La guerra nel Darfur sta facendo centinaia di morti, migliaia di rifugiati e quasi un milione di sfollati in Sudan. Una catastrofe che i rapporti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come la prestigiosa Human Rights Watch, chiamano ormai senza equivoci con un nome spietato genocidio.
di Massimo A. Alberizzi
La donna, Honoi Nur, è l’ultima arrivata degli oltre centomila profughi che hanno lasciato i propri villaggi nel Darfur, l’inospitale regione del Sudan Occidentale dove infuria la guerra civile. Si accascia sfinita su due sacchi di farina di sorgo, chiede acqua e fa fuori una bottiglia in pochi secondi. Prende flato e poi racconta: “Sono in cammino da 10 giorni. Farawiah, il villaggio in cui abitavo, vicino al confine, è stato attaccato dalle milizie arabe. Erano tantissimi, hanno messo tutto a ferro e a fuoco, ucciso gli abitanti e bruciato le capanne. Io sono riuscita a. fuggire perché sono svenuta e hanno creduto che fossi morta. Al momento dell’attacco ero davanti al pozzo assieme a tre uomini, fatti a pezzi a colpi di scimitarra”.
Cominciata in sordina poco più di un anno fa, la guerra nel Darfur sta facendo centinaia di morti, migliaia di rifugiati e quasi un milione di sfollati in Sudan. Una catastrofe che i rapporti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come la prestigiosa Human Rights Watch, chiamano ormai senza equivoci con un nome spietato genocidio. Gli abitanti del Darfur sono musulmani; ma non arabi. Appartengono a tribù africane che abitavano quelle zone molto, molto prima che i califfi importassero l’islam e Maometto.
Sono fur (da cui il nome della regione), zaghawa (i più numerosi), masalit, berti, midoub. Accusano il governo di Khartum di averli marginalizzati, di considerarli cittadini di serie B, di trattarli insomma come schiavi, loro che ne sono i discendenti.
Le richieste di maggiori garanzie, avanzate per anni, hanno preso corpo in due movimenti di guerriglia: lo Sla (Sudan Liberation Army, apparentemente laico) e lo Jem (Justice and Equality Movement, islamico e più politico che militare). Il regime militar-islamico di Khartum ha reagito con la solita spietatezza. Alla fine dell’anno scorso si è rifornito d’armi. Ha comprato 12 aerei da bombardamento Mig 21 e armi pesanti dall’Ucraina. Mediatrice dell’affare una società franco-algerina. E nel Darfur è cominciato l’inferno.
Zeinab Jabir ha 30/35 anni (lei stessa non sa quando è nata) e viene da Abu Gambra. “Siamo stati attaccati a mezzanotte – ricorda -. I janjaweed, i miliziani arabi, hanno circondato il villaggio e cominciato a sparare, a bruciare la capanne. Gli uomini sono stati ammazzati tutti, compreso mio marito”. Zeinab aveva tre figli: Yusef, 1 anno, Gizma, 3 anni, e Ilyas 5.
Le è rimasto solo il primo, perché fasciato alla sua schiena, come fanno tutte le mamme africane, quando è scappata. “Tenevo gli altri due per mano. Un janjaweed mi è saltato addosso picchiandomi. Mi ha strappato Ilyas. Ho cercato di lottare per riprenderlo, ma non ci sono riuscita. Ho lasciato la mano di Gizinà che mi è stata portata facilmente via da un altro arabo”.
I miliziani janjaweed, longa manus del regime sudanese, sono utilizzati da oltre vent’anni contro un’altra guerriglia, quella cristiano-animista guidata dall’spla (Sudan People’s Liberation Army) che si combatte nel sud. Si tratta di mercenari ben armati e organizzati dall’esercito. Si muovono in gruppi di 50 o più uomini a dorso di cammello o di cavallo. Avvolti in turbanti bianchi, usano armi tradizionali, scimitarre e coltelli, ma anche fucili automatici. il loro compito è terrorizzare le popolazioni non arabe massacrando, stuprando, mutilando. Hanno ordini precisi: distruggere i neri, gli africani che abitano il Darfur e occupare le loro terre”.
Il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, durante il discorso di commemorazione del genocidio del Ruanda, il 7 aprile scorso, ha fatto esplicito riferimento al Sudan: “C’è il rischio spaventoso di un altro genocidio” ha detto. Il genocidio è già in atto ma la comunità internazionale, nonostante abbia chiesto scusa per non essere intervenuta in Ruanda nel 1994, non pare voglia rendersene conto.
Lacrime da coccodrillo. Il 7 maggio scorso il Consiglio di Sicurezza ha escluso ogni intervento: “Stiamo a guardare, monitoriamo” nonostante la stessa commissione dell’onu per i diritti umani parli di atrocità commesse contro la popolazione civile, pulizia etnica e di “regno del terrore in atto”. Un copione già visto.
L’Unhcr, l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, sta facendo un lavoro enorme. Sostiene finanziariamente parecchie Organizzazioni non Governative; ha aperto ospedali, campi d’accoglienza, centri di distribuzione del cibo. Ma non è sufficiente. “Abbiamo dovuto spostare i campi lontano dal confine. I janjaweed infatti entrano in Ciad, attaccano i rifugiati, rubano i loro armenti e saccheggiano le tende in cui sono alloggiati” spiega Héiène Caux che lavora per l’Unhcr ad Abechè, la città ciadiana a sei ore di pista dai confine.
In Ciad i profughi sono almeno 120 mila e la loro situazione sanitaria è assai precaria: “Sono raddoppiati i casi di diarrea-spiega Camillo Vaiderrama, un medico colombiano impegnato a Bahai con l’organizzazione International Rescue Committee -. Abbiamo il cibo, ma non i mezzi per distribuirlo”.
La preoccupazione maggiore è per la sorte del milione di sfollati che sono rimasti in Sudan. Hanno abbandonato i loro villaggi e cercato rifugio nelle campagne desolate, dove non c’è acqua e il cibo è scarsissimo. Isolati, non ricevono nessun aiuto dalla comunità internazionale. Il governo sudanese impedisce ogni accesso agli operatori umanitari, i permessi di viaggio vengono rilasciati con il contagocce.
“Sappiamo che con l’arrivo della stagione delle piogge, a fine maggio, la situazione peggiorerà sempre più. Sarà una catastrofe. Le strade diventeranno impraticabili, le zanzare divoreranno la gente, portando malaria, l’acqua si inquinerà con conseguente colera – spiega Vincent Dupin, che coordina i lavori di Norwegian Church Aid -. Abbiamo bisogno di altri fondi, ma è difficile trovarli perché l’Occidente è “lontano” e il genocidio nel Darfur non interessa”.