di Giulio Lanza
Un grande successo di pubblico ha consacrato la popolarità di Joker, il film hollywoodiano realizzato magistralmente e presentato per la prima volta lo scorso 31 agosto al 76esimo Festival Internazionale del Cinema di Venezia, dove è stato riconosciuto meritevole del premio più alto, il Leone d’Oro.
Un grande cast, a partire dal protagonista Joaquin Phoenix, del quale è superfluo evidenziare la strepitosa interpretazione. Robert De Niro ha un ruolo secondario ma di fondamentale importanza per lo sviluppo della storia. Molte scene riprendono film di Martin Scorsese, come quando in “Taxi Driver” proprio De Niro simulava di parlare con sconosciuti mentre era da solo nella propria squallida stanza.
Una colonna sonora che si nota, potente e ricca di toni bassi, sia quella originale (pezzi come Confession o Call Me Joker), sia fatta di vecchi brani quali My Name Is Carnival, White Room, Smile, Everybody Plays the Fool, o pezzi di Frank Sinatra quali That’s Life e Send in the Clowns.
L’epoca in cui si svolge il film è imprecisata, con elementi anni ’70 e ’80 prevalenti, ma anche elementi della cosiddetta epoca d’oro del capitalismo americano, all’inizio del XX secolo (a un certo punto i ricchi del film – l’élite o establishment che apertamente attribuisce al proprio merito la ricchezza e il potere ottenuti – sono riuniti in un vecchio teatro per vedere “Tempi Moderni” di Chaplin), quando le differenze tra ricchi e poveri divennero esorbitanti: detto per inciso fu l’epoca in cui venne ideata la psichiatria di comunità dagli industriali che volevano rappresentare i problemi dei lavoratori come medici anziché sindacali; prima di allora la psichiatria era limitata agli ospedali psichiatrici e le persone non andavano a trovare uno psichiatra in ambulatorio; prima di allora lo psichiatra veniva associato non alla persona comune ma solo ai matti.
Nel film i “padri” di Joker sono due celebrità della TV: Robert De Niro, conduttore TV, e uno degli uomini più ricchi della città che si candida a sindaco, rappresentato dai media di Gotham City come l’unico che possa salvare una città in forte crisi e in piena decadenza.
La madre ha un ruolo edipico che resta imprecisato, in parte perché non si riuscirà a capire nemmeno alla fine se i suoi fossero deliri o se ci fosse stata invece una macchinazione del ricco uomo per il quale lavorava (il futuro candidato sindaco) in modo da farla convenientemente rinchiudere in manicomio anche se sana, falsificando le carte.
Robert De Niro in questo film è, tanto per cambiare, perfetto: è un famosissimo conduttore di Talk Show americano, cinico e a suo modo saggio al tempo stesso. Si capisce da una delle scene iniziali che viene visto da Joker come il padre che non ha mai avuto: mentre guarda la TV dal letto su cui siede con la madre Joker immagina che la celebrità TV sarebbe disposta a mollare tutto il baraccone dello show e della celebrità pur di avere un figlio come lui.
Un altro elemento è il rapporto con un altro personaggio famoso, che forse è il padre biologico di Joker, il ricchissimo finanziere che si vuole presentare come sindaco di Gotham (nomignolo ottocentesco per l’urbe di New York City, riutilizzato poi nei fumetti di Batman), una città oscura e popolata di super-ratti, come dice in modo quasi divertito il telegiornale cittadino.
Il politico è rappresentato come spietato, cinico, indifferente alle sofferenze del popolo: ricchezza e politica nel film vengono accomunate.
La psichiatria è rappresentata invece come l’ultimo barlume salvifico che i cattivi politici tagliano senza pietà per i poveri della città, a cui oltre alla televisione è rimasto poco altro: Joker assume 7 diversi farmaci, si presume tutti e 7 psicotropi. In parte nel film è presente una psichiatria de-medicalizzata, in cui una assistente sociale di colore vede Joker una volta a settimana per porgli svogliatamente ogni volta le stesse domande da brava burocrate.
Politica cattiva, psichiatria buona. Il film riesce a porsi come opera quasi filosofica o ideologica, avvantaggiandosi del fatto che la follia e la malattia mentale sono state per decenni, almeno a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, rappresentate come malattie organiche come tutte le altre, il cervello un organo come tutti gli altri, la psichiatria una specialità medica come tutte le altre.
Joker si rivela come un film sorprendente, facendoci in certo modo riscoprire – o quantomeno riflettere – sulle origini in buona parte psicologiche e sociali di ciò che identifichiamo comunemente come disturbi mentali o, secondo la terminologia del film, “condizioni” (il biglietto che Joker allunga o cerca di allungare allo sconosciuto di turno quando ride in modo discontrollato spiega infatti come lui non abbia una malattia o una diagnosi ma una “condizione”).
In realtà’ si potrebbe vedere, all’inverso, come sorprendente il fatto che per decenni la narrazione dominante ci abbia fatto quasi dimenticare di questa dimensione.
Solo qualche anno fa usciva ad esempio un libro, “Madness is Civilization” che aveva per sottotitolo “quando la diagnosi era sociale”: la narrazione dominante ha prima quasi impedito di pensare che la diagnosi possa avere elementi culturali o sociali, per poi quando il momento lo richieda, ovvero adesso, “scoprire” questa dimensione che così risulta sorprendente.
Il film senza dubbio alcuno stigmatizza la follia e la malattia mentale, accomunandole terribilmente, a dispetto delle campagne globali in corso per la de-stigmatizzazione dei disturbi mentali, a una criminalità che si fa spietata e, in modo crescente nel corso del film, senza una motivazione esterna; le motivazioni che inizialmente appaiono esterne e “comprensibili” nella loro causalità, anche se non giustificabili (ma lo spettatore è quasi portato a pensare che siano giustificabili), sempre più si interiorizzano e ci spingono a cercarne la causa in processi mentali quasi imperscrutabili.
Nel fare questo la narrazione ci trascina dal mondo esterno a quello interiore, che è precisamente uno dei maggiori effetti esercitati dal film sullo spettatore.
Da fuori a dentro. Joker fa identificare lo spettatore con un personaggio rappresentato come folle, malato, criminale, in cui anche gli “spettatori” che si trovano dentro il film, il popolo che si vede nel film, sempre di più sembrano riconoscersi.
I media nel film presentano Joker come un folle criminale che si veste come un clown, mentre il popolo quasi per istinto lo vede come un eroe che vendica le ingiustizie che tutti subiscono.
ll film sembra presentare allo spettatore una visione del popolo esattamente come l’establishment vuole che il popolo diventi e come vuole che venga rappresentato e come vuole che il popolo stesso si senta: liberato dalla propria inutile razionalità, orgoglioso della propria follia, apolitico e depoliticizzato, pronto per l’intervento dei due pilastri dell’ordine pubblico e della tecnica psichiatrica.
In due occasioni nel film questi elementi appaiono chiaramente: quando Joker è nell’ascensore dell’ospedale psichiatrico e un paziente legato alla barella viene accompagnato da un poliziotto e da un uomo in uniforme bianca, probabilmente un infermiere, così come in una delle scene finali in cui l’auto della polizia e l’ambulanza si scontrano per diventare il set di una festa folle e che non dura, l’insurrezione del popolo jokerizzato, selvaggio, criminale, folle.
Quando Joker finalmente va in TV allo show di De Niro, è lui stesso a smentire che ci sia qualcosa di politico in quello che ha provocato in tutta Gotham.
Interessante notare come poche settimane fa in Italia il comico e commediante Beppe Grillo si sia presentato in video con il trucco da Joker a un meeting politico di un partito di governo.
L’ideologia che sottende il film ha una logica precisa ed è interamente declinata dal punto di vista delle élites: insomma, a mio modo di vedere, è un film profondamente anti-democratico e addirittura anti-politico.
Il popolo è pazzo e va criminalizzato e psichiatrizzato (non demonizzato, quella era l’era del potere anche temporale legato alla religione). Il moderno eretico è il pazzo. Il modo per arginarlo non è più spirituale, un esorcismo ad esempio, ma tecnico: il contenimento attraverso la diagnosi e i farmaci.
Nel rappresentare il popolo come impazzito e orgoglioso della propria follia, persino finalmente liberato attraverso questa, si avvalora l’idea che il cittadino sia irrazionale, fuori controllo.
Chi affiderebbe i destini di una nazione o del mondo a qualcuno con queste caratteristiche? Solo un altro pazzo, appunto. Il campo del cittadino e del popolo non è più la cittadinanza politica: nell’ambito di questa infatti, come un bastone, i termini psichiatrici possono essere usati nel modo più stigmatizzante possibile contro l’avversario politico; l’unica speranza resta dunque diventare pazienti, in ogni senso, sperando che i servizi psichiatrici vengano graziosamente forniti in modo sufficiente.
La de-stigmatizzazione della diagnosi psichiatrica al di fuori della politica e dentro il contesto clinico è la carota. Diventa paziente e qualcosa ti sarà concesso, come minores trattati si spera bene.
Rifiutati e verrai contenuto comunque ma in modo più duro. A Nord di Hollywood, dalla Silicon Valley, la cosiddetta ideologia californiana ha lavorato da almeno due decenni per unire l’iperindividualismo libertariano e persino randiano al collettivismo marxista nei suoi aspetti di pretesa scientificità: nel nostro isolamento individuale sono le macchine, i software e gli algoritmi digitali a fare di tutti coloro che sono connessi in rete una collettività coordinata.
Viene anche alla mente il nome di Bogdanov, il medico e psichiatra fondatore con Lenin del bolscevismo, che scrisse la prima utopia di era sovietica, Stella Rossa, e ideò la disciplina della tectologia, una sorta di scienza generale dell’organizzazione che fu usata per la pianificazione economica in URSS e anticipò molti aspetti della cibernetica, fondamento della attuale rivoluzione dell’automazione.
Proprio in URSS, mezzo secolo dopo, con l’era Breznev, la cosiddetta psichiatria politica divenne preponderante: la dissidenza vissuta, prima ancora che rappresentata, come follia. I dissidenti non erano solo o semplicemente sani fatti passare per matti, ma li si vedeva come clinicamente irrazionali.
Si parlava di “schizofrenia latente” e di “deliri di riforma”. D’altra parte, come si fa a non pensare che in un sistema perfetto un dissidente con speranze di cambiamento possa essere del tutto normale?
Anche Andreotti a suo modo scherzò con la famosa battuta secondo cui ci sono due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che pensano di poter riformare le Ferrovie dello Stato.
Joker sancisce a livello di cultura popolare globale il cittadino che si fa paziente, orgoglioso di questo, che si sente liberato finalmente dal peso della razionalità e delle regole, quasi la fondazione di un partito anarco-individualista transnazionale schizofrenici.
Assistiamo all’interiorizzazione da parte del popolo di spettatori proprio di come le élites vedono il popolo, pronto a reclamare al modo del suddito l’aiuto psichiatrico di cui ha disperato bisogno, senza più pretesa alcuna di sovranità.
La psichiatra di colore della scena finale viene fatta fuori, come si può presumere dalle impronte di sangue che Joker lascia dietro di sé negli ultimi fotogrammi. In questo senso il film è anche anti-psichiatrico: il cattivo in cui il popolo si riconosce fa fuori la psichiatra buona, forse l’ultima possibile salvezza per chi ha perso completamente il senno, il controllo di sé, e ha sposato una volontà criminale e malata. Joker è uno di quei film diciamo pure imperdibili, da vedere sicuramente (nel mondo anglosassone è vietato ai minori e per ottime ragioni).
A mio modo di vedere Il messaggio antipolitico che veicola è devastante e fuorviante: il messaggio della Rivoluzione Globalista prossima ventura.
Da rinviare al mittente in toto e senza esitazione alcuna.