di Antonio Giuliano
Abituati purtroppo alle notizie di cristiani perseguitati negli angoli più remoti del pianeta, si fa fatica a credere che anche in Italia, nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle, si poteva morire per fede su una pubblica piazza. Ecco perché è finita nel dimenticatoio la storia di Angelo Minotti, che ritorna ora alla luce grazie a un prezioso libretto Martirio al Santuario (D’Ettoris Editori, pp.100, euro 11,90) di Roberto Marchesini, con prefazione di Marco Invernizzi (verrà presentato lunedì 13 giugno alle 20 a Rho presso il Collegio dei Padri Oblati Missionari).
Rientrato a casa dopo trenta mesi di prigionia e otto anni di servizio militare, ricominciò a impegnarsi nell’Unione giovani cattolici di Rho e nel servizio di catechista presso l’oratorio San Luigi. Ma il suo attivismo aveva i giorni contati.
Il 13 giugno del 1920, domenica del Corpus Domini, i fedeli di Rho si trovavano sul piazzale del Santuario della Beata Vergine Addolorata. Un gruppo di socialisti arrivati da Milano fece irruzione con insulti e bestemmie, bruciando lo stendardo del comune. Quelli che tentarono di reagire furono presi a bastonate. Un oblato, padre Rebuzzini, venne ferito gravemente con un colpo di bastone sul capo. Partirono dei colpi di rivoltella. Uno centrò Natale Schieppati ma l’orologio da tasca deviò il colpo e riuscì a salvarsi. L’altro prese in pieno Angelo Minotti, che morì dopo mezz’ora di agonia.
Il clamore fu enorme in città. Il giorno dopo una folla immensa prese parte al funerale. E Minotti, dicono le poche testimonianze, fu sepolto in terra comune perché era un pover’uomo. Le cronache dei giornali furono beffarde. Il quotidiano socialista L’Avanti e quello anarchico L’Umanità Nuova accusarono i cattolici di aver aggredito con le armi la manifestazione socialista.
Non ci fu alcuna inchiesta sull’omicidio. Perché tanta intolleranza e perché fu scelto come bersaglio proprio Minotti che tutti descrivevano come giovane «pio e laborioso, incapace di male»? Il libro riapre il caso ricostruendo il contesto infuocato di quegli anni, senza del quale la vicenda risulterebbe davvero incomprensibile.
Alla fine della prima guerra mondiale si era aperto uno dei periodi più difficili per il nostro paese, passato alla storia come Biennio Rosso (1919-1921). La disastrosa situazione economica post conflitto aveva provocato gravi disordini sociali con scioperi e occupazioni delle terre, e regnava un clima di forti contrapposizioni identitarie tra liberali, fascisti, socialisti e cattolici. In particolare, era diffusa tra i socialisti la convinzione che fosse ormai replicabile la rivoluzione russa. Si accesero così gli animi dei rossi contro i cattolici: frequenti erano gli assalti alle chiese e numerosi i tentativi di incendio dei circoli e delle sedi delle associazioni, soprattutto nella diocesi di Milano.
I credenti vivevano nel terrore di manifestare pubblicamente la propria fede. Già però nel 1906, il cardinale Ferrari aveva dato vita all’Unione giovani cattolici milanesi, di cui faceva parte anche Minotti. Questo gruppo di ragazzi, a cui il cardinale chiese di porre un freno alle violenze, fu il primo nucleo dell’Avanguardia Cattolica, una singolare associazione di cattolici con «la spada dietro l’armadio», secondo una definizione del cardinal Montini (poi Paolo VI), una realtà che il libro di Marchesini ha il merito di rispolverare.
Contro ogni ideologico pacifismo moderno questo gruppo ammetteva anche l’uso della forza per difendere la propria fede. Si diventava “avanguardisti” in base all’intensa vita spirituale e anche a una certa prestanza fisica. Il loro compito principale era la difesa fisica delle celebrazioni religiose, delle processioni e delle istituzioni cattoliche, sempre con un occhio alla formazione culturale e spirituale dei candidati. «O Cristo, o morte!» era il loro esplicito motto.
Negli anni l’Avanguardia si diffonderà anche fuori dal Milanese arrivando a contare anche 70 gruppi e circa 1500 iscritti. E il loro impegno si distinguerà poi contro lo squadrismo fascista, nell’ambito delle formazioni partigiane cattoliche o a fianco dei Comitati Civici di Gedda nelle elezioni del 1948 per far vincere la Dc contro il Fronte Popolare (Pci e Psi). Fino all’ultima apparizione pubblica dell’Avanguardia nel 1957.
A testimonianza del loro generoso impegno, non solo l’incoraggiamento di Papa Pio XII in udienza nel 1948. Ma soprattutto Montini che ancora nel 1955 li incitava: «Vorremmo che voi deste tuttora l’esempio di una affermazione di coraggio, di coerenza cristiana, di forza o di vittoria sulle inibizioni interne, sulla viltà, sul rispetto umano, a tanta parte della gioventù d’oggi, stanca e dubbiosa. Buona cosa quindi, che voi siate il sale di questa gioventù; che facciate vedere il vigore col quale bisogna combattere le battaglie di Cristo; come la Chiesa abbia bisogno di avere dei figli che le si donano completamente, pronti ad esporre le proprie persone senza domandare nulla, desiderose del rischio e dell’affermazione pubblica».
Proprio come Angelo Minotti, un martire italiano. Una storia d’altri tempi, più forte dell’odio, antico e ancora vivo, per chi ha scelto di seguire Gesù di Nazaret.