e ha fatto recuperare le statuette che sono state portate nell’aula del Sinodo, ma non nella basilica di san Pietro, come era programmato in precedenza.
Anche qui si sono scontrati e opposti chi esigeva “identità” e chi voleva il “dialogo col mondo (e con le religioni)”. La missione risana questa contrapposizione.
Noi missionari valorizziamo gli elementi religiosi presenti negli altri popoli: anche san Paolo, parlando agli ateniesi (Atti 17), ha elogiato la loro religiosità e l’ara al “Dio ignoto”. Da questo punto di vista lo scandalo dei tradizionalisti è esagerato.
Ma è anche vero che san Paolo ha aggiunto: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annuncio”. Alle cerimonie entusiaste delle “Pachamama” è mancato questo aspetto. Anzi, durante il Sinodo si è scoperto addirittura che vescovi e preti in Amazzonia tacciono spesso sull’annuncio di Cristo e rifiutano di battezzare gli indios per non “rovinare” la loro cultura! Come se Cristo non fosse il compimento di ogni religione e cultura!
(terza parte)
Ciò che ci qualifica non sono i nostri impegni sociali, ma la testimonianza di Gesù Cristo in noi, l’amore con cui io mi avvicino a un’altra persona. Un missionario, il fiorentino Allegrino Allegrini, mi ha raccontato gli inizi del suo del suo lavoro in Giappone.
Soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale per lo shock che avevano ricevuto, molti giapponesi volevano convertirsi, cercando conforto nella fede, sia quella tradizionale che la cattolica. E lui, missionario agli inizi, non sapeva bene la lingua e dando lezioni di catechismo, si sbagliava a parlare e allora si arrabbiava e poi si correggeva.
Ad ogni lezione sbagliava e si correggeva. A un certo punto, una signora giapponese gli dice: “Padre lei non deve preoccuparsi se non parla la lingua in modo fluente. Noi abbiamo capito l’essenziale: che lei ci vuole bene e questo è il motivo per cui continuiamo a venire al catechismo”.
La missione è anzitutto portare la gioia del Vangelo, Gesù Cristo nel mondo. Questo farà superare la tensione tra tradizionalisti e progressisti, e permetterà un’integrazione di queste due correnti che stanno dilaniando la Chiesa.
Questo è il senso per cui il papa chiede di riprendere la Maximum Illud: riscoprire che l’identità del cristiano non sono le cose da fare, ma è l’essere di Cristo, la persona di Cristo. Per me e per la mia vocazione è stata importante la scoperta di un brano di san Paolo: “L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2 Corinti 5, 14-15).
Ossia: l’amore di Cristo è diventato così importante, l’abbiamo vissuto in modo così importante e ci ha abbracciato così forte, che noi non possiamo più vivere per noi stessi, ma la nostra preoccupazione è la missione, che le persone conoscano questa grazia, questo amore. In stretto collegamento con questa sottolineatura ve n’è un’altra: è urgente ridestare la coscienza cattolica di chi è Gesù Cristo, ossia il Salvatore del mondo, Colui che ha trionfato sulla morte (la sua e la nostra).
È troppo facile ridurre Gesù a uno psicoterapeuta, a cui ricorrere solo nei momenti tristi; o a un ricordo lontano che non incide sulla vita di tutti i giorni. La coscienza che Lui è la salvezza dalla morte ci aiuta a vivere “l’ospedale da campo” della Chiesa e del mondo con una speranza che non arrugginisce.
Come per la Samaritana (Giov. 4), abbiamo trovato Cristo Salvatore del mondo, e ci sentiamo in dovere di comunicare questo al mondo intero. Nel comunicare Cristo come Salvatore, noi comunichiamo anche una nuova dignità alle persone che incontriamo e a cui testimoniamo la fede.
Un problema che in missione viviamo spesso è che in questi Paesi ci sono ingenti bisogni immediati. Ci si esaurisce nel creare pompe dell’acqua, edifici, scuole, dispensari: tutte cose belle e importanti. Ma se la missione non fa riscoprire alle persone attorno a me la dignità di essere figlio di Dio, se un missionario non ha a cuore questo, è tutto quasi inutile.
Anche in Italia si rischia di dimenticare questa testimonianza: verso i migranti, ad esempio, si fanno tante cose, ma nessuno (o pochi) si preoccupano di avere a cuore la testimonianza di fede davanti a loro.
Molti migranti che vengono in Italia sono cristiani e quindi avrebbero bisogno di essere aiutati a vivere la loro fede. Ma lo stesso vale nei confronti dei migranti musulmani. Molti di loro rimangono scandalizzati quando vengono in Italia, o in Europa perché vedono gente che non prega, gente senza Dio.
Se invece incontrano persone che hanno fede, che la testimoniano, si sentono confortati. Invece, tanto lavoro verso di loro, anche da parte di cristiani, è molto spesso solo sociologico.
Laici, cioè battezzati
Un ultimo punto che vorrei sottolineare è il valore dei laici nella missione. Benedetto XV lo sottolinea nella Maximum Illud e anche papa Francesco in molti suoi discorsi. Ciò che ci rende missionari è il battesimo.
La testimonianza dei laici è fondamentale soprattutto per guarire l’indifferenza verso Dio e verso il prossimo che regna nella società. Molto di più dei sacerdoti, i laici sono davvero nelle pieghe del mondo: col collega di lavoro che non crede più; col vicino di casa, dalla fede intiepidita; con il musulmano o l’indù a scuola…
Noi preti dovremmo aiutare i laici ad avere coscienza del loro battesimo e che sono missionari ovunque. In passato c’era la mentalità che missionario è il prete, il vescovo, i missionari. Ai laici restava solo il sostegno economico delle missioni con qualche offerta.
Oggi è diventata importante la testimonianza della fede dei laici come umanità vera: nel matrimonio fra uomo e donna, vissuto con fatica, ma anche con letizia; nel lavoro che ha l’orizzonte del bene sociale, non solo lo stipendio; nella politica per il bene comune e non per le poltrone.
Anche in Paesi “di missione” la testimonianza dei laici è fondamentale. A Hong Kong tante conversioni di cinesi avvengono attraverso le domestiche che lavorano nelle loro case.
Le domestiche, filippine e cattoliche, con il loro servizio, la tenerezza verso i bambini, il loro amore verso la casa, verso i loro padroni, aprono il loro cuore fino a spingerli a chiedere il battesimo.
I laici hanno un potenziale missionario importantissimo. Per questo si fa missione in comunità con i laici, che non sono semplicemente gli esecutori del prete, ma sono i collaboratori, i consiglieri. Certo il sacerdote ha una funzione paterna per sostenerli, scuoterli, correggerli, ma ha bisogno di loro nella semina.
Sollecitudine per tutte le chiese.
Un’ultima cosa: papa Francesco e Benedetto XV sottolineano che la missione ad gentes è paradigma di tutta l’attività missionaria della Chiesa: Ciò significa che occorre sempre avere dei missionari ad gentes, che vanno fuori dei propri confini, che vanno a trovare il modo di integrarsi nelle altre culture per portare il Vangelo.
Benedetto XV sottolinea di continuo che noi battezzati siamo responsabili di tutta la missione della Chiesa. Ad ogni diocesi serve sempre una punta che agisca da paradigma perché altrimenti rischiamo di dire sempre: “Tanto la tua missione è qui, la tua missione è qui”.
Sì, la mia missione è qui – o dove manda lo Spirito – ma il desiderio è sempre universale. Anche se io sono dentro una prigione, io sono destinato a portare l’annuncio di Cristo a tutto il mondo.
Nella mia vita ho incontrato persone che hanno passato decine di anni in prigionia, a causa della fede, in Cecoslovacchia o in Vietnam, o in Cina. Eppure essi hanno vissuto i loro anni in catene nel desiderio e nella preghiera di evangelizzare il mondo.
Nella Seconda lettera ai Corinti (11,28) c’è una espressione che san Paolo usa per elencare le caratteristiche dell’apostolo. L’espressione è “sollecitudine per tutte le chiese”: io non sono responsabile solo della mia parrocchia, o del mio gruppo, ma sono chiamato come San Paolo a vivere la preoccupazione, il sostegno, la preghiera, il dono di me stesso per tutte le chiese.
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[Ndr. L’articolo è stato pubblicato in tre parti su AsiaNews.it. Rassegna Stampa lo propone in versione integrale]