«Hezbollah ha difeso il Libano da Israele ma non per questo può usare le armi in politica e pretendere di rappresentare la comunità sciita. I partiti muoiono, la comunità resta». A parlare a Tempi.it è Ibrahim M.M. Shamseddine, libanese figlio dell’imam Shamseddine, il secondo presidente del Consiglio supremo islamico sciita. Parla della situazione del Libano e dei cristiani: «I cristiani libanesi non sono intrusi. I musulmani non solo li vogliono, ne hanno bisogno»
di Leone Grotti
I partiti nascono, crescono e muoiono: la comunità invece resta».Ibrahim M.M. Shamseddine è libanese, musulmano e sciita e ci tiene molto che l’ordine dei tre elementi che costituiscono la sua identità non vengano invertite. È figlio dell’imam Mohamed Mahdi Shamseddine, il secondo presidente del Consiglio supremo islamico sciita. Nato in Iraq, la sua famiglia è stata esiliata da Saddam Hussein, emigrando in Libano.
Il 13 aprile 1975, data d’inizio della guerra civile libanese, Ibrahim Shamseddine è a Beirut, ha 14 anni, lo stanno operando di appendicite e «ho sentito gli spari sotto il palazzo dove mi trovavo». Il 13 ottobre 1990, quando è finita la guerra civile, è sempre a Beirut.«Ho 52 anni oggi, sono cresciuto con la guerra civile e sono stato testimone di tutte le guerre libanesi» racconta a Tempi.it in occasione della sua visita all’Italia per presentare “Il rischio educativo” di don Luigi Giussani, invitato dal Centro culturale di Milano.
«Ero lì durante l’invasione di Israele e sono lì ora. Ho perso molti amici. Non mi sono mai sentito minacciato da un cristiano in tutta la mia vita, anche durante la guerra, lo stesso non posso dire dei musulmani». Difensore della convivenza pacifica, «essenziale per il Libano», tra musulmani e cristiani, il fondatore dell’Imam Shamseddine Foundation for Dialogue di Beirut e presidente dell’Associazione per la carità e la cultura analizza i problemi del suo paese e indica come può uscirne.
Perché sostiene che Hezbollah non rappresenta gli sciiti?
«Intanto facciamo chiarezza sui termini: gli sciiti in generale non esistono, ci sono i libanesi musulmani sciiti. Questa è la gerarchia che definisce la loro identità. L’appartenenza nazionale viene prima, perché non esiste un movimento sciita internazionale a cui i libanesi sciiti sarebbero connessi. Come voi siete italiani, noi siamo libanesi. Poi siamo musulmani e infine sciiti».
Il vostro partito politico è Hezbollah, però. Giusto?
«Ogni comunità in Libano ha un partito politico e quasi tutti dettati da una appartenenza confessionale, legati a una comunità specifica. Questo non significa che un partito politico sia l’unica manifestazione della comunità. Un partito interno alla comunità non potrà mai pretendere di rappresentare tutta la comunità. Hezbollah è il partito più forte, ha moltissimi seguaci, ma non è “il” partito sciita, bensì “un” partito sciita. Non ha mai rappresentato e non avverrà mai che rappresenti tutta la comunità».
Però Hezbollah pretende di rappresentare la comunità sciita.
«Lo so, nessuno l’ha mai fatto prima di loro. Mio padre è stato il secondo presidente del Consiglio supremo islamico sciita: neanche lui pretendeva che il Consiglio rappresentasse l’intera comunità. Per quanto Hezbollah sia forte, non può identificarsi perché i partiti nascono, crescono e muoiono: la comunità resta. Il testamento che ha lasciato mio padre dice che il Libano non è un paese di transizione da trasformare, non c’è nessun altro potere che i libanesi sciiti cercano di raggiungere se non la costruzione, insieme ai cristiani, del nostro Stato».
Dove sbaglia Hezbollah?
«Io non li considererò mai nemici, perché hanno difeso il Libano dall’invasione di Israele. Però resistere a Israele non ti dà nessun diritto a usare le armi in politica: le armi non devono essere usate per raggiungere risultati politici. È come se il capo di Bankitalia, che ha un grande potere e nel suo lavoro è un’autorità, andasse a casa e pretendesse di comportarsi anche con la moglie e i figli allo stesso modo. Invece no, finito il lavoro torna un cittadino come gli altri, deve fermarsi al rosso dei semafori. Questo vale anche per Hezbollah, aver difeso il paese non dà il diritto di avere diritti speciali o privilegi. E poi, come detto, sbagliano nel dare l’impressione di agire in rappresentanza di tutta la comunità sciita, che è falso. La comunità resterà in Libano anche dopo la fine di Hezbollah, non sono pochi quelli che non condividono le loro idee e bisogna trovare il modo giusto di manifestare il dissenso rispetto alla politica».
Cristiani e musulmani sono ancora coessenziali alla costruzione del paese?
«Io sono un musulmano osservante, non culturale, porto la barba per questo e non perché così sono bello. Credo che i cristiani in Libano siano molto importanti, esattamente come i musulmani e prima di tutto per i musulmani. Al di là della religione, è fondamentale per il Libano la presenza cristiana: siamo veri partner nella costruzione del Libano, vinciamo perdiamo e agonizziamo insieme. Il Libano è una vita unica con delle diversità culturali».
I cristiani però sono in minoranza.
«No. Io non accetto, rifiuto e nego che siano una minoranza. Ci sono due grandi maggioranze in Libano: la prima è quella musulmana, a cui gli sciiti appartengono, la seconda è quella araba, a cui appartengono i cristiani. Bisoga partire da qui quando si valutano tutti i problemi in Libano. I cristiani non devono pensarsi una minoranza o tutti prima o poi cominceranno a guardarli così. Ma non lo sono mai stati. Mio padre diceva: “Il Libano non esiste senza i suoi musulmani e non esiste senza i suoi cristiani”.
E anche se i musulmani sono ora numericamente in maggioranza, questo non conta. Si capisce con un esempio: l’acqua è la fonte della vita e la sua formula chimica è l’H2O. L’idrogeno sono i musulmani e hanno due molecole ma senza la singola molecola dell’ossigeno, i cristiani, l’acqua non ci sarebbe. È vero, i musulmani sono di più ma senza i cristiani il Libano non esisterebbe. I cristiani libanesi fanno parte della società araba, non sono intrusi, non sono stranieri. Il bello del Libano è la varietà delle sue comunità che vivono insieme e possono farlo. Il Libano ha bisogno della sua diversità anche da un punto di vista pragmatico. I musulmani non solo vogliono i cristiani, ne hanno bisogno».
Oggi, però, tutto questo in Libano non si vede.
«E’ vero, giusto, ne sono consapevole. Il punto però è individuare la causa, che non è religiosa ma politica. A combattere tra loro ora non sono le comunità ma i partiti politici dentro le comunità. Ma il Libano non è formato dai partiti. È fatto da sciiti, ortodossi, maroniti, sunniti: non dai partiti politici, come Hezboallah o il Future party. Bisogna cambiare la legge elettorale, che premia i signori della guerra. Noi vogliamo un sistema proporzionale ma loro no, perché sanno che così perderanno potere, ne avranno meno di prima. Con un nuovo sistema elettorale e un nuovo sistema giudiziario le cose sarebbero di gran lunga migliori e si vedrebbe un Libano completamente diverso, quello vero».
Qual è la via da seguire perché il Libano cambi?
«Sinceramente non ho una risposta precisa: bisogna cambiare il sistema politico ma bisogna passare attraverso la democrazia. Il dilemma e il paradosso è che il parlamento libanese dovrebbe cambiare il sistema elettorale per danneggiarsi, di questo si parla sempre in Libano da cinque anni. Però, non c’è altro modo. L’alternativa è la violenza ma usare la violenza per cambiare il regime politico porterà a un’altra guerra. Noi dobbiamo fare pressione, bisogna avviare una discussione seria. La gente è sempre più consapevole del problema e fa sempre più pressione. Io spero che vinceremo. La proposta per una nuova legge elettorale fatta da poco dal ministro degli Interni, che ha chiesto che venga introdotto il proporzionale, è un fatto positivo».
Cosa pensa della cosiddetta primavera araba?
«Il mondo arabo si sta ribellando, vuole la libertà, è stanco di bugie e menzogne. Vogliono vivere ed essere protagonisti, non comparse, vogliono camminare lungo le vie maestre, non nelle traverse. So che voi siete preoccupati per l’islam, ma i musulmani non saranno mai una minaccia per i cristiani. Se in Iraq i cristiani sono assaliti è perché manca lo Stato e tutti ne soffrono, non c’è più il governo della legge. In Egitto quello che è successo è grave, non lo capisco bene.
Il governatore di Assuan ha dato il pretesto di bruciare una chiesa perché mancava un permesso: ma che razza di storia è questa? Il governo ha commesso una serie di errori. I responsabili per l’uccisione dei copti devono essere puniti. C’è qualcosa che non va nel governo, non è ancora stabile, non ha fatto tutto quello che doveva per proteggere i cristiani. C’è qualcosa che non sta funzionando in Egitto ma i musulmani non sono e non saranno mai una minaccia per i cristiani».