Tempi n.5 8 febbraio 2012
A 67 anni dall’eccidio comunista che macchiò per sempre la storia della Resistenza partigiana, sei studiosi riflettono sulle radici di una ferocia che fu culturale prima ancora che fisica. Ecco la verità su un episodio tutt’altro che marginale
Ermes, nome di battaglia di Guido Pasolini, scrive la lunga lettera nella speranza che suo fratello giornalista possa dare una mano alla causa. Quel fratello si chiamava Pier Paolo Pasolini e la lettera di Ermes fu pubblicata integralmente da Tempi nel numero del 29 ottobre 1997. Sono righe concitate come solo possono esserlo quelle scritte in un fronte che in quegli anni è insidioso e nevrotico. Ma soprattutto sono righe che tratteggiano la sintetica eppure lucida analisi di quanto va accadendo nel confine orientale e che per lunghi anni la storiografia italiana della resistenza e la memoria collettiva paiono aver rimosso quando non mistificato.
Dentro quello che è descritto come «il più grande scontro interno al movimento antifascista italiano» indaga il volume Porzùs, violenza e resistenza sul confine orientale, curato da Tommaso Piffer e in libreria per II Mulino dal 9 febbraio. Sei saggi scritti da altrettanti studiosi della resistenza (lo stesso Piffer, Orietta Moscarda Oblak, Raoul Pupo, Patrick Karlsen, Elena Aga-Rossi e Paolo Pezzino) che hanno il pregio di mostrare l’incidenza dell’eccidio nel dibattito pubblico italiano.
Ora per la follia della rimozione, ora per la violenta logica dello scontro ideologico di cui sono stati oggetto, ora per l’assoluta e palese incomprensione del fenomeno storico, leggendo questo volume si ha l’impressione che i fatti di Porzùs siano molto di più che un esercizio accademico per storici della resistenza.
Porzùs, come scrive Piffer nell’introduzione, è per certi versi un evento paradigmatico: «Per gli uni del tentativo di delegittimare la Resistenza proiettando sull’intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, per gli altri della vera natura totalitaria e antidemocratica del Partito comunista italiano».
Nel gennaio-febbraio del 1945 i partigiani della formazione “Osoppo” e i garibaldini sono ormai due entità separate dal punto di vista non solo ideologico ma strategico. Operano in completa indipendenza e non nascondono le divergenze. Un ruolo centrale nel contrasto tra i due gruppi – racconta ancora Piffer – è giocato dalle pretese territoriali della vicina Resistenza jugoslava, «fieramente osteggiate dagli osovani ma in quella zona appoggiate dai garibaldini in virtù della comune appartenenza ideologica al campo comunista. La situazione era andata deteriorandosi quando in quell’area, in seguito a un incontro tra Togliatti e gli iugoslavi, il Pci si era di fatto allineato alle posizioni titine»
È in questo quadro che si compie l’eccidio: il 7 febbraio un commando dei Gruppi armati proletari (Gap) comunisti attacca il commando delle formazioni “Osoppo” che si era insediato nelle Malghe. Accusati di tradimento e di collaborazione con il nemico fascista, i 20 partigiani osovani vengono trucidati. Se la dinamica dei fatti è ormai nota e acclarata, non altrettanto si può dire della loro interpretazione.
Elena Aga-Rossi ricostruisce la memoria dell’eccidio e il dibattito – definirlo così fu per lunghi anni un eufemismo – che l’Italia ha conosciuto. Nei primissimi anni del Dopoguerra la commemorazione è stata oggetto di scontro tra le associazioni di partigiani, da un lato l’Associazione Partigiani Osoppo e dall’altro l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia con quest’ultima che si è sempre rifiutata di prendere parte alle commemorazioni.
Non c’è bisogno poi di frequentare i libri di storia per ricordare il caso del film di Renzo Martinelli. A metà degli anni Novanta (dunque oltre cin-quant’anni dopo), il regista fu costretto a girare il film in Abruzzo per l’opposizione dei sindaci del posto. La presentazione della pellicola nel 1997 al festival del Cinema di Venezia generò uno scontro durissimo con accuse di «revisionismo» e «delegittimazione della Resistenza».
Walter Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio, raccontò di aver ricevuto molte pressioni perché il film venisse ritirato. L’Anpi diffidò sindaci e presidi dal trasmetterlo nelle scuole, non fu praticamente mai distribuito né mandato mai in onda dalla Rai che tuttora ne detiene i diritti. Ancora prima, nel 1992, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga dovette rinunciare a visitare le Malghe nell’anniversario dell’eccidio su forte pressione del Pds di Occhetto.
Perché? Nel 1990 Andreotti aveva svelato l’esistenza di Gladio e presto fu reso noto che proprio tra i membri dell’Osoppo la struttura, nata clandestinamente in ambito Nato per rispondere all’eventuale invasione delle truppe del patto di Varsavia, aveva trovato un ampio bacino di reclutamento.
Quel vizietto
II volume ha il pregio di non limitarsi a mettere in fila episodi incredibili o esecrabili, ma di mettere in luce il vizio ideologico che li ha generati. Scrive ancora Elena Aga-Rossi: «Si è voluto ridurre Porzus a un episodio di violenza come tanti altri, evitando di inquadrarlo nella particolare situazione del confine orientale, che non può essere ricondotta nei termini di una contrapposizione tra fascismo e antifascismo: qui emerse nel modo più evidente la triplice contrapposizione tra fascisti, antifascisti democratici e antifascisti comunisti e il carattere internazionalista del Pci, che subordinava la liberazione del paese all’obiettivo dell’instaurazione di un regime socialista».
Lo scontro è sempre stato sul tema del tradimento. I garibaldini non potevano accettare infatti che i partigiani osovani caduti a Porzus fossero salutati come dei patrioti, perché questo avrebbe automaticamente screditato la loro lotta. Per questo si è resa necessaria un’opera di discredito del nemico che ha puntato subito a delegittimarlo, inserendolo nell’odioso fronte dei filofascisti.
Tutto si regge dunque sull’equivoco che squalifica automaticamente come fascista chi combatteva per una resistenza non comunista (e soprattutto non filo-titina). La strategia è quella subdola di accreditarsi non come fieri difensori di una visione del mondo, ma come unici depositari della visione giusta, democratica e legittima della storia. Un vizio duro a morire.