Osservatore Romano 2 Marzo 2020
Chi denunzia il Vaticano deve offrire cifre attendibili ·
di Nunzio Galantino
Pubblichiamo integralmente la riflessione scritta dal vescovo presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa) sul numero di marzo del mensile «Vita pastorale».
«Un prete non sa rispondere a quanti continuano a ripetergli che il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato». Ha ragione questo prete a trovarsi in difficoltà. Mi troverei in difficoltà anch’io, ma non tanto per mancanza di risposta. Quanto piuttosto per una carenza fondamentale nella domanda, dal momento che chi continua a ripetere che «il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato» non offre nessun dato che permetta di verificare l’attendibilità dell’affermazione.
Da chi denunzia la rilevante somma che il Vaticano avrebbe evaso bisognerebbe farsi dire in base a quale legge, su quali immobili e in riferimento a quale periodo è stato quantificato il debito del Vaticano?
E poi, strettamente legati a questo tema, circolano su Internet e sui giornali i numeri più disparati circa le proprietà della Chiesa. C’è, addirittura, chi afferma che in Italia un immobile su quattro apparterrebbe al Vaticano o a enti religiosi! Si tratta, evidentemente, di dati fantasiosi e del tutto irrealistici, alimentati dalla leggenda delle immense ricchezze accumulate nel tempo dalla Chiesa cattolica.
Di fatto, la maggior parte dei suoi immobili sono chiese, che non rendono nulla e per i quali bisogna, invece, sostenere elevati costi di manutenzione. Torniamo al mito della Chiesa che non paga le tasse sugli immobili. In realtà, non è così e non lo è mai stato.
Per l’ennesima volta, bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto — quelli cioè che rendono davvero — da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni. In passato, le polemiche furono alimentate perché l’Ici (imposta comunale sugli immobili) prevedeva l’esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti (per esempio, scuole, mense per i poveri o centri culturali).
A tale proposito, è bene chiarire che questo tipo di esenzione non riguarda solo gli enti appartenenti alla Chiesa cattolica. Di questa esenzione hanno sempre beneficiato e beneficiano tutte le altre Confessioni religiose, tutti i partiti, tutti i sindacati e tutte le realtà che realizzano le condizioni previste dalla legge.
Il ragionamento che giustificava l’esenzione era semplice: i comuni rinunciano all’imposta, perché il vantaggio che la comunità riceve da tali attività è di gran lunga superiore. E questo lo sanno bene i nostri concittadini, i quali apprezzano il bene che viene fatto attraverso le opere caritative.
Contrariamente a quanto molti hanno scritto e continuano a scrivere, l’esenzione non si è mai applicata alle attività alberghiere, anche se gestite direttamente da istituti religiosi. Esse pagavano totalmente le imposte, mentre l’esenzione si applicava alle sole attività ricettive svolte senza percepirne reddito (per esempio, Case famiglia o strutture per l’accoglienza di profughi e senza tetto).
Per completezza di informazione vanno ricordate le dichiarazioni di Papa Francesco e quelle dell’allora Presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), il cardinale Angelo Bagnasco. Entrambi, in circostanze diverse, hanno ribadito il preciso dovere di pagare le tasse dovute sugli immobili di proprietà ecclesiastica che svolgono attività commerciali.
Io stesso, allora Segretario generale della Cei e in altra circostanza, ho invitato i giornalisti a smettere di diffondere generiche e non verificate notizie. Ho persino chiesto a coloro che fossero a conoscenza di evasione da parte di enti ecclesiastici, di denunciarli subito alle competenti autorità, assicurando il mio appoggio.
Non esistono studi seri che — numeri alla mano — quantifichino la misura delle esenzioni di cui hanno goduto gli enti non commerciali e ne determini la percentuale riferibile agli enti ecclesiastici.
Con il tempo, le imposte sono cambiate: ora ci sono l’Imu, imposta comunale sugli immobili, e la Tasi, tributo locale per i servizi indivisibili. Essi si aggiungono all’Ires, imposta di carattere nazionale che interessa le persone giuridiche. Agli enti non commerciali l’Ires si applica con l’aliquota ridotta del cinquanta per cento. Essi però, a differenza delle società commerciali, non possono recuperare l’Iva sui lavori e sull’acquisto delle merci.
Come ulteriore contributo alla chiarezza e per focalizzare il discorso su dati certi, riporto le tasse pagate nel 2019 in Italia dall’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), l’ente vaticano che gestisce gli immobili intestati direttamente alla Santa Sede: 5.750.000 euro di Imu e 354.000 euro di Tasi, versati per oltre il novanta per cento al comune di Roma, dove gli immobili si trovano.
Se aggiungiamo 3.200.000 euro di Ires, arriviamo a un totale di oltre 9.300.000 euro. Non proprio una bazzecola, tenuto conto che queste somme si riferiscono soltanto alla parte di beni amministrati dall’Apsa.
A queste somme va aggiunto quanto, con gli stessi criteri, pagano la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (Propaganda Fide), il Vicariato di Roma, la Cei, gli Ordini e le Congregazioni religiose. Varrebbe la pena, allora, partire da dati certi per avviare una riflessione seria, mettendo sul tavolo anche il valore di ciò che la Chiesa fa ogni giorno per il bene del Paese.
Non certo per la volontà di “contabilizzare” o “censire” la carità, che è stata fatta e continua a essere fatta silenziosamente in favore di tutti i bisognosi. Ma, piuttosto, per chiedere a quanti ci accusano di evasione, di partire dalla realtà dei fatti.