3 Marzo 2020
di Danilo Breschi
Titolo ad effetto, ma con motivi fondati. Comunque ragionati. Dunque, perché questo titolo? Per dire che la prima vittima della pandemia europea da coronavirus è e sarà l’Unione europea.
La crisi attuale è l’ennesima che comprova l’assenza di identità e di operatività politica dell’Unione. Per limitarci all’ultimo decennio abbiamo avuto la Libia e l’Ucraina. Si approssima la Turchia. La sola a cui è stata data una qualche risposta, anche se non sempre con intenti ed esiti unificanti (vedi Grecia), è la crisi finanziaria scoppiata nel 2008.
Per il resto è sempre emerso in modo lampante l’incapacità di darsi un coordinamento, di adottare una visione comune e rispondere come un soggetto politico unico e univoco. È vero che sulle politiche sanitarie l’Ue non ha poteri diretti di intervento, ma è sotto gli occhi e le orecchie di tutti il silenzio assordante delle principali autorità comunitarie nei primi dieci giorni di crisi da coronavirus.
Eppure in Italia eravamo abituati in quest’ultimo decennio a sentire riecheggiare tonitruanti le voci dei presidenti di commissione e dei vari commissari europei su cosa dovevamo fare o non fare.
Dal momento che il dittatore cinese Xi Jinping ha dovuto dichiarare ufficialmente che era in corso una grave pandemia nel proprio paese Commissione e Consiglio europeo avrebbero potuto suggerire l’adozione di una linea comune, indicare stesse regole da Parigi a Milano, da L’Aja a Berlino, e ciò avrebbe favorito tranquillità, contenuto tra la cittadinanza europea la psicosi e il panico inevitabilmente innescati dalla sarabanda mediatica che è la ragion d’essere, da sempre, dei mezzi di “comunicazione” di massa.
Spettacolarizzare significa deformare la realtà, mai riducibile a spettacolo, implica alterare la visione delle cose come effettivamente stanno, impedendo interventi su di essa effettivi ed efficaci.
La politica dovrebbe saperlo e non inseguire penosamente la logica dei mass e social media. Un leader mediatico è un non-leader, perché a guidare sarà il mezzo che determinerà anche stili di comunicazione e contenuti del suo messaggio. Finirà per inocularci spettacolarizzazione.
E saremo punto e daccapo: prenderemo fischi per fiaschi, lucciole per lanterne. Ma di guide, di leadership le comunità politiche hanno bisogno, pena sfrangiarsi prima, disgregarsi poi fra tribù e faide. La gestione delle emergenze è l’essenza della politica e quando queste esplodono, improvvise e imprevedibili come si conviene ad un’autentica emergenza, l’Ue mostra il fiato corto e i cittadini europei si riaffidano regolarmente ai governi nazionali, chiedendo loro quell’intervento protettivo in cui consiste l’origine storica della forma Stato.
Questa ennesima crisi, dunque, rende ancora più chiaro cosa sia in atto da alcuni anni a questa parte, oramai un decennio, nel continente europeo. A fronte di un mondo rimessosi velocemente e prepotentemente in moto, gli Stati riuniti nell’Unione europea si sono attardati nell’illusione di essere entrati in un’era post-storica.
Come ha ricordato Giulio Tremonti in una recente intervista, «per un glorioso trentennio, con la “globalizzazione”, un mondo artificiale, fantasmagorico e felice si è sovrapposto a quello reale. Si è pensato che fosse la fine della storia, il principio di una nuova geografia. Il coronavirus segna il ritorno della natura, il passaggio dall’artificiale al reale, come reale è appunto un virus. C’era stato un guasto, nel meccanismo, con la crisi finanziaria che ha prodotto effetti partiti dalla finanza per arrivare alla politica. Questo del coronavirus rappresenta un secondo guasto: un altro fattore di crisi del modello della globalizzazione».
Le parole dell’ex ministro risalgono allo scorso 12 febbraio, a conferma del fatto che la prima cosa che si dovrebbe richiedere ad un governante è l’intelligenza, la preparazione e la conoscenza dei temi su cui è chiamato ad amministrare ed operare, nonché la capacità di comprensione dei fenomeni in atto con una minima dose di previsione nell’analisi e di lungimiranza nell’adozione di provvedimenti legislativi.
Ma siamo purtroppo, in Italia più che altrove, nell’epoca del “direttismo”, come lo chiamava Giovanni Sartori, ossia nel tempo della ennesima mitizzazione della “democrazia diretta” e dell’“uno vale uno”. Il problema, diceva sempre il politologo fiorentino, è che «i direttisti distribuiscono patenti di guida senza chiedersi se i loro patentati sanno guidare».
E i risultati sono l’improvvisazione e il rincorrere i problemi, non monitorare quotidianamente la realtà e avvistare il primo, pur timido, affiorare di difficoltà e possibili attacchi. Come in altre occasioni gli Stati Uniti d’America si sono mossi in tempo, sia pure quasi al limite, per correggere errori e deviazioni che essi avevano contribuito massicciamente a favorire per una lettura sbagliata del post-1989.
Sempre Tremonti ci ricorda come Trump abbia «in realtà fermato lo scivolamento dell’America verso l’Asia, uno scivolamento prima considerato come inevitabile. Prima c’era un sistema di rapporti internazionali apparentemente multilaterali ed equilibrati, ma in realtà squilibrati verso la Cina.
Oggi si è passati da quello che era considerato il giusto global order a qualcosa di oggettivamente diverso che taluni chiamano global disorder. In realtà le condizioni che il Wto riservava alla Cina, considerato un paese in via di sviluppo e un paese in cammino verso la democrazia, sono via via svanite, con lo sviluppo di un’economia di comando che del mercato sfrutta gli elementi positivi e con un percorso verso la democrazia mai iniziato».
Tra le misure vincenti adottate da Trump vi sarebbero, ricorda sempre Tremonti, «la prima riforma fiscale fatta nell’età e per l’età della globalizzazione», con la detassazione degli investimenti e il rimpatrio dei capitali, nonché un forte ridimensionamento del peso della legislazione e della burocrazia interne.
A poco serve una politica economica interna senza politica estera dotata di visione strategica. Ed è così che Trump e la sua pur turbolenta (anche perché mediaticamente assai contrastata) amministrazione hanno ben compreso che i punti critici decisivi per il presente e il futuro americano (e occidentale tout court, dunque anche europeo), sono in Asia.
Non ha chiuso alla Cina, non potrebbe farlo e sarebbe controproducente, ma ha ricontrattato accordi concludendoli con condizioni maggiormente favorevoli all’America. Sempre in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese, la Casa Bianca ha avviato inediti rapporti con l’India, mai stato in precedenza partner politico e commerciale americano. Si chiama realismo politico, e in questo frangente paga chi sa adottarlo con misura e tempestività.
Un tipo di stile politico e commerciale la cui adozione l’Ue è ben lungi dall’avere anche solo ipotizzato, scegliendo con la Cina ben altro atteggiamento. E fu così che divenne il paziente zero. Possibilità di inversione di rotta?
L’Ue potrebbe iniziare con il dare qualche risposta affermativa alle richieste americane di stare lontani da Huawei e dalla sua infrastruttura 5G. Charles Kupchan, senior fellow del Council on Foreign Relations, tra i massimi politologi americani esperti di Cina e con un lungo trascorso al National Security Council, ha sottolineato come adesso «gli Stati Uniti cercheranno un’alternativa che metta intorno a un tavolo le principali economie di mercato al mondo».
Ha anche chiarito come tutto ciò «non sarà facile, perché in molti temono ripercussioni. I tedeschi ad esempio sono preoccupati, perché una volta esclusa Huawei dal 5G, la Cina potrebbe vendicarsi contro il settore tech o l’automobile. Lo scontro con Huawei è politica allo stato puro».
Se si vogliono davvero frenare pulsioni centrifughe modello Brexit nel nostro continente, occorre che l’Ue si decida a fare il grande salto, istituendo anzitutto un esercito comune di difesa e adottando una politica commerciale univoca e inequivoca verso la Cina. Ora, o mai più.
Non ci si potrà poi lamentare dei cattivi “sovranisti” (parola che non vuol dire sostanzialmente nulla, come molte del misero lessico postmoderno europeo). Se l’Ue c’è ancora, batta un colpo.