L’Italia ha visto sempre scegliere le sue élites in base alla vicinanza e all’obbedienza al potere piuttosto che al merito. A questa tradizione si sono sovrapposti dopo il ’68 una cultura dell’eguaglianza che ha ulteriormente mortificato il merito ed una decadenza culturale che ha affermato criteri di selezione più moderni ma anche più superficiali
di Lucetta Scaraffia
Sappiamo infatti che l’Italia è piuttosto refrattaria a ricorrere a categorie di merito quando si tratta di selezionare persone da assumere per un lavoro, a cui affidare compiti importanti, o da scegliere per un passo avanti nella carriera. È un po’ come se la pesante burocrazia dello Stato, all’interno dalla quale vale solo il criterio di anzianità, avesse dato uno stile poco competitivo a tutto il mercato del lavoro.
Ma se, di questa situazione, soffrono la nostra economia e la nostra ricerca, l’università e l’organizzazione sanitaria, sembrano soffrirne meno gli italiani, che da secoli sono abituati a muoversi nella vita sociale attraverso contatti personali, conoscenze se non proprio raccomandazioni, invece che contare solo sulle proprie capacità.
Perché la questione del merito è una questione storica, ancorata profondamente nella cultura di una popolazione, e l’Italia, governata per secoli dalle piccole corti – spesso rette da dinastìe straniere – o addirittura da potenze straniere, ha visto sempre scegliere le sue élites in base alla vicinanza e all’obbedienza al potere piuttosto che al merito. È quindi un’antica abitudine, molto radicata soprattutto nelle regioni del paese che non hanno conosciuto una rivoluzione industriale autoctona.
Perché anche la meritocrazia ha una storia, soprattutto se considerata come comportamento generalizzato, e non come caso eccezionale, che si è sempre verificato. Non poteva esistere meritocrazia in una società cetuale, in cui il posto di ciascuno era stabilito dalla nascita: in assenza di mobilità sociale, l’unica possibilità di ottenere qualcosa nella vita era la protezione di un potente.
L’unica istituzione che permetteva al suo interno una mobilità sociale, ottenibile grazie ad una selezione meritocratica, è stata per secoli la Chiesa cattolica: certo, anche in questo caso la meritocrazia doveva convivere con una selezione determinata dall’origine sociale ma, se pure parzialmente, funzionava. Basti ricordare ad esempio che Pio V, cioè Michele Ghislieri, era un pastorello e così anche il cardinal Poli, potente membro della corte di Urbano VIII. E altrettanto si può dire per molti santi, o fondatori di ordini religiosi.
Ma, Chiesa a parte, la meritocrazia come sistema di selezione si può sviluppare solo in una società aperta alla mobilità sociale, e individualista: il merito infatti può essere riconosciuto a una sola persona, non a un gruppo né a una famiglia. Quindi, la meritocrazia come sistema di selezione può affermarsi solo in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali.
Sono infatti modello di società meritocratica le società anglosassoni, in cui la democrazia e la rivoluzione industriale si sono affermate precocemente, creando così una cultura abituata alla meritocrazia, che la pretende e la controlla. Che magari può discutere la modalità in cui viene applicata, ma non mettere in discussione il metodo.
Da noi, si potrebbe dire da sempre, la meritocrazia non viene pretesa, né tanto meno si controlla che venga applicata: anzi, di solito viene dato per scontato che non sarà applicata. E le rare volte che viene applicata, invece di selezionare secondo le regole non scritte di clientelismo o anzianità, suscita vigorose proteste, perché si è venuti meno ad una convenzione implicita ma fortissima.
Si tratta allora di un’antica malattia, che però ha conosciuto dei momenti di flessione, se non proprio di guarigione, momenti in cui è stata tentata una via diversa. Sicuramente, tutte le volte che lo Stato italiano ha investito nelle scuole, ha imposto prima scuole elementari obbligatorie per tutti a fine Ottocento, con un programma unificato (Legge Ceppino), poi, con il centro sinistra a metà Novecento, con la scuola media unificata, c’è stato un investimento nella meritocrazia.
Scuole uguali permettono ai ragazzi di accedere a uguali possibilità -nonostante le difficoltà siano senza dubbio diverse a seconda della provenienza sociale – e quindi realizzano una selezione meritocratica. La nostra scuola ha svolto questa funzione, infatti, fino a qualche decennio fa, cioè fino a quando è stata una istituzione ben strutturata e severa.
La decadenza dell’insegnamento, infatti, il crollo di qualità subito dalla preparazione scolastica, ha significato innanzi tutto per la scuola la fine di questa funzione di strumento della mobilità sociale. In una scuola che insegna poco, che non da quasi nulla agli studenti, può andare avanti solo chi proviene da una famiglia che gli garantisce una cultura aggiuntiva, che gli insegna fin dalla nascita almeno un buon uso della lingua italiana, quindi solo chi parte già avvantaggiato.
La crisi della nostra scuola, soprattutto quella secondaria, ha determinato quindi la quasi totale scomparsa di quella tendenza alla selezione meritocratica che la scuola liberale in qualche modo aveva difeso, creando le condizioni per la sua esistenza. Oggi, che tutti sono promossi, che i titoli di studio non hanno più valore, è più facile che, nel selezionare, la meritocrazia lasci il passo ad altre forme di selezione, di tipo clientelare.
Ma nessuno sembra preoccuparsene e, quando si parla di necessarie riforme della scuola secondaria, sono evocate solo la necessità di rendere la scuola più vicina alla vita moderna, di rinnovare le forme didattiche: non si parla mai di ripristinare la severità necessaria ad una selezione meritocratica e chi lo fa – come ha provato la Gelmini – viene subito costretto al silenzio nello sdegno generale.
Il nostro sistema scolastico è stato ridotto così da una serie di interventi – avvenuti nei decenni post-sessantotto – finalizzati a garantire all’interno della scuola una totale eguaglianza fra gli insegnanti e negli alunni.
Il primo intervento è stato l’abolizione delle note di merito – o di demerito – agli insegnanti, che un tempo influivano anche sulla loro carriera e sulla destinazione della sede, e che erano assegnate dal preside dell’istituto in cui si trovavano ad insegnare. Certo, i presidi non erano una garanzia di equità ed equilibrio, la loro, sovente, era una forma distratta e molto soggettiva di valutazione, ma eliminarla senza sostituirla con altre forme di valutazione ha significato demotivare gli insegnanti.
Se il merito non viene riconosciuto, solo un senso del dovere molto spiccato – caratteristica non troppo diffusa – può garantire che l’insegnante dia il meglio di sé nel suo lavoro, e quindi tutta la scuola ne risenta.
Ma una spinta demotivante la può dare anche l’impossibilità di valutare con serietà il lavoro degli allievi: se tanto devi poi promuovere tutti, se viene cancellata la possibilità di valutare il loro rendimento – sappiamo tutti che i voti non ci sono più, sostituiti da lunghi e insensati commenti, in genere poco chiari, il giudizio – cessa anche quel circolo virtuoso che si creava fra studenti bravi e insegnanti appassionati, che spesso aveva anche la funzione di far migliorare la classe intera, coinvolta nella competizione.
Il concetto di uguaglianza, infatti, si è sempre dimostrato nella pratica nemico della meritocrazia: lo conferma anche la storia dei regimi socialisti, dove l’obbedienza politica ha sostituito ogni forma di selezione per merito. La dittatura infatti, in ogni sua forma, significa totale conformismo, e il conformismo, specie se obbligatorio, è stato sempre il nemico più accanito del merito.
L’uguaglianza è diventata un’ossessione, più che un processo di avvicinamento ad una realizzazione che si sa irrealizzabile, e il modo più facile di realizzarla sembra essere l’appiattimento di tutto verso il basso: la famosa distruzione dei campanili da parte dei giacobini si è poi ripetuta molte altre volte, in senso metaforico, sempre in nome dell’utopia dell’uguaglianza, dimenticando che i campanili non erano solo un simbolo di appartenenza religiosa, ma erano anche utili alla società.
Perché parlare di merito vuol dire accettare che gli esseri umani sono diversi fra di loro, che alcuni sono più dotati e altri meno, che alcuni hanno forza di volontà e stabilità psichica per cui riescono a raggiungere i loro obiettivi, altri no. Il merito, quindi, fatalmente mette in crisi un’utopia di uguaglianza esasperata, semplificata, che si può risolvere solo in un livellamento verso il basso.
Il fatto che l’uguaglianza sia poi un’utopia inattingibile costringe a riflettere sulle categorie attraverso le quali si opera la selezione, che ovviamente sono radicate nella cultura della società che esercita la meritocrazia. Perché alla fine ogni società deve selezionare, e se nega che esiste l’esigenza di una selezione, è più facile che la metta in atto attraverso criteri inconfessati, e quindi forse non condivisibili.
Se ci pensiamo bene, anche la scelta di donne giovani e belle invece che di donne preparate e competenti è una forma di meritocrazia, in cui le categorie sono discutibili e socialmente dannose, a meno che non si tratti di assumere ballerine di varietà.
Oggi, nella nostra società, per molte occasioni e incarichi, nei non numerosi casi in cui si riesce a operare una selezione meritocratica dei candidati, si vede che stanno prevalendo categorie molto legate alla moda del momento: a emergere infatti sono i “creativi”, quelli che si presentano come “originali”, o peggio ancora “trasgressivi”. Un esempio evidente è quello dei giovani scrittori emergenti: la categoria del “trasgressivo” è quella che viene più sovente evocata nei risvolti di copertina che presentano il libro.
Creando così una sorta di nuovo conformismo che si vanta di essere anticonformista, o peggio ancora “trasgressivo”. Un nuovo conformismo che fa nascere molti sospetti sulle categorie di merito che vengono prese in considerazione dagli editori quando decidono di pubblicare i libri: viene il fondato sospetto che un libro bello, ma che non rientra in questo “conformismo”, ma piuttosto si presenta classificabile come “tradizionale”, non sarà mai pubblicato.
E questo tipo di categorie sono utilizzate anche in altri tipi di lavoro, dimenticando che l’originalità è di pochi, mentre molti possono eseguire bene un lavoro seguendo regole tradizionali, ed essere così molto utili alla società.
In questa situazione caratterizzata da una quasi completa assenza di meritocrazia, e presenza di una meritocrazia marginale che si basa su categorie modaiole, è molto difficile educare seriamente i giovani. Da un lato, sembra del tutto inutile ogni fatica, dall’altro, si cerca di sviluppare doti di “creatività” che solo pochi hanno, creando frustrazioni, o false aspettative. Manca un modello positivo a cui possano ispirarsi tutti, che garantisca qualche possibilità di affermazione sociale.
Del resto, per giovani che non sono stati abituati alla competizione a scuola, che non hanno quasi mai sostenuto esami – essendo stati, quelli presenti nel curriculum scolastico, quasi tutti cancellati o resi immensamente più facili negli ultimi decenni – come saprebbero affrontare una selezione meritocratica seria?
Anche alla competizione ci si deve allenare, si deve imparare ad accettare le inevitabili sconfitte, e a sudare le vittorie. Oggi nessuno si prepara a questo agone: o aspettano di affermarsi grazie a favoritismi personali o familiari, che comprendono anche ovviamente favori sessuali, o con le loro doti naturali, come il bell’aspetto o la “creatività”. Difficilmente con il lavoro di una seria preparazione.
Rimangono in Italia alcuni collegi universitari – come il Sant’Anna di Pisa, o il Ghislieri di Pavia – dove i residenti sono selezionati per merito, e per merito rimangono per tutta la durata degli studi universitari, nei quali gli studenti, oltre che di ottime condizioni di vita e di studio, godono anche di una continua possibilità di arricchimento culturale attraverso conferenze e biblioteche, che sono stati frequentati dall’élites politica e culturale italiana.
Eco e Amato, Magris e Tato, per citare solo alcuni, sono stati selezionati così. Ma funzioneranno ancora, dopo la bufera sessantottina che ha coinvolto anche loro? È lecito avanzare qualche dubbio.
Una proposta drastica di ripristinare il merito nella selezione scolastica, e quindi nell’accesso alla cultura specialistica, l’ha lanciata una professoressa-scrittrice, Paola Mastrocola, nel suo ultimo libro Togliamo il disturbo. Il disturbo sarebbe quello degli studenti che non hanno alcun interesse per lo studio né alcuna disponibilità a imparare ma che sono costretti a continuare in omaggio all’ideologia ugualitaria, per cui la scuola sarebbe un diritto per tutti, fino all’università.
La Mastrocola propone invece che a continuare gli studi siano solo quelli veramente interessati e disposti a faticare, a impegnarsi. È il contrario del mito della “scuola di tutti”, del “diritto inteso come diritto di tutti ad ottenere un diploma o una laurea. Il ha dato luogo a discussioni vivaci, che fanno capire quanto ormai sia in crisi l’ideologia della scuola che deve accogliere tutti, che deve abbassarsi al livello dei meno dotati e dei più svogliati invece di selezionare i migliori.
La grave situazione che l’assenza di una cultura di tradizione meritocratica provoca nel nostro paese – che già si manifesta nel presente, ma ancora di più avrà effetto sul futuro – affonda le sue radici nella nostra storia, e quindi anche nella nostra tradizione culturale, a cui si aggiunge la decadenza culturale attuale, che, in caso di selezione, ha cambiato le categorie con le quali si misura il merito, proponendone altre più moderne, ma anche più superficiali.
Solo una vera rivoluzione culturale, che ci porti non solo ad accettare finalmente la selezione meritocratica come necessità sociale, ma anche a ridiscutere i criteri con cui il merito viene giudicato, può trasformare in positivo la società italiana, e renderla realmente competitiva con il mondo.