Centro Studi Rosario Livatino 25 Settembre 2020
di Aldo Rocco Vitale
1. Il disorientamento dei cattolici. “Il convegno si svolgeva in campo cattolico; e affermazioni che appena quindici anni fa avrebbero fatto segnare di croce, come di fronte a una manifestazione del Maligno, ogni buon cattolico italiano, e magari scatenato la più massiccia insofferenza, venivano recepite senza batter ciglio e qualche volta con larga approvazione. Mi pareva di sognare. Ma alla meraviglia, man mano che si andava avanti, subentrava il dubbio, il dilemma: stavo assistendo al realizzarsi della tolleranza o all’avvento della confusione? Quella platea di preti, di professori, maestri e studenti delle rispettive associazioni cattoliche, avevano finalmente raggiunto l’umana e laica verità che Montaigne enunciava nella stupenda formula che “dopotutto significa dare un bel peso alle proprie opinioni se per esse si fa cuocere vivo un uomo”, o semplicemente non avevano più opinioni?” [1]
Così Leonardo Sciascia condensava il suo stupore dinnanzi a quella parte del mondo e dell’intellighenzia cattolica che già alla fine degli anni 1970 non sembravano in grado di distinguere le verità di fede e di morale dalle opinioni (a-cattoliche e perfino anti-cattoliche) del mondo contemporaneo: tanto da apparire, agli occhi dello scrittore siciliano, più confuse che tolleranti, più incapaci di comprendere che vogliose di effettivo rinnovamento.
I temi e i problemi bioetici, prepotentemente dominanti nel dibattito culturale odierno, rientrano in quegli ambiti in cui maggiormente si registra tra i cattolici quella confusione più genericamente denunciata da Sciascia quasi mezzo secolo or sono. In un’epoca in cui l’apparire conta di più che il fare, l’avere più dell’essere, la tecnologia a scopo di lucro più dei diritti umani fondamentali, l’individualismo ego-digitale più della socialità del contatto e della carità umana, la quarantena della verità dinnanzi al contagio dell’opinione [2], i cattolici sembrano disorientati tra le masse vagabonde di un mondo incapace di individuare sulla mappa della storia e del tempo presente i punti di riferimento per essere, per esistere e per resistere.
2. Le aporie dei “non praticanti”. Tanti cattolici amano definirsi “non praticanti”, prediligendo volteggiare, quasi come i gabbiani di Cardarelli, in tondo sulla Chiesa senza mai farvi posa, costruendo raffinate critiche e dotte disquisizioni su qualcosa di cui all’un tempo si sentono parte, ma a cui non vogliono aderire fino in fondo.
Si percepiscono cattolici, nutrendo una incrollabile forma di scettica e distanziante riserva nei confronti della Chiesa, della sua dottrina teologica e soprattutto morale; non indulgono nella preghiera, considerando gli atti di devozione retaggi para-superstiziosi, ma sono sempre solerti nel biasimare chi dovesse mancare di francescana spiritualità all’interno del clero.
Tanti cattolici oggi non praticano i sacramenti, ma sono disposti a condividere più o meno passivamente la battaglia di chi pretende il sacerdozio per le donne, la comunione per i divorziati risposati, il matrimonio, anche quello religioso, divorziabile. Si stracciano le vesti per certo malcostume dei sacerdoti, attaccati al sesso (talvolta perfino quello orribile della pedofilia), al denaro, al potere, ma all’un tempo caldeggiano l’abolizione del celibato, cioè del rigore ascetico che è uno dei fondamenti del sacerdozio cattolico.
Tanti cattolici, insomma, vorrebbero in cuor loro appartenere alla Chiesa, ma senza l’obbedienza, ritenendo che in tema di fede (dimensione che interpretano in modo non privato, ma addirittura psico-intimistico) e soprattutto di morale ognuno abbia il diritto di pensare ciò che vuole senza guida, senza direzione teologica, insomma senza differenze tra ortodossia ed eresia [3].
Da più di mezzo secolo i temi caldi del dibattito – etico prima e bioetico poi – come l’aborto, la maternità surrogata, il gender, le unioni civili, l’eutanasia, la legalizzazione della droga, rappresentano per tanti cattolici fonte di disagio o imbarazzo con inevitabili goffe distinzioni, maldestre dissociazioni, funamboliche prospettazioni del loro essere cattolici “nonostante la Chiesa”.
3. Il fine vita snodo cruciale della bioetica. In un simile scenario il tema della morte assistita è probabilmente quello più importante, quello su cui non soltanto si sta addensando la maggior parte della letteratura bioetica attuale [4], ma che sta già separando le masse cattoliche (come in passato accadde col divorzio e con l’aborto), non secondo verità, ma secondo opinione, distinguendosi i contrari, i favorevoli, i contrari con riserva e i favorevoli con riserva, con frequente ignoranza degli insegnamenti di quella madre Chiesa di cui in un modo o nell’altro ci si dovrebbe sentire figli.
Sul punto lo scorso 22 settembre la Congregazione per la Dottrina della Fede (da ora CDF), in coerenza con i propri numerosi precedenti documenti e con Magistero dei Pontefici da Pio XII in poi, ha pubblicato la lettera Samaritanus bonus, sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, proprio per ribadire al popolo cattolico in tutte le sue articolazioni – legislatori, giudici, giuristi, medici, infermieri, farmacisti, docenti, catechisti, sacerdoti, genitori e semplici fedeli – la posizione nei confronti della “morte assistita” nell’epoca in cui essa viene estesamente e acriticamente legalizzata in nome di una fraintesa concezione dell’umanità della medicina e del diritto.
4. Samaritanus bonus è un lungo e articolato documento con cui la CDF, organismo incaricato di tutelare la dottrina sulla fede, espone ai fedeli l’insegnamento teologico, morale e pastorale in tema di accompagnamento del morente, distinguendo gli atti leciti da favorire da quelli illeciti da evitare. Non a caso la stessa CDF precisa la necessità di una chiarificazione, vivendo i cattolici in un clima di «grave confusione culturale» (§ V, 4). Rinviando alla necessaria lettura dell’intero documento, sintetizzo i cinque punti fondamentali di esso.
4.1. Il contesto culturale. La CDF prende come punto di riferimento la parabola del buon samaritano (Lc 10, 30-37), per evidenziare da un lato la dimensione deontologica con cui la società moderna dovrebbe affrontare la sofferenza e le fasi finali della vita umana, e dall’altro lato le deviazioni e le aberrazioni culturali, ideologiche, giuridiche che impediscono di emulare l’esempio del buon samaritano.
L’offuscamento dei principi morali e giuridici (suum cuique tribuere, alterum non laedere, primum non nocere) comporta l’alterazione della relazione, della società e della mentalità attuali nei confronti della caducità della vita, con la conseguente riduzione del rispetto per la fragilità e vulnerabilità dell’essere umano.
La CDF precisa che “la debolezza ci ricorda la nostra dipendenza da Dio e invita a rispondere nel rispetto dovuto al prossimo. Da qui nasce la responsabilità morale, legata alla consapevolezza di ogni soggetto che si prende cura del malato (medico, infermiere, familiare, volontario, pastore) di trovarsi di fronte a un bene fondamentale e inalienabile ‒ la persona umana ‒ che impone di non poter scavalcare il limite in cui si dà il rispetto di sé e dell’altro, ossia l’accoglienza, la tutela e la promozione della vita umana fino al sopraggiungere naturale della morte” (§ I).
Proprio alla luce della fede, ma anche della ragione, occorre recuperare quel senso profondo della relazionalità che dovrebbe fondare il rapporto umano e professionale nei confronti del morente, e che da solo può consentire l’agire autenticamente etico nei suoi riguardi, e in definitiva il rispetto della sua dignità. In questo senso “la Chiesa afferma il senso positivo della vita umana come un valore già percepibile dalla retta ragione, che la luce della fede conferma e valorizza nella sua inalienabile dignità. Non si tratta di un criterio soggettivo o arbitrario; si tratta invece di un criterio fondato nella dignità inviolabile naturale – in quanto la vita è il primo bene perché condizione della fruizione di ogni altro bene – e nella vocazione trascendente di ogni essere umano, chiamato a condividere l’Amore trinitario del Dio vivente: “L’amore del tutto speciale che il Creatore ha per ogni essere umano “gli conferisce una dignità infinita”. Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico” (§ III).
4.2. Le cause. Secondo la CDF il contesto culturale odierno è fondato su tre fattori che impediscono all’uomo contemporaneo in genere, e anche al cattolico, di cogliere il valore intrinseco della vita umana: a) l’equivoco concetto di “morte degna”, che traduce un sostanziale utilitarismo, in base alla quale si attribuisce un valore (rectius, un prezzo) alla vita e alla sofferenza umana; b) l’erronea nozione di compassione, per cui si preferisce eliminare il sofferente piuttosto che lenire la sua sofferenza; c) l’individualismo crescente che inasprisce la solitudine di cui soffre l’uomo contemporaneo nelle atomizzate società occidentali, e in più tradisce un remoto, ben identificabile radicamento in due forme ereticali anticristiane: il neo-pelagianesimo – l’idea per cui l’uomo si salva da sé stesso – e il neo-gnosticismo, che fa ritenere la salvezza raggiungibile tramite la liberazione della persona dai limiti fisici della propria corporeità.
4.3. Il giudizio su eutanasia e suicidio assistito. Poste queste premesse, la CDF ribadisce l’insegnamento teologico e morale della Chiesa in tema di eutanasia e suicidio assistito [5]. “L’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente” (§ V, 1); i cattolici devono aver ben presente che “qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo.
Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità. Dunque, l’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli” (§ V, 1).
In tal senso la pratica eutanasica non tutela la dignità della persona sofferente, come teorizzano i suoi sostenitori, ma costituisce la forma più disumana di abbandono alla solitudine, alla depressione, alla disperazione del sofferente medesimo: “sono gravemente ingiuste, pertanto, le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso, per il falso diritto di scegliere una morte definita impropriamente degna soltanto perché scelta. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana. L’esistenza di queste leggi ferisce profondamente i rapporti umani, la giustizia e minaccia la mutua fiducia tra gli uomini. Gli ordinamenti giuridici che hanno legittimato il suicidio assistito e l’eutanasia mostrano, inoltre, una evidente degenerazione di questo fenomeno sociale” § V, 1).
Solo l’ammalato che si sente circondato dalla presenza amorevole umana e cristiana, supera ogni forma di depressione e non cade nell’angoscia di chi, invece, si sente solo ed abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte (§ V, 1). A tal fine, va evitata la più brutale forma di esasperazione della mentalità eutanasica oggi così diffusa: l’idea di legittimare perfino l’eutanasia infantile quale forma ulteriore e tardiva di selezione eugenetica, mentre invece vanno potenziati gli hospice perinatali per aiutare le famiglie che accolgono la nascita di un figlio in condizioni di fragilità. Così evitando da un lato la diagnosi prenatale a scopo selettivo, dall’altro lato la pratica della soppressione dei minori il cui decorso terapeutico è comunque destinato – per il loro stato patologico – a un esito infausto che, tuttavia, non può e non deve essere né agevolato né causato (§ V, 6).
Samaritanus bonus ci dice che la pratica eutanasica o di assistenza al suicidio stravolge e deturpa la relazione etica e umana tra il medico e il paziente, poiché lo statuto deontologico della professione medica implica che “ogni atto medico deve (…) sempre avere ad oggetto e nelle intenzioni di chi agisce l’accompagnamento della vita e mai il perseguimento della morte. Il medico, in ogni caso, non è mai un mero esecutore della volontà del paziente o del suo rappresentante legale, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza” (§ V, 2).
4.4. Ulteriori profili. Ribadito il divieto assoluto per il cattolico di praticare o assistere in modo diretto o indiretto, formale o sostanziale, alla pratica della morte assistita, la CDF chiarisce che bisogna evitare l’accanimento terapeutico, pur senza che questa “desistenza” si trasformi in abbandono del paziente sofferente, poiché anche questo comporta una grave lesione della dignità umana [6].
In questa direzione la Lettera puntualizza che trattamenti come idratazione e alimentazione, alla luce della ragione prima che della fede, non possono essere interrotti – se non nell’imminenza del punctum mortis – in quanto non sono trattamenti terapeutici: “alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale, a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente” (§ V, 3).
Emerge con ciò la fictio iuris di quelle leggi che, come la legge italiana n. 219/2017, considerano i trattamenti di sostengo vitale (idratazione, alimentazione e ventilazione) alla stessa stregua dei trattamenti terapeutici. Il rispetto della sofferenza e della dignità del paziente, anche e soprattutto in un’ottica cristiana, impongono di lenirne le sofferenze, tramite le cure palliative e anche tramite la somministrazione della sedazione terminale profonda, purché sia curata – da parte dei medici, della famiglia, dei sacerdoti – la preparazione spirituale del malato (§ V, 7).
4.5. Obiezione di coscienza. Infine Samaritanus bonus evidenzia la necessità dell’obiezione di coscienza: “dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata[…]. È necessario che gli Stati riconoscano l’obiezione di coscienza in campo medico e sanitario, nel rispetto dei principi della legge morale naturale, e specialmente laddove il servizio alla vita interpella quotidianamente la coscienza umana.
Dove questa non fosse riconosciuta, si può arrivare alla situazione di dover disobbedire alla legge, per non aggiungere ingiustizia ad ingiustizia, condizionando la coscienza delle persone. Gli operatori sanitari non devono esitare a chiederla come diritto proprio e come contributo specifico al bene comune[…]. Il diritto all’obiezione di coscienza non deve farci dimenticare che i cristiani non rifiutano queste leggi in virtù di una convinzione religiosa privata, ma di un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona, essenziale al bene comune di tutta la società. Si tratta, infatti, di leggi contrarie al diritto naturale in quanto minano i fondamenti stessi della dignità umana e di una convivenza improntata a giustizia” (§ V, 9) [7].
5. Per concludere. Alla luce della Lettera i cattolici tutti, medici, insegnanti, giuristi, catechisti, sacerdoti, genitori, non possono né far finta di ignorare la direzione tanatocratica intrapresa da una parte del mondo occidentale, né orientarsi verso le forze culturali e politiche che tale tanatocrazia intendono instaurare mediante il capovolgimento etico del diritto e della medicina.
Come oggi la CDF, fu proprio Rosario Livatino più di trent’anni or sono che, facendo proprie le parole di un laico repubblicano come Guglielmo Castagnetti, ricordò che l’opposizione alla pratica eutanasica non si legittima soltanto alla luce della fede, ma anche della semplice e pura ragione, poiché “se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana, quali che siano le forme e le connotazioni dolorose che può assumere, è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare od interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire che essa appartiene comunque alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire” [8].
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[1] Leonardo Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino, 1979, pag. 55-56.
[2] Il Cardinale Giuseppe Siri ebbe così a precisare: “La gravità di questo tempo rispetto agli altri è questo: che non si tratta più di contrasto tra verità ed errore, ma tra verità e non verità, tra ordine della verità e dittatura dell’opinione. Gli uomini si ritengono liberi: è questa loro opinione, di essere liberi perché è scritto nei testi giuridici, il massimo momento e manifestazione della loro servitù. In realtà molti vivono sotto una dittatura: la dittatura dell’opinione”. Giuseppe Siri, La dittatura dell’opinione, in “Renovatio”, VI (1970), fasc. 4, pp. 477-490.
[3] Vito Mancuso scriveva qualche anno or sono: “Mi chiedo se tra cento anni i principi bioetici affermati oggi con granitica sicurezza dalla Chiesa saranno i medesimi, o se invece finiranno per essere rivisti come lo sono stati i principi della morale sociale. Siamo sicuri che la fecondazione assistita (grazie alla quale sono venuti al mondo fino ad oggi più di 3 milioni di bambini, di cui centomila in Italia) sia contraria al volere di Dio? Siamo sicuri che l’ uso del preservativo (grazie al quale ci si protegge dalle malattie infettive e si evitano aborti) sia contrario al volere di Dio? Siamo sicuri che il voler morire in modo naturale senza prolungate dipendenze da macchinari, compresi sondini nasogastrico, sia contrario al volere di Dio? E per fare due esempi concreti legati a precise persone: siamo sicuri che si sia interpretato bene il volere di Dio negando i funerali religiosi a Piergiorgio Welby perché rifiutatosi di continuare a vivere dopo anni legato a una macchina? E siamo sicuri che si sia interpretato il volere di Dio chiamando “boia” e “assassino” il signor Englaro, salvo poi aggiungere, non so con quale dignità, di pregare per lui? Mi chiedo se tra cento anni (e spero anche prima) i papi difenderanno il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita biologica, così come oggi difendono il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita di fede (la quale peraltro per la dottrina cattolica è sempre stata più importante della vita biologica)”: Vito Mancuso, La Chiesa e la bioetica: non c’è fede senza libertà, in “La Repubblica”, 3 settembre 2009: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/03/09/la-chiesa-la-bioetica-non-fede.html
[4] In questo senso cfr.: AA.VV., Il diritto di essere uccisi: verso la morte del diritto?, a cura di Mauro Ronco, Giappichelli, Torino, 2019; Brambilla Giorgia – Pavone Pierluigi, Prolegomeni al potere sovrano sulla vita: il diritto al suicidio, in AA.VV., Riscoprire la bioetica. Capire, formarsi, insegnare, a cura di Giorgia Brambilla, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020; Faggioni Maurizio Pietro, La vita nelle nostre mani, EDB, Bologna, 2018; Flores D’Arcais Paolo, Questioni di vita e di morte, Einaudi, Milano, 2019; Fornero Giovanni, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, Utet, Torino, 2020; Morresi Assuntina, Charlie Gard. Eutanasia di Stato, L’Occidentale, Roma, 2017; Paglia Vincenzo, Sorella morte, Piemme, Milano, 2016; Razzano Giovanna, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama “terapia” l’aiuto al suicidio, “Dirittifondamentali.it”, 1/2020; Roccella Eugenia, Eluana deve morire, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019; Rocchi Giacomo, Licenza di uccidere, ESD, Bologna, 2019; Vari Filippo – Piergentili Francesca, Sull’introduzione dell’eutanasia nell’ordinamento italiano, in “Dirittifondamentali.it”, 2/2019; Vitale Aldo Rocco, L’eutanasia come problema biogiuridico, FrancoAngeli, Milano, 2017.
[5] Sul punto occorre ricordare che il Magistero sul punto è più che sovrabbondante. Cfr. Pio XII, Discours du Pape Pie XII en réponse à trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie, 24 febbraio 1957; Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 27; Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 65 e ss.; CDF, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, 5 maggio 1980; Pontificio Consiglio Cor Unum, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 giugno 1981; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova Carta deli Operatori sanitari, n. 149 e ss, febbraio 2017; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2276-2283; Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 155.
[6] «Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”. La medicina odierna dispone, infatti, di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva in taluni casi un reale beneficio. Nell’imminenza di una morte inevitabile, dunque, è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Ciò significa che non è lecito sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione; ed altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione, e altri ancora, nella misura in cui siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica). La sospensione di ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione dei trattamenti non deve essere desistenza terapeutica. Tale precisazione si rende oggi indispensabile alla luce dei numerosi casi giudiziari che negli ultimi anni hanno condotto alla desistenza curativa – e alla morte anticipata – di pazienti in condizioni critiche, ma non terminali, a cui si è deciso di sospendere le cure di sostegno vitale, non avendo ormai essi prospettive di miglioramento della qualità della vita» (Par. V,2).
[7] Sulla tutela dell’obiezione di coscienza cfr. Aldo Rocco Vitale, Introduzione alla bioetica, Il Cerchio, Rimini, 2019, pag. 73-77. Cf anche Coscienza senza diritti? Atti del convegno del 21 ottobre 2016 nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari Camera dei Deputati per iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino , in L-Jus, n. 1/2018.
[8] Fede e diritto, Conferenza tenuta dal dott. Rosario Livatino il 30 aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle suore vocazioniste].