L’astrofisico Marco Bersanelli è intervenuto il 15 ottobre all’incontro in Vaticano sui nuovi evangelizzatori: «La scienza nasce dalla meraviglia per l’esserci delle cose».
di Marco Bersanelli
La ricerca che svolgo da oltre 25 anni, e che condivido con molti colleghi e amici sparsi un po’ in tutto il mondo, riguarda la prima luce dell’universo: la luce rilasciata nelle fasi iniziali dell’espansione cosmica, prima della formazione dei pianeti, delle stelle, delle galassie e di ogni altra struttura.
Con telescopi spaziali e strumenti molto sofisticati siamo in grado di osservare un debole bagliore proveniente dai confini dello spazio-tempo, che giunge a noi dopo un viaggio di quasi 14 miliardi di anni e ci permette di ricostruire un’immagine dettagliata del cosmo appena nato.
La vastità dell’universo che emerge dall’indagine scientifica contemporanea è sconcertante: miliardi di galassie, ciascuna composta da centinaia di miliardi di stelle, distribuite nello spazio cosmico la cui profondità si misura in miliardi di anni luce (e ogni anno luce è circa diecimila miliardi di chilometri). Un’estensione abissale, che supera di gran lunga la nostra stessa immaginazione.
Ma già gli antichi, ben prima dell’avvento della scienza moderna, scrutando la volta celeste a occhio nudo, si resero conto della sproporzione che sussiste tra la natura umana e l’immensità del firmamento. Le parole del Salmo 8, scritte forse 3000 anni fa, sono ancora oggi insuperabili nel dar voce a questa percezione: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissate, / che cosa è l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi?».
Che cos’è l’uomo, che cosa è ciascuno di noi nella stanza smisurata della creazione? Polvere. L’uomo è “quasi nulla” nell’immensità dell’universo. La scienza moderna, ben lungi dal ridimensionare questa sproporzione, la amplifica a dismisura. Ma il Salmo non finisce qui, e subito mette in luce l’altro versante del paradosso della condizione umana: «Eppure l’hai fatto poco meno di Te, / di gloria e di onore lo hai coronato».
L’uomo è una particella infinitesima nell’universo, eppure ogni essere umano, l’io di ciascuno di noi, è un punto vertiginoso nel quale l’universo diventa cosciente di sé. L’uomo è “coronato di gloria e di onore” in quanto fra tutte le creature è quella in grado di ammirare la creazione, di percepire con meraviglia la presenza delle cose, e di cercarne il significato. È impressionante pensare alla piccolezza dell’uomo, e al tempo stesso alla grandezza della sua natura, commensurabile solo con l’infinito. L’uomo è l’autocoscienza del cosmo.
La scienza, come ogni forma di conoscenza umana, nasce anzitutto dalla meraviglia per l’esserci delle cose, dallo stupore con cui l’uomo percepisce la presenza della realtà come qualcosa che lo precede, come qualcosa di “dato”. In fondo il fascino per il cielo che percepivo a 14 anni è ancora oggi la sorgente principale di energia e di gusto nel mio lavoro. Anzi, guardandomi indietro, mi rendo conto che quella meraviglia oggi è diventata più grande, più consapevole.
È questa attrattiva che mette in moto la ragione, che porta a formulare domande, che sostiene la ricerca. Il grande fisico tedesco Max Plance disse che «chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere».
Nella mia esperienza di ricerca, una delle maggiori fonti di stupore sta nel fatto che la scienza stessa sia possibile. Mi sorprende fino alla commozione ogni volta che riusciamo a “capire” qualcosa, e anche se una scoperta (piccola o grande che sia) è stata il risultato di un grande sforzo, magari di tanti anni e di tante persone, mi sembra sempre un regalo, qualcosa di non-dovuto. Vi è qualcosa di inspiegabile nella capacità della nostra ragione (pur con tutti i suoi limiti ed errori) di cogliere il meraviglioso ordine nascosto che regge l’universo. Come diceva Albert Einstein, «la cosa più incomprensibile dell’universo, è il fatto che esso sia comprensibile».
Chi siamo noi, granelli di polvere nella vastità del cosmo, per essere dotati della capacità di intendere – con il linguaggio della matematica – la struttura del mondo fisico fino alle sue rive più lontane, distanti dalla nostra esperienza diretta, dalle particelle elementari alle galassie, dalla cosmologia alla fisica quantistica? Il premio Nobel Eugene Wigner ha scritto: «Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo né meritiamo».
È una osservazione che sembra fare eco alle parole di Benedetto XVI: «La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo […] suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. […] Diventa inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra».
Ricordo che una volta, molti anni fa, mi trovavo in una situazione difficile. Ero appena tornato in Italia dopo alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti e avevo iniziato (insieme ad altri) un progetto molto ambizioso (quello che sarebbe diventato il satellite Planck dell’Esa, che dopo 17 anni di sviluppo abbiamo lanciato nel 2009, e che oggi ci sta inviando dati straordinari sulla luce primordiale dell’universo).
Il lavoro di ricerca era intensissimo e mi portava molto spesso all’estero, anche per lunghi periodi. Avevamo un figlio piccolo, nato in America, e appena ritornati in Italia era nata la nostra seconda figlia. Nel frattempo avevo anche iniziato a insegnare in università… Insomma, mi sembrava di non riuscire a rispondere a tutto quello che la vita mi chiedeva.
Un giorno ebbi la fortuna di incontrare don Giussani, al quale raccontai questa situazione e gli chiesi un consiglio su come trovare un equilibrio, un giusto compromesso, tra la mia responsabilità in famiglia, l’impegno nel lavoro di ricerca, l’insegnamento… Dopo qualche secondo di silenzio mi guardò, e mi rispose: «No, non è un problema di equilibrio.
Quello di cui devi renderti conto è che quando hai a che fare con i tuoi figli e con tua moglie, e quando hai a che fare con il tuo lavoro e le tue ricerche, con i tuoi studenti, con i tuoi amici, hai a che fare con Cristo». Poi prese di tasca un fazzoletto e lo passò sul tavolo e me lo mostrò dicendo: «Vedi questi grani di polvere? Anche questi grani di polvere, ultimamente, vengono da Lui».
Quella frase mi colpì a fondo. Tutto, ultimamente, viene da Lui. Le stelle del cielo, fino alle ultime galassie in fondo all’abisso, l’universo informe e infuocato dei primi istanti. E il nostro piccolo pianeta, le nuvole e le montagne, i fiori. Tutto, ultimamente, viene da Lui. La scienza ci mostra tesori di bellezza altrimenti inaccessibili, ci parla dell’evoluzione e del mutare delle cose, dei nessi nascosti tra i fenomeni, ma non ci dice nulla della radice ultima del loro “esserci”, del loro significato, della loro singolarità.
Tutto, ultimamente, viene da Lui. Qualunque analisi scientifica è muta di fronte alla singola persona, al dramma del suo dolore, alla sua attesa di felicità. «Per mezzo di Lui tutte le cose sono state create». Non solo le cose visibili, ma anche quelle invisibili: come le leggi di natura, che non si vedono, ma che come un intreccio delicatissimo e mirabile hanno permesso all’universo di evolvere fino ad accogliere la complessità e di sostenere la vita, fino alla vetta misteriosa della coscienza, dell’io umano.
O come lo spazio e il tempo, che non si vedono, ma che accolgono nel loro alveo l’esistenza di tutte le altre creature: ogni singolo istante di tempo è creato, questo istante è creato. Tutto è creato, ora. È commovente pensare che il mistero infinito che trae dal nulla l’universo in ogni istante si è preso cura di ciascuno di noi («Che cos’è l’uomo perché te ne curi?»), fino a diventare compagnia umana alla nostra vita.
«Per noi Dio non è un’ipotesi distante», ha detto Benedetto XVI, «non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il Big Bang. Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio, nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi».