14 gennaio 2020
Si definiva uno spaccavetri. Ha sdoganato da sinistra il revisionismo sul Triangolo della morte e la “Chiesa rossa” dell’Anpi non glielo perdonò mai. L’assalto a Reggio fece storia. E quella volta su Rolando Rivi mi disse che… Ricordi sparsi su Giampaolo Pansa.
di Andrea Zambrano
Al telefono rispondeva perentorio col cognome: “Pansa”. Mi dava l’idea di essere in una fumosa redazione davanti a una macchina da scrivere, il cliché del cronista, intento a chiudere la sua pagina prima di mandarla in ciano.
Aveva poco tempo per ascoltarti, Giampaolo Pansa, e da giornalista di razza voleva andare subito alla notizia, saltando i convenevoli: “Ok, dai, sto bene, cosa vuoi?”.
I modi erano spicci, in realtà c’era anche un po’ di fastidio, ma sapeva capire quando qualcuno lo cercava per un motivo che avesse un senso. Io stavo lavorando al mio primo libro, dedicato al beato Rolando Rivi martire, ucciso nel ’45 in odio alla fede da un commando di partigiani comunisti.
Volevo sottoporgli il cuore della mia scoperta: Rolando era stato portato a morire da giovani gappisti che lo conoscevano, del suo paese, quasi coetanei, invaghiti dal comunismo e dai partigiani rossi. Amici. Nella mia inchiesta trovai tutto: i nomi di battesimo e di battaglia, il diario del parroco, i testimoni, i famigliari, gli anni di oblio e menzogne, la copertura di un Paese intero, del Pci e della stessa Chiesa che non voleva spingersi oltre. Tutto a tacere.
Gli spiegai che mi aveva colpito come nella lettura della Positio super martyrium inviata in Vaticano per la beatificazione, per il contesto storico in cui maturò l’uccisione di Rolando, comparissero spesso degli stralci del suo libro Il sangue dei vinti. Gli faceva piacere, inutile nasconderlo: “Per forza, solo io ho denunciato queste porcherie da Sinistra”, gongolava mentre si dava dello “spaccavetri”.
Perché Pansa gongolava compiaciuto del suo successo editoriale e degli attacchi livorosi che riceveva dalla Sinistra che era stata la sua casa fino al 2003, anno in cui uscì il suo primo, scandaloso, libro che ha avuto come merito storico, giornalistico e politico di avere denunciato da Sinistra la guerra civile, gli ammazzamenti a caso e le vendette dei partigiani comunisti.
Il merito di aver ammesso che accanto alla guerra di Resistenza i comunisti ne stavano combattendo un’altra parallela e subdola: preparare il terreno ad una imminente rivoluzione comunista. E per questo travolgere, ammazzare sulla pubblica via e seppellire in fosse comuni preti, presunti fascisti solo sospettati di simpatie o neanche quelle, partigiani cattolici e gente comune con l’unico torto di non aver abbracciato il comunismo.
Volle leggere qualche passaggio e sentenziò: “Vai, è cotta. Non avere paura perché questi gendarmi della memoria vogliono solo intimidirti”. Fu come un’investitura e mi diede coraggio. Ma con Pansa c’erano state prima le recensioni a tutti i libri: me le faceva spedire in bozza dall’editore, la Rizzoli, e poi facevamo un’intervista. “Perché lo chiedo a te?”, mi diceva: “Perché sei un reggiano che non ha l’impiccio dell’ideologia”.
A Pansa interessavano le recensioni nella “sua” Reggio. Sua, perché la faccenda dell’altra faccia della Resistenza, quella raccontata dai vinti, gliel’aveva passata Adele Grisendi, compagna di una vita, reggiana e scrittrice, che gli è rimasta accanto fino all’ultimo. E perché Reggio era il cuore delle sue ricerche.
Ricerche che non furono altro che una immensa nobilitazione della storiografia cosiddetta di Destra, detta sprezzantemente “revisionista”, finalmente uscita dalle fogne e emersa dalla sua penna. Questo è il merito di Pansa, che in fondo, non scoprì mai atrocità che non fossero già state denunciate da un Giorgio Pisanò o da uno dei tanti storici locali fuori dal sistema, a volte la fonte erano gli stessi istituti storici della Resistenza: prendere l’immenso corpus di padri di famiglia innocenti e ammazzati senza un motivo, per pura vendetta ideologica e dare a queste storie il privilegio della memoria che fino ad allora era impossibile, imprigionata com’era dalla vulgata resistenziale e dalla politica sua complice. Rossa anch’essa.
E Reggio fu il punto centrale della sua “svolta”, il luogo dove si compì la sua redenzione alla causa del revisionismo storico. Il luogo in cui dovette chiedere scusa a Otello Montanari per averlo liquidato ai tempi del Chi sa parli. E a Reggio – mai amato dalla politica e dai giornali – veniva a presentare i suoi libri, spesso in prima nazionale. Il 17 ottobre 2006 è una data che Pansa fissò così impressa nella memoria da farci sopra anche un libro, l’anno successivo, I gendarmi della memoria dedicato a quella Sinistra che voleva tenere in pugno la guerra civile.
Presentava in prima nazionale La Grande bugia, il terzo libro del cosiddetto Ciclo dei vinti. Presenti i vertici editoriali Rizzoli, il giornalista Aldo Cazzullo a intervistarlo e tanti reggiani finalmente usciti dalle fogne. Poco prima dell’inizio fecero irruzione alcuni skinhead di sinistra, si piazzarono davanti esponendo lo striscione – vergognoso – “Triangolo rosso nessun rimorso”. Iniziò un parapiglia. Alcuni presenti, tra cui Luca Tadolini cercarono di toglierlo.
Tadolini era una delle conoscenze di Pansa. Avvocato reggiano, storico e ricercatore del Centro Studi Italia sui delitti della Resistenza, autore del martirologio dei vinti. Uno dei tanti storici locali sdoganati da Pansa. Ancor oggi lo ricorda così: «A Pansa abbiamo dato tutte le nostre ricerche faticosamente raccolte sul territorio, ma che non sarebbero mai riuscite a superare la conventio ad excludendum contro la Destra – spiega alla Nuova BQ -.Lui era il grande giornalista della Sinistra italiana. Poteva farlo. E lo fece.
L’acrimonia della Sinistra e dell’Anpi e il carattere di Pansa dall’altro fece il resto. L’ho sentito l’ultima volta quando gli mori il figlio. Gli mandai la dedica della Decima Mas: “Le stelle brillano soltanto in notte oscura”.
Quella sera ci furono tafferugli. Questo video è un documento da far girare nelle scuole. C’è l’irruzione. Al minuto 2 e seguenti compare un signore di statura bassa, agitato, si avvicina ai facinorosi che stanno tenendo bloccata la serata con fare minaccioso e gli urla: «Siete fascisti rossi, io sono comunista da 50 anni e voi siete fascisti rossi».
Si chiama Antonio Rangoni ed è stato per anni l’archivista del Pci reggiano. Intellettuale fedele alla linea, ma libero, la sua conoscenza della storia di partito lo portò a violenti scontri con l’Anpi, contribuì alla risoluzione del caso don Pessina che aveva portato alla condanna ingiusta il partigiano Nicolini. Pagò per il suo desiderio di verità, scrisse libri sui delitti dei comunisti che nessuno volle mai pubblicargli. Lo sbarco in libreria di Pansa, di cui fu anche fonte, fu per lui una liberazione e un risarcimento.
«Fascisti rossi», urlava e accanto, poco dopo si può vedere un giovane Luca Telese chiedere il perché di quelle accuse: «Pansa prezzolato con l’infamia ci hai speculato». Il pubblico in sala gridava «Libertà, libertà», loro cantavano Bella ciao, e noi cronisti richiamati in tutta fretta dai capiredattori ci rendemmo conto che qualche cosa di serio stava accadendo.
L’arrivo della polizia scongiurò il peggio. Pansa rimase tranquillo, poi finalmente, la serata cominciò. Dal partitone rosso e dall’Anpi, gendarmerie della memoria, non arrivarono mai condanne né solidarietà. Queste erano le presentazioni dei libri di Pansa, segno che aveva toccato un nervo scoperto.
Da Sinistra, appunto. Senza conversioni o rinnegamenti. Oggi chi ricorda Pansa lo fa perché negli ultimi anni aveva definito Salvini un «fascista» e su di lui si sta applicando lo stesso metodo Montanelli. Ma è un giudizio insufficiente. Perché Pansa non diventò di destra, ma rimase libero. E pagò con l’ostracismo.
L’ultima volta che ci sentimmo fu in occasione del suo libro Uccidente il comandante bianco dedicato alla straordinaria ed eroica figura del comandate Bisagno (Aldo Gastaldi), sulle cui cause di morte da anni ci si arrovella: ucciso dai partigiani o vittima di un incidente?
Pansa sposò la tesi dell’assassinio per motivi politico religiosi. Una pista per un eventuale martirio in odium fidei? Lui ne era convinto. Potrebbe essere l’ultima eredità dello spaccavetri di Casale Monferrato.