Un libro che fa discutere racconta le colpe nella sparizione delle femmine in Asia. La giornalista americana Mara Hvistendahl accusa le politiche malthusiane che hanno promosso l’aborto selettivo delle bambine. “Un grande giallo storico, scritto con il senso di urgenza morale che accompagna la rivelatone di un crimine enorme”
di Nicoletta Tiliacos
Non solo con le omissioni e l’ostinata volontà di distogliere lo sguardo, ma attraverso politiche malthusiane messe in atto da autorevoli istituzioni internazionali, organizzazioni “filantropiche” per il controllo delle nascite, governi: tutti hanno fatto la loro parte, nella promozione degli aborti selettivi delle bambine, diventati la causa più imponente della loro sparizione dalle statistiche demografiche.E’ la tesi centrale di un libro che sta facendo molto parlare di sé.
Lo ha scritto la giornalista americana Mara Hvistendahl, corrispondente da Pechino della rivista Science, oltre che firma del Financial Times e di Foreign Policy. In “Unnatural selection. Choosing Boys Over Girls, and the Consequences of a World Full of Men” (PublicAffairs, 336 pagine, 26,99 dollari), la Hvistendahl racconta come gli aborti selettivi sulla base del sesso, diffusi in tutta l’Asia dall’inizio degli anni Ottanta, abbiano creato squilibri demografici oggi riconosciuti come devastanti, e come l’Onu, attraverso la propria agenzia per la popolazione (l’Unfpa, United Nations for Population Fund), vi abbia contribuito.
E appare tardiva e insufficiente, oltre che in sospetta coincidenza con l’uscita del libro della Hvistendahl, la diffusione a metà giugno di un rapporto congiunto di Unfpa, Alto commissario Onu per i diritti umani, Unicef e Organizzazione mondiale della sanità, nel quale, per la prima volta, si parla in modo esplicito della tragedia degli aborti selettivi delle femmine.
Il rapporto tra i sessi alla nascita (definito come il numero di maschi nati ogni cento femmine) è normalmente di 104-106 a 100. In condizioni normali rimane stabile nel tempo, a prescindere dalle zone geografiche, dalle condizioni economiche e dalle etnie. Questo significa che nelle situazioni in cui ci si discosta da quel rapporto è certamente intervenuta una causa artificiale.
Negli ultimi decenni è accaduto in India, dove la media è di 112 nati maschi contro 100 femmine (in alcuni distretti, per esempio nel Punjab, è di 132 contro 100); è accaduto in Vietnam, dove il rapporto tra i sessi alla nascita nel 2006 era di 110 maschi ogni 100 femmine, e sta raggiungendo la proporzione di 115 a 100. E’ soprattutto accaduto in Cina, dove ormai la media nazionale è di 121 maschi ogni 100 femmine (ma in alcune zone del paese, come nella città di Lianyungang, nella provincia del Jiangsu, ci sono 163 nati maschi ogni 100 femmine, secondo dati del 2007).
Fa parzialmente eccezione la Corea del Sud, che nel 1994 registrò quello che allora era il più squilibrato tasso tra i sessi alla nascita al mondo, con 115 maschi ogni 100 femmine. Furono adottate varie leggi che limitavano l’aborto e proibivano ai medici di rivelare il sesso dei nascituri, pena l’interdizione dalla professione. La situazione da allora è parzialmente riequilibrata, anche se rimane alta la cifra degli aborti clandestini, ai quali si usa ricorrere quando il primogenito è femmina (il divieto di comunicare il sesso del nascituro riesce a essere eluso).
La permanente carenza di donne in Corea del Sud ha comportato, tra l’altro, l’avvio di un fiorente mercato “importazione” di donne povere vietnamite, con aspetti da vera e propria tratta, messi in luce da Mara Hvistendahl come una delle ricadute fatali delle società a forte e innaturale prevalenza maschile. Il suo libro mostra inoltre come gli aborti selettivi abbiano raggiunto anche l’Azerbaigian, con un rapporto alla nascita tra maschi e femmine di 115 a 100; la Geòrgia, con 118 a 100; l’Armenia, con 120 a 100. E’ arrivata fino alle nostre porte, con 115 maschi contro 100 femmine in Albania, e soprattutto si riproduce nelle comunità cinesi, indiane e coreane in occidente, in generale, e in America, in particolare.
Quello che nel 2010 l’Economist ha definito “gendercide” sta producendo in ampie zone del mondo l’emergere di una “generazione XY” (la coppia di cromosomi del sesso maschile). Non c’è molto da stare allegri: “Storicamente, le società in cui gli uomini superano in modo sostanziale le donne non sono bei posti per vivere”, scrive la Hvistendahl, perché si dimostrano più instabili e inclini alla criminalità di quelle dove i sessi sono in equilibrio.
Il caso della Cina è esemplare. Dal 1979, a sommarsi alla tradizionale e ancestrale preferenza per i maschi nelle società asiatiche, è intervenuta la politica del figlio unico obbligatorio, praticata con metodi coercitivi e ricattatori. Se a una coppia è permesso un solo figlio, mettere al mondo una bambina significa sprecare l’unica occasione per avere un maschio, depositario del nome familiare e della speranza di aiuto per i genitori nella vecchiaia. Dunque assai più prezioso di una femmina, alla quale bisognerà dare una dote a vuoto, perché entrerà a far parte della famiglia del marito.
L’arretratezza e i pregiudizi patriarcali, anche là dove sono aggravati dall’obbligo del figlio unico, non riescono da soli, tuttavia, a dar ragione dell’attuale squilibrio tra i sessi in Cina e in tutta l’Asia, scrive la Hvistendahl. E’ stata l’introduzione di tecniche come l’amniocentesi e l’ecografia, promosse con ogni possibile incentivo nei paesi in via di sviluppo dai governi occidentali, dalle imprese interessate a vendere i loro macchinar! e soprattutto dalle organizzazioni internazionali per la pianificazione familiare, a rendere possibili gli aborti selettivi e quindi l’eliminazione di massa delle femmine: “Ci sono voluti milioni di dollari di finanziamenti da parte di organizzazioni statunitensi perché l’aborto sulla base del sesso prendesse piede nei paesi in via di sviluppo”, si legge in “Unnatural”.
Se l’alleanza fra repubblicani combattenti nella guerra fredda, preoccupati che la crescita della popolazione avrebbe alimentato la diffusione del comunismo, e scienziati di sinistra e attivisti, convinti che l’aborto fosse necessario sia per “i bisogni delle donne” sia per ”il futuro e la prosperità – forse per la stessa sopravvivenza – del genere umano”, come ebbe a dichiarare il responsabile medico della Planned Parcnthood Federation nel 1976, Malcolm Potts.
Lo stesso signore, nella stessa occasione, scrisse che nei paesi in via di sviluppo l’aborto è senza dubbio il miglior sistema di controllo delle nascite: “L’aborto precoce è sicuro, efficace, economico e potenzialmente il metodo più facile da amministrare”.
A questo proposito, sempre Douthat osserva che, sebbene il libro di Mara Hvistendahl sia pieno di scene impressionanti – dall’abbandono di bambine negli ospedali indiani alla propaganda che nei villaggi cinesi invitava all’aborto, nelle fasi culminanti della politica del figlio unico – nulla è inquietante come quei “passaggi che illustrano come occidentali progressisti si siano consapevolmente convinti che un minor numero di femmine può essere proprio ciò di cui le società del terzo mondo hanno bisogno”.
Il riferimento è al colloquio, riportato nel libro, tra l’autrice e il biologo Paul Ehrlich, uno dei maggiori artefici dell’ossessione antinatalista ed eugenetica occidentale, l’autore del famigerato “The Population Bomb” (1968). Tuttora convinto che sbarazzarsi delle femmine nei paesi in via di sviluppo con l’aborto sia un’idea lodevole, soprattutto perché evita che si facciano molte femmine nel tentativo di avere un maschio.
Torniamo un attimo all’esemplare caso della Cina, super laboratorio del fenomeno raccontato in “Unnatural Selection”. Nel 1978, un anno prima della promulgazione della legge sull’obbligo del figlio unico, Pechino aveva firmato un’intesa con l’agenzia per la popolazione delle Nazioni Unite. La quale, in cambio di finanziamenti cospicui – il più importante pacchetto di aiuti esteri accettato dal paese in vent’anni, ricorda la Hvistendahl – lo impegnava a politiche rigorose di contenimento demografico, sotto la supervisione dell’Unfpa. Che, da allora, ha sempre finanziato la politica antinatalista cinese.
Nel 1998, quando già erano stati denunciati da più fonti i sistemi autoritari di con-trollo demografico in Cina, l’Unfpa donò al governo della Repubblica popolare venti milioni di dollari. Soprattutto, l’agenzia dell’Orni ha coperto agli occhi del mondo, classificandole sotto la rassicurante definizione di “pianificazione familiare”, crimini come le sterilizzazioni e gli aborti forzati.
Silenzio assoluto anche sulle violenze contro i disobbedienti, che potevano andare dall’isolamento sociale e dalle pene pecuniarie fino alla distruzione della casa, alla confisca dei beni, alla prigione. Silenzio anche sulle visite ginecologico-poliziesche imposte ogni sei mesi a tutte le donne in età feconda, per controllare eventuali gravidanze “illegali”. E se una donna è “illegalmente” incinta in Cina non ha scelta: a qualsiasi stadio sia la gravidanza, dovrà abortire.
Tutto questo accade ancora, come ha raccontato sul Foglio del 9 maggio scorso l’americana Reggie Littlejohn, fondatrice di Women’s Rights Without Frontiere, impegnata da anni a spiegare in ogni sede possibile che gli orrori della politica del figlio unico in Cina non sono mai finiti, a dispetto delle dichiarazioni tranquillizzanti delle autorità di Pechino, alle quali si finge di credere per convenienza.
Sopravvive anche, soprattutto nelle campagne della Cina occidentale, l’usanza della soppressione delle neonate alla nascita. Annegate in un secchio di acqua bollente che, se si fosse trattato di un maschietto, sarebbe stata solo calda e sarebbe servita a lavarlo, o lasciate morire all’addiaccio (lo chiamano “sistemare una bambina”, come racconta la giornalista e scrittrice anglocinese Xinran, firma del Guardian, che ha appena pubblicato in Italia, con Longanesi, “Le figlie perdute della Cina”).
Fino a che punto si sia spinto l’appoggio dell’Unpfa alla politica cinese del figlio unico, nonostante sia impossibile immaginare che i suoi funzionari fossero all’oscuro di che cosa comportasse, lo testimonia la dichiarazione resa nel 1986 dall’allora direttore esecutivo dell’agenzia Gnu, Rafael Salas. Il quale, di fronte all’emergere di sgradevoli particolari, affermò che certi sistemi, “forse non del tutto accettabili per alcuni standard occidentali”, erano comunque rispettosi delle “norme culturali” locali (lo ricorda Eugenia Roccella in “Contro il cristianesimo”, edito da Piemme nel 2005 e scritto con Lucetta Scaraffia).
Tre anni prima, nel 1983, il ministro cinese per la pianificazione familiare, Qian Xinzhong, aveva solennemente ricevuto dalle mani del segretario generale dell’Onu, Javier Pérez de Cuéllar, il premio per la popolazione.
“Selezione innaturale”, scrive ancora Ross Douthat sul Nyt, si legge “come un grande giallo storico, ed è scritto con il senso di urgenza morale che di solito accompagna la rivelazione di un crimine enorme”. Quale sia il tipo di crimine “è la domanda che assilla il libro della Hvistendahl così come il più ampio dibattito sui 160 milioni di femmine scomparse”. Quel numero gigantesco evoca infatti “gli orrori dei genocidi del Ventesimo secolo.
Eppure, nonostante i saccheggi del Politburo cinese, la maggior parte degli aborti sono stati (e continuano a essere) non forzati”. L’establishment americano ha “contribuito a creare il problema, ma ora è in metastasi da solo: il movimento per il controllo demografico è l’ombra di se stesso, ma la selezione del sesso si è inesorabilmente diffusa con l’accesso all’aborto, e il rapporto tra i sessi si è squilibrato dall’Asia centrale ai Balcani, passando per le comunità asiatiche degli Stati Uniti”.
Tutto questo, aggiunge Douthat, “mette molti liberali occidentali, inclusa la Hvistendahl, in una posizione piuttosto scomoda”. L’autrice di “Unnatural Selection”, sente in continuazione il bisogno di giustificare lo spirito del proprio lavoro e non vuole assolutamente passare per una pro life: non mette in discussione il diritto pressoché illimitato all’aborto, si dichiara agnostica sul tema dell’inizio della vita, distingue tra un uso legittimo delle tecniche predittive nell’occidente evoluto, per conoscere eventuali anomalie fetali, e un uso cattivo che nei paesi in via di sviluppo ha portato allo squilibrio tra i sessi.
Ma così,. nota Douthat, l’autrice lascia insoluto il problema di definire, proprio a partire dalla sua “rivelazione di un crimine enorme”, quale sia la vittima. E non gli basta la risposta di Mara Hvistendahl, che parla della violenza delle società a forte prevalenza maschile, e della crescita della prostituzione e della tratta delle donne: “La tragedia dei 160 milioni di bambine mancanti non è che sono ‘mancanti’. La tragedia è che sono morte”, conclude Douthat.
Sulla stessa lunghezza d’onda è il commento di Jonathan V. Last sul neoconservatore Weekly Standard. Il quale elogia l’ottimo lavoro condensato in “Unnatural Selection”, ma ne critica le conclusioni, soprattutto quando la Hvistendahl passa ai suggerimenti su come l’abuso “potrebbe essere frenato senza violare il diritto delle donne ad abortire”.
E’ inutile, scrive Last, vietare di rivelare il sesso di un bambino ai genitori durante le ecografie o pretendere che i medici investighino con più accuratezza sulle motivazioni all’aborto di donne incinte di femmine, “perché l’aborto selettivo è ufficialmente contro la legge in India e in Cina, senza alcun risultato”. Il nodo è altrove, “perché se è la ‘scelta’ l’imperativo morale guida dell’aborto, allora non c’è alcun modo di prendere posizione contro la discriminazione sessuale”