di Nicola Guiso
L’altro novecento. Comunismo eretico e pensiero critico è il titolo dell’opera, in cinque volumi, diretta da Pierpaolo Poggi — Segretario generale della Fondazione Micheletti di Brescia — della quale la Jaca Book di Milano ha pubblicato il primo volume L’età del comunismo sovietico (Europa 1900-1945), pp. 696, euro 40.
Alcuni, ricorda Poggi, a un certo punto dell’impegno culturale e politico hanno rinnegato quell’ideologia, denunciandone le conseguenze letali per la persona e per la società, che derivavano dai suoi princìpi e dagli strumenti realizzativi insiti in quei princìpi. Altri invece hanno reinterpretato l’ideologia comunista senza rinnegarne i princìpi e i fini, denunciando solo alcuni metodi di Lenin e di Stalin per realizzare il comunismo nell’Urss e nel suo impero.
Per Poggi il primo obiettivo dell’opera è quello «di portare alla luce un mondo che rischia di sprofondare nel nulla, ingoiato dall’implosione del sistema sovietico». Un mondo costituito da intellettuali e da dirigenti politici che in molti casi hanno pagato con persecuzioni, e anche con la vita, per mano di comunisti «ortodossi» le loro deviazioni e le loro abiure. È un obiettivo apprezzabile. Perché riproporre in modo organico la storia degli intellettuali e dei dirigenti politici che hanno abbandonato il comunismo, denunciandone le conseguenze letali per la persona e per la società insite nella sua ideologia, può aiutare a contrastare l’inquietante deriva culturale e politica che sta prendendo forza anche in Italia.
Giustificare senza negare
Una deriva che porta all’affermazione che la sconfitta del comunismo «realizzato» non sarebbe stata determinata dall’utopia disumana che ne era il fondamento, e dalle conseguenti scelte strategiche e tattiche fatte in Urss e nel mondo per realizzarla, ma dall’aggressione sistematica condotta contro l’Urss dall’Occidente, che considerava il Paese del comunismo il solo ostacolo che si opponesse alla volontà di imporre il dominio capitalistico su tutti i popoli del mondo. Un’aggressione — è il corollario della tesi — che avrebbe costretto i dirigenti sovietici a destinare enormi risorse ai comparti militare e spaziale, annullando gli sforzi del partito per realizzare la società dei liberi e degli eguali; che comunque era, resta, l’obiettivo finale, storicamente possibile, dell’ideologia comunista.
Questa interpretazione che si fa strada nell’orizzonte storico-culturale europeo e italiano non nega — sarebbe assurdo — gli spaventosi costi umani (decine di milioni di morti) e sociali (società moralmente devastate ed economicamente depotenziate) pagati dai popoli dell’impero sovietico e da molti altri Stati del mondo per edificare la società comunista. Ma li giustifica con la riproposizione aggiornata (nella forma) della tesi leninista (e di Trotsky, di Stalin, di Mao, di Castro, di Poi Pot, di Menghistu) che quando la rivoluzione è in marcia sulla via che porta all’uomo nuovo e alla società nuova dei liberi e degli eguali, non ci si deve fermare a contare i caduti.
A contrastare questi ritorni di giustificazionismo che si manifestano anche in Italia (due nomi per tutti: Canfora e Lo Surdo) ben venga dunque con il primo volume dell’opera diretta da Poggi il richiamo al pensiero e alle esperienze di personalità quali – tra le altre – Rosa Luxemburg, Arthur Koestler, Ignazio Silone, George Orwell, che subirono il fascino dell’ideologia marxista-leninista. Ma poi la rigettarono per aver sperimentato dall’interno del «movimento» (con l’eccezione della Luxemburg) le devastanti conseguenze per le persone e per la società dei tentativi per realizzarne gli obiettivi. È un valido contributo, infatti, a conseguire l’intento di non perdere la memoria di idee e di vicende che hanno segnato in modo tragico la storia del XX secolo.
Vittime della loro ideologia
Suscita invece perplessità il secondo obiettivo che Poggi assegna all’opera: dimostrare che riprendere in esame le idee e le esperienze dei comunisti «eretici» e dei marxisti «eterodossi» non ha «un interesse unicamente storico», perché possono rappresentare «dei referenti per il presente e il futuro. Certamente non dei modelli e degli ideali, ma una realtà eterogenea ancora ricca di vita e di possibilità».
Le perplessità nascono dal fatto che alcuni dei più rappresentativi degli intellettuali e dei dirigenti politici ricordati nel primo volume dell’opera hanno contribuito — e alcuni, come Trotsky e Bucharin, in misura determinante — alla realizzazione del regime comunista sovietico. E hanno pagato, anche con la vita, non il ripudio dell’ideologia che ne era a fondamento, ma le scelte operative per realizzarla di Lenin e di Stalin, dopo aver contribuito a metterle a punto e ad avviarne l’attuazione.
Trotsky, per esempio, prima di essere travolto dalle lotte di potere con Stalin – mascherate da dissensi sulla strategia da seguire dopo la morte di Lenin per accelerare l’attuazione del comunismo in Urss —, nella logica rigorosa dell’ideologia marxista-leninista aveva pianificato l’uso del terrore quale arma politica risolutiva, per vincere l’indifferenza o l’ostilità delle popolazioni nei confronti del potere sovietico.
Aveva ordinato il massacro dei 14.000 marinai «revisionisti» di Kronstad e dei loro famigliari. E quale capo dell’Armata Rossa si era reso responsabile dello sterminio di tre milioni di contadini «controrivoluzionari», e di migliaia di religiosi e di religiose che si erano schierati al loro fianco.
Grande intellettuale, Trotsky può offrire agli uomini del nostro tempo solo una significativa testimonianza della forza moltiplicatrice di danni che deriva da un’acuta intelligenza messa al servizio di un’ideologia nemica dell’uomo.
La stessa considerazione vale per Bucharin, come Trotsky assassinato da Stalin. E vale per Gyòrgy Lukàcs, uno dei punti alti, e tormentati, della cultura marxista-comunista europea del secolo scorso. Ma che nel suo agire politico, in Ungheria e in Unione Sovietica, fu sempre sostenitore della legittimità storica del comunismo «realizzato», come Bordiga in Italia. E quanto ad Antonio Granisci, credo che nulla di essenziale possano dare agli uomini del nostro tempo il suo pensiero e la sua azione politica.
Di lui si può apprezzare l’acutezza delle analisi e delle osservazioni su questioni importanti della società, della politica e della cultura dei primi tre decenni del secolo scorso. Ma per il suo leninismo di fondo – evidente nella funzione egemonica, totalizzante, da lui attribuita al partito quale strumento insostituibile della classe operaia al fine di guidare e di accelerare il corso della storia verso l’affermazione mondiale del comunismo – si colloca in radicale antitesi con le aspirazioni di libertà, di giustizia e di sviluppo civile e sociale degli uomini e dei popoli del nostro tempo.
Perché, per esempio, essi stanno riscoprendo il valore anche sociale, politico e istituzionale di quei princìpi religiosi che Granisci affermava fosse necessario sradicare dalla coscienza del popolo, quale condizione prima per modellare l’uomo nuovo e la società comunista.
Un errore antropologico
Per concludere: credo che tra i comunisti «eretici» e i marxisti-comunisti «eterodossi» possano avere qualcosa di utile da trasmettere agli uomini del XXI secolo solo coloro che, al termine del proprio itinerario culturale e politico, hanno saputo prendere atto — come ha affermato con sintesi e chiarezza esemplari Edmondo Berselli – che «il comunismo è un errore antropologico dal momento che la individualità umana comincia dall’unicità del patrimonio genetico, e che quindi la pressione dell’eguaglianza coatta risulta alla fine intollerabile.
Oppure prende atto che individualismo e comunismo rappresentano due tensioni inalienabili negli aggregati sociali, e che l’eliminazione forzata di un aspetto significa la riduzione automatica dell’intensità di vita: una semplificazione che richiede prezzi talmente elevati e così imprevedibili da risultare tollerabili solo nelle pagine di un libro e nelle menti infuocate di alcuni profeti».