“La comunità che rifiuta di accettare la Legge di Dio “: dinamiche di radicalizzazione nelle relazioni tra gruppi di militanti islamici e le loro constituencies
di Stefan Malthaner (*)
Khaled al-Berry è un adolescente di appena 15 anni quando aderisce al gruppo militante islamista al-Jamaa al-Islamiyya (lett. “Il Gruppo islamico”) nella città di Assiut, nell’Alto Egitto, nel 1987. Egli entra in contatto con i membri di al-Jamaa giocando a calcio i venerdì pomeriggio e segue il loro invito ad unirsi a un gruppo di studio religioso presso la vicina moschea.
Uno dei primi principi che gli inculca il suo mentore spirituale, lo Sceicco Tareq, è l’imperativo di allontanarsi da rutti i peccatori e gli infedeli. I suoi seguaci devono prendere le distanze da tutti coloro che non sottoscrivono quella che al-Jamaa considera la vera fede in Dio e il suo Profeta e che non obbediscono alle norme islamiche della condotta morale (al-Berry 2002, 28).
Nel caso di al-Berry ciò include il distacco dalla propria famiglia e dai propri amici: “la famiglia da cui provengo, i valori con cui sono stato educato, l’ambiente a cui sono appartenuto, tutti si sono visti rifiutati” (al-Berry 2002, 88). Inoltre, al di là della semplice separazione, al-Jamaa, nel suo punto di vista sulla società, coltiva sentimenti di odio nei confronti dei peccatori e degli infedeli, che sono visti come complementari ai sentimenti di amore e di solidarietà rivolti alla fratellanza dei veri credenti (al-Berry 2002, 90-91).
Infatti, i primi atti di violenza in cui al-Berry è coinvolto -anni prima che il gruppo lanciasse un’insurrezione contro lo Stato egiziano- non sono diretti contro la polizia o le autorità politiche, ma contro “i peccatori” nel suo ambiente sociale più prossimo: vicini o compagni di scuola sono minacciati o sottoposti a “punizioni”, a pestaggi per il loro vestirsi in maniera non adeguata, per le loro relazioni illecite, o con l’accusa di aver insultato l’Islam (al-Berry, 29-32, 55-56, 114-116).
Quando parliamo del rapporto tra i gruppi militanti e il loro ambiente sociale e politico, tendiamo a concentrarci sulle interazioni tra i ribelli e i loro avversari, come forze di polizia, autorità di governo o contro-movimenti. Le ricerche sui movimenti di protesta e sui gruppi terroristici in Europa (si veda, ad esempio della Porta 1995a e 1995b; Baeyer-Katte et al. 1982; Neidhardt 1981 e 1989; Merkl 1995), o più recentemente, le opere di Wiktorowicz (2004) e Hafez (2004a-2004b) sui movimenti islamisti hanno fornito preziose informazioni sugli effetti delle risposte repressive dello Stato sulla radicalizzazione dei movimenti e sulle dinamiche di escalation che emergono dagli scontri violenti.
Questi studi hanno contribuito significativamente ad introdurre una prospettiva relazionale, come quella sperimentata da McAdam, Tarrow e Tilly nelle loro ricerche sui movimenti sociali e sulle contentious politics (cfr. McAdam 1982; Tarrow 1998; McAdam et al. 2001; Tilly 2008) nello studio della violenza politica e dei processi di radicalizzazione.
D’altra parte, la diade gruppi militanti-Stato rappresenta solo una parte delle reti di relazioni che modellano i processi di conflitto violento. Come la vicenda di Khaled al-Berry indica, il loro rapporto con alcune parti della popolazione locale può essere altrettanto, e a volte ancora più importante, ai fini dello sviluppo dei gruppi militanti: il modo in cui al-Jamaa al-Islamiyya si approccia e interagisce con la popolazione non solo modella l’autopercezione e il punto di vista politico del gruppo, ma è anche una componente centrale delle dinamiche che conducono il gruppo verso una rivolta violenta contro il governo egiziano. In altre parole, i processi di violenza politica si sviluppano all’interno di una relazione triangolare composta da movimenti di opposizione, forze di sicurezza dello Stato e alcuni settori della popolazione, in cui le interazioni tra le tre parti si influenzano reciprocamente e in certe condizioni si combinano in dinamiche di escalation e di radicalizzazione.
Nella letteratura sulla violenza politica, il rapporto tra gruppi insorgenti e popolazione è stato analizzato soprattutto in merito alla questione di come i militanti riescono a mobilitare consensi tra il pubblico o tra i diversi gruppi. Una notevole mole di ricerche sui gruppi di guerriglia e sui movimenti rivoluzionari ha cercato di identificare le precondizioni sotto le quali gruppi sociali, come i contadini, diventano inclini alla “ribellione” (si veda per esempio Lupo 1969; Scott 1976; Paige 1975; Wickham Crowley 1992).
Un’altra linea di ricerca analizza i rapporti dei militanti con un pubblico più ampio, nei termini dei processi di framing e di frame-aligment (1). Nella maggior parte di queste ricerche la popolazione appare come oggetto passivo degli sforzi di mobilitazione, piuttosto che come parte attiva nelle relazioni effettive. Un’eccezione è costituita da Migdal (1975), che sostiene che il supporto tra una popolazione emerge dalle positive relazioni di scambio con un gruppo di ribelli.
In realtà, qui, come nella maggior parte degli altri studi, l’attenzione è rivolta alla fase di costruzione del supporto e di ampliamento della mobilitazione, piuttosto che sui processi di radicalizzazione e di deterioramento delle relazioni di sostegno. Un’altra importante eccezione è il più recente studio di Kalyvas (2006) sulla violenza nelle guerre civili, che offre un modello esplicativo dei meccanismi di controllo militare e di collaborazione nei conflitti violenti, senza, tuttavia, descrivere i processi effettivi di interazione tra gruppi armati e popolazione.
In questo articolo si sostiene che per ampliare la nostra comprensione delle dinamiche di interazione nei processi di violenza politica è necessario prendere in considerazione la relazione tra i gruppi militanti e il loro ambiente sociale prossimo e la maniera in cui questo rapporto influenza le interazioni con le forze di sicurezza e viceversa.
Di particolare rilevanza sono quindi le interazioni con quelle parti della popolazione cui si rivolgono i gruppi militanti come le loro constituency, ovvero con le quali i militanti si identificano, per i quali dichiarano di combattere e dal quale si aspettano (e, talvolta, ricevono) sostegno (cfr. Malthaner 201 la e 201 Ib). I gruppi militanti rispondono alle reazioni di questo ambiente sociale con trasformazioni nei loro atteggiamenti e con mutamenti degli schemi di comportamento che, a loro volta, rimodellano il rapporto che questi hanno con la popolazione locale.
Basandosi su un’analisi dei modelli d’interazione e dei processi di escalation della violenza, nel caso del gruppo militante islamista (2) al-Jamaa al-Islamiyya tra il 1986 e il 1997, l’articolo cerca di dimostrare, in primo luogo, che la radicalizzazione del gruppo implica – ed è rafforzata – dalle dinamiche di interazione tra i militanti e le loro constituency, e, in secondo luogo, che queste interazioni sono strettamente intrecciate con le interazioni tra al-Jamaa e la polizia, e che questa triangolazione modella lo sviluppo degli scontri violenti.
Come è stato sottolineato da Meijer (2009, 190) al-Jamaa al-Islamiyya costituisce un caso estremamente interessante. Esemplifica lo sviluppo di un movimento islamista che è altamente integrato nel proprio ambiente sociale, ma che intraprende un processo di radicalizzazione che riguarda – e coinvolge – gli stessi legami sociali che il gruppo aveva costruito con alcuni settori della popolazione. Perciò, il caso si presta particolarmente bene al tipo di analisi relazionale qui proposta.
Le fonti di questa analisi sono, in primo luogo, i racconti autobiografici provenienti dai membri di al-Jamaa, come il racconto di Khaled al-Berry (al-Berry 2002). Un secondo tipo di fonte è costituito dalle ricerche antropologiche sui villaggi e sui quartieri in Egitto, come quella di Haenni (2005) su un sobborgo del Cairo, di Gaffhey (1997) su al-Minya o di Toth (2003) su un villaggio dell’Alto Egitto.
In terzo luogo, e soprattutto, si basa su una serie di interviste con (ex) membri di al-Jamaa al-Islamiyya, residenti in città e quartieri noti come “roccaforti” di al-Jamaa, così come con giornalisti locali, attivisti dei diritti umani e altri osservatori, effettuate in diversi periodi di ricerca sul campo al Cairo e ad Assiut tra dicembre 2003 e marzo 2005, e in Inghilterra nell’aprile del 2005 e nel giugno-luglio 2005 (3).
1.1 Al-Jamaa al-Islamiyya e il suo contesto sociale
La corrente islamista in Egitto ha la sua origine nei Fratelli Musulmani, organizzazione fondata da Hassan al-Banna nel 1928, che è divenuta un movimento di massa con più di un milione di membri nel corso degli anni Trenta e Quaranta (Lia 1998). Sotto Gamal Abd al-Nasser, che prende il potere nel colpo di Stato degli “Ufficiali Liberi” nel 1952, la Confraternita viene duramente soppressa e scompare dal panorama politico, ma la corrente islamista riemerge gradualmente dopo la “Guerra dei Sei Giorni”, del 1967.
Al-Jamaa al-Islamiyya si sviluppa come frangia radicale di un più ampio movimento studentesco islamista (non militante) che inizia a diffondersi in molte università egiziane nei primi anni Settanta, e che alla fine del decennio ha già raggiunto una forza considerevole in termini numerici e di influenza politica. Il successore di Nasser, il presidente Anwar al-Sadat, inizialmente favorisce l’attività islamista, dopo aver preso il potere nel 1970, perché considera gli islamisti come un contrappeso alla corrente di sinistra e nasseriana.
Ma fronteggiando un’opposizione sempre più netta su decisioni come il trattato di Pace con Israele e l’offerta di un rifugio allo Scià dopo la Rivoluzione islamista in Iran nel 1979, il governo inizia a contenere il movimento e inizia un ciclo di proteste e di arresti (Kepel 1985, Ramadan 1993).
Il risultato dei crescenti scontri con il governo è che a poco a poco cessa l’attività “aperta” del movimento degli studenti islamisti al Cairo e ad Alessandria e numerosi leader studenteschi di queste città aderiscono ai Fratelli Musulmani e si concentrano sull’attività politica non militante. Al contrario, alcuni settori del movimento dell’Alto Egitto si radicalizzano. Un nucleo di attivisti presso le università di Assiut e di al-Minya forma un’organizzazione militante e inizia una collaborazione con un gruppo terroristico del Cairo chiamato al-Jihad, che culmina nell’uccisione del presidente Sadat nell’ottobre del 1981.
L’assassinio provoca una forte repressione e un’ondata di arresti che elimina ogni presenza visibile del movimento militante islamista fino alla metà degli anni Ottanta. Dopo il rilascio dal carcere di una serie di leader di medio livello nel 1984, al-Jamaa al-Islamiyya si riorganizza presso l’Università di Assiut, ma inizia anche a insediarsi intorno alle moschee di quartiere nelle città dell’alto Egitto, così come nei quartieri più poveri della periferia del Cairo. Consolidando un seguito presso gli studenti universitari e tra gli abitanti, il numero di membri del gruppo e di sostenitori raggiunge le diverse migliaia alla fine degli anni Ottanta (4).
A differenza dei piccoli gruppi militanti come al-Jihad, che operano clandestinamente e in isolamento sociale quasi totale, al-Jamaa al-Islamiyya è un movimento strettamente integrato nel proprio contesto sociale. Come sottolinea un leader di Assiut, il progetto del gruppo è fin dall’inizio quello della al-Dawa – la chiamata del popolo all’Islam – e della mobilitazione dal basso: “il gruppo del Dott. al-Zawahiri [al-Jihad], credeva nel lavoro sotterraneo. Ma al-Jamaa credeva nel lavoro pubblico.
Nelle università, nelle città, nelle strade. […] La rivoluzione pubblica. Come possiamo spostare il pubblico!” (5) In altre parole, il rapporto di al-Jamaa con il suo ambiente sociale è caratterizzato da un approccio del gruppo fondato su un impegno aperto e diretto con la popolazione, che comprende attività di “outreach ideologico” (Wickham 2002, 119), così come servizi socio-assistenziali e altre forme di coinvolgimento delle comunità locali.
Presso l’Università di Assiut, per esempio, al-Jamaa al-Islamiyya invita gli studenti a lezioni sull’Islam, tiene conferenze presso l’auditorium, realizza sermoni alla moschea dell’università, attività che sono abilmente combinate con l’offerta di aiuto agli studenti poveri e con la fornitura di servizi come lezioni gratuite, libri di testo economici e trasporto su autobus separato per le donne o l’organizzazione di campi estivi per gli studenti (6).
In quartieri come Ayn Shams e Imbaba, nei sobborghi del Cairo, che erano stati ampiamente trascurati dal governo egiziano, gli islamisti predicano e formano gruppi di studio nelle moschee del territorio, ma raccolgono anche denaro per sostenere le famiglie bisognose, offrono cure mediche di base e forniscono pasti gratuiti in occasione della festa del Sacrificio, intervengono contro le bande criminali, effettuano pattugliamenti notturni nel territorio, organizzano attività di mercato e agiscono da mediatori nei conflitti familiari (7).
In sintesi, al-Jamaa al-Islamiyya intrattiene rapporti con vari segmenti del proprio contesto sociale, che comportano diversi tipi di sostegno e legittimazione. I suoi giovani seguaci, raccolti attorno ai gruppi universitari e agli sceicchi locali di al-Jamaa, sono coinvolti in forma diretta nel gruppo ed identificati con il suo programma politico e culturale. Essi adottano un abbigliamento e uno stile di vita distintivi, formando il nucleo di una sottocultura islamista che veicola un forte senso di appartenenza ed identità ed è tenuta insieme dagli stretti legami personali.
Le relazioni con gli abitanti si basano anche, in qualche maniera, in un atteggiamento simpatetico nei confronti del messaggio politico e culturale di al-Jamaa. Le persone condividono il disdegno del gruppo per la corruzione e per le vessazioni arbitrarie della polizia e in molti apprezzano la loro enfasi sui valori islamisti.
Ma l’approvazione tra la popolazione locale si basa anche sui servizi socio-assistenziali forniti da a-Jamaa e sul fatto che il gruppo garantisce un qualche tipo di ordine dei quartieri. A sua volta, al-Jamaa riceve donazioni dai commercianti, come, per esempio, ad Imbava (Haenni 2005, 33-35, 105, 115-118), che gli permette di espandere le proprie attività assistenziali.
Gli scontri tra al-Jamaa e la polizia, quindi, iniziano alla fine degli anni Ottanta. Iniziano a livello locale, ad esempio presso l’Università di Assiut, dove gli scontri si sviluppano a seguito di contrasti tra al-Jamaa ed altri studenti, costringendo le autorità universitarie e, infine, la polizia ad intervenire. Analogamente, in quartieri come Ayn Shams, nel 1987, i conflitti con gli abitanti del quartiere e la polizia locale provocano una vasta operazione di polizia.
Ad Imbaba, la polizia interviene quando gli islamisti cominciano a sfidare apertamente l’autorità del governo, dopo aver annunciato pubblicamente la nascita della “Repubblica islamica di Imbaba” in una improvvisata conferenza stampa, nel luglio 1991 (8). Questi scontri a livello locale evolvono gradualmente in un violento conflitto a livello nazionale. Dopo l’uccisione di un suo leader, al-Jamaa si vendica con l’assassinio di politici, quindi avvia una campagna di attacchi terroristici contro poliziotti, cristiani e turisti stranieri, soprattutto nell’Alto Egitto, che prosegue fino al 1998 e produce circa 1.500 vittime (Hafez 2004a, 34).
2. Dinamiche di radicalizzazione
II Termine “radicalizzazione” è qui utilizzato per indicare un cambiamento di prospettiva e degli atteggiamenti degli attori politici, così come un mutamento dei repertori di azione, verso una sempre maggiore “assertività”, come l’hanno definita Charles Tilly e Sidney Tarrow (Tilly e Tarrow 2006, 217), cioè verso atteggiamenti intransigenti e verso la crescente accettazione e l’adozione di mezzi conflittuali e violenti (9).
Come osserva Sedgwick, quello di radicalizzazione non è un concetto aproblematico, perché è usato con molti significati diversi e perché concentra la sua analisi sugli attori “radicali”: “il concetto di radicalizzazione enfatizza l’individuo e, in qualche misura, l’ideologia e il gruppo, mentre de-enfatizza le circostanze più ampie […]” (Sedgwick 2010, 480-481). In altre parole, la radicalizzazione è spesso intesa come qualcosa che riguarda un attore “deviante”, piuttosto che gli attori coinvolti in un conflitto.
Tuttavia, questa decontestualizzazione è fuorviante, non solo perché la radicalizzazione è spesso il risultato delle interazioni tra i gruppi militanti e i loro avversari (cfr. Della Porta 1995, Neidhardt 1989, Hafez 2004a); ma anche perché, come questo articolo cerca di mostrare, la radicalizzazione implica la trasformazione dei rapporti con il loro contesto sociale: comprende mutamenti negli atteggiamenti e nelle forme di impegno dei militanti con una popolazione, ed è accompagnata e rafforzata dalle dinamiche di interazione tra i gruppi militanti e le loro constituencies.
Nel caso di al-Jamaa al-Islamiyya, possono essere identificati due principali modelli di sviluppo, che comportano una dinamica di rafforzamento reciproco di crescente risentimento, ostilità e violenza. Il primo ruota intorno al progetto islamista di combattere la “corruzione morale” e di imporre un ordine morale islamico nei quartieri e nelle città sotto il loro (parziale) controllo, che gradualmente evolve in una campagna di imposizione violenta delle norme di condotta morale che compromette il sostegno locale. Il secondo modello può essere osservato quando si ha una escalation negli scontri tra al-Jamaa e la polizia e durante il successivo sviluppo della rivolta violenta.
Qui, i militanti reagiscono con violenza ai segni di indebolimento del sostegno ed alla collaborazione con la polizia, innescando una dinamica che conduce all’isolamento progressivo dei militanti e a una perdita di controllo sulle pratiche violente. In entrambi i modelli di sviluppo, le interazioni tra i militanti e il loro ambiente sociale sono strettamente intrecciate con gli scontri con la polizia, con i processi di escalation violenta in tutti i lati di questo triangolo che si rafforzano a vicenda.
2.1. Imporre il bene e proibire il male: la radicalizzazione della lotta contro la corruzione morale
II rapporto di al-Jamaa al-Islamiyya con la popolazione musulmana è caratterizzato da una particolare ambivalenza. Da un lato, il gruppo si identifica fortemente con la popolazione e coltiva un’immagine di sé quale “movimento popolare” con una forte supporto locale10. D’altra parte, d’accordo con il pensatore islamista Sayyid Qutb, il gruppo concepisce la società come in uno stato di jahiliyya, ovvero in uno stato di ignoranza simile ai tempi antecedenti al profeta Maometto (Qutb 1981, 15, 152), e sottolinea la necessità, per i veri credenti, di prendere le distanze da tutti gli infedeli e dalle influenze corruttrici della società (Al-Berry 2002, 88-89).
Questa prospettiva comporta quella che Patrick Haenni definisce un atteggiamento “polemico” verso queste constituencies (Haenni 2005, 145-146, 192-194): un atteggiamento che implica la credenza in una superiorità morale e spirituale e che al tempo stesso sfida le tradizioni e le gerarchle sociali.
Oltre a chiamare il popolo all’Islam (al-dawa), il gruppo fin dall’inizio si è anche attribuito una missione di “comandare ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato” (al-amr bi-l-Ma ‘rufwa-l -nahi ‘un al-munkar), un concetto noto anche come hisba, che nel suo significato tradizionale è legato all’ “autorità di un sovrano legittimo, ma è stato trasformato da al-Jamaa in un programma attivo di trasformazione del male con la forza” (Meijer 2009, 1994).
In relazione al suo ambiente sociale, ciò significa che nei campus e nei quartieri al-Jamaa tenta di imporre la sua visione delle norme islamiche di condotta morale sulla popolazione musulmana, inizialmente soprattutto “dando consigli” e rimproverando le persone (Gaffney 1997, 278; Al-Berry 2002, 52-56; Meijer 2009, 191-195).
Presso l’Università di Assiut a metà degli anni Ottanta, per esempio, al-Jamaa cerca di “islamizzare” la vita del campus, predisponendo aree separate per studenti maschi e femmine nell’auditorium e nelle mense, protestando contro gli spettacoli musicali, le proiezioni cinematografiche o i viaggi misti, ma anche intervenendo con gli studenti che conversano con studenti di sesso opposto o con le studentesse che non vestono “adeguatamente”.
Come riconosce un ex leader di al-Jamaa di Assiut, questi interventi potevano sfociare in molestie ed intimidazioni trasformarsi in vessazioni in caso di rifiuto di obbedire da parte degli studenti (11) e in diverse occasioni i membri di al-Jamaa aggrediscono violentemente gruppi musicali o sottoposto presunti “trasgressori” a pestaggi punitivi (Al-Berry 2002, 113-117; Gaffney 1997, 278; Ramadan 1993, 162-163).
In alcuni casi, questi contatti si fanno sempre più ostili, come nel caso di un evento in cui i membri di al-Jamaa rimproverano uno studente per aver parlato con una ragazza (che si rivela poi essere la sua fidanzata). A seguito del disappunto da parte del giovane, che si rifiuta di accettare le loro richieste, si sviluppa un conflitto che finisce per coinvolgere una dozzina di studenti (12).
Espandendo la sua attività al di fuori dell’Università, nella metà degli anni Ottanta, al-Jamaa inizia la “lotta alla corruzione” anche nella città di Assiut, molestando le coppie che si tengono per mano o, in qualche altro modo, si comportano “impropriamente”, picchiando severamente i presunti omosessuali, fustigando gli ubriachi, applicando un divieto sulle bevande alcoliche, tramite il blocco dei camion che trasportano casse di birra, minacciando i commercianti e dando alle fiamme i videonoleggi (13).
Questi atti sembrano diventare sempre più violenti e in qualche caso i resoconti riportano di donne aggredite con l’acido perché non indossano il velo (14). Come spiega Osama Hafez, uno dei leader originali del gruppo, nella sua successiva valutazione delle colpe e degli errori del gruppo, queste “violazioni” hanno gravemente minato il supporto tra la popolazione di Assiut. [Questi atti ebbero] un effetto negativo sulla popolazione e produssero avversione contro il gruppo islamico e la chiamata all’Islam. Questo è ciò che è successo ad Assiut e questa è la ragione per cui le persone, in Egitto, considerano tutti gli uomini che portano la barba con ostilità e diffidenza. Questo ha intaccato la stabilità della città [di Assiut] e danneggia la chiamata all’Islam” (15).
Altrettanti sono stati gli sforzi di al-Jamaa per “vietare il male” ad Imbaba, un sobborgo del Cairo dove, in assenza delle autorità governative, il gruppo aveva acquistato un notevole grado di controllo su alcuni quartieri, verso la fine degli anni Ottanta. Qui al-Jamaa interrompe i concerti e i balli per le celebrazioni dei matrimoni, rimprovera le donne per il loro atteggiamento “non islamico”, proibisce di fumare il narghilè o di giocare a carte nelle sale da té, o, addirittura, brucia i negozi che vendono “impropriamente” videocassette o alcool (Haenni 2005, 103-105).
Questi avvenimenti, tuttavia, provocano un crescente risentimento tra la popolazione, e come afferma un abitante, “fondamentalmente sono d’accordo con loro [al-Jamaa al-Islamiyya], ma rifiuto alcuni dei loro comportamenti. […] Il narghilè (shishd), per esempio, dicono che è vietato (haram), ma io dico che non è consigliato ma permesso (makruh); condannano le celebrazioni dei matrimoni con danze e musica […] e ciò è indispensabile per noi” (16).
Al-Jamaa, a sua volta, sembra reagire ai crescenti risentimenti con un aumento degli atti coercitivi e violenti contro la “corruzione”, attaccando videonoleggi e negozi cristiani, e ciò conduce ad un ulteriore ritiro del consenso.
Come sostiene Haenni, nella sua analisi degli sviluppi ad Imbaba, questo processo colpisce anche il supporto tra i commercianti del mercato locale, che avevano fornito ai militanti i mezzi finanziari per sostenere i loro servizi socio-assistenziali e porta a una diminuzione delle donazioni. In mancanza di fondi, il gruppo inizia a estorcere il denaro dai cristiani, ma anche dai musulmani proprietari di negozi, il che, a sua volta, porta ad un ulteriore deterioramento dei rapporti tra al-Jamaa e la popolazione locale (Haenni 2005, 33-38, 103-105, 115-118).
In sintesi, gli sforzi di al-Jamaa al Islamiyya per “proibire il male” e per imporre norme di condotta morale sulla popolazione sembrano innescare una serie di interazioni in cui il rifiuto del popolo di rispettare i “consigli” islamisti e il rifiuto del progetto di trasformazione culturale di al-Jamaa si riflettono in atti sempre più aggressivi e violenti da parte dei militanti, che, a sua volta, determinano un’ulteriore diminuzione delle simpatie nei confronti del gruppo.
Mentre è rigido e forte nel suo porre l’enfasi sulla legge islamica sin dall’inizio, il gruppo diventa sempre più aggressivo e violento nel suo rapporto con la popolazione, come risultato di un processo guidato, se non causato, da una dinamica di interazione che rafforza gli atteggiamenti di radicalizzazione degli atteggiamenti e dei repertori di azione di al-Jamaa in relazione al loro ambiente sociale.
In questo modo, come si comprende anche dal racconto di al-Berry, l’esecuzione di un precetto morale islamista è strettamente intrecciata con la conquista del controllo su un’università o su un quartiere. Quindi, respingere gli appelli dei militanti all’autorità morale significa sfidarne il potere. Ciò significa che le loro risposte aggressive alla resistenza sembrano scaturire dalla volontà di difendere i sacri comandamenti, così come di affermare l’autorità del gruppo.
2.2. Violenza, ritiro del supporto e lotta per il controllo durante le insurrezioni violente
Quando gli scontri tra al-Jamaa al-Islamiyya e la polizia evolvono in una insurrezione violenta, diventa visibile una seconda dinamica di radicalizzazione. I rapporti tra militanti e popolazione locale si intrecciano in dinamiche di violenza, che interessano i legami sociali, e che sono allo stesso tempo rafforzati dal progressivo ritiro del supporto da parte della popolazione locale, e, infine, dall’isolamento dei gruppi militanti.
Si hanno, pertanto, sviluppi differenti tra Alto Egitto e periferia del Cairo. Ad Ayn Shams gli scontri con le forze di sicurezza iniziano già nel 1988, dopo un tentativo da parte della polizia di arrestare presunti membri di Al-Jamaa alla Moschea locale trasformato in una lotta di resistenza. Durante gli scontri che seguono, molti giovani simpatizzanti, ma anche molti cittadini comuni si schierano con i militanti, tra cui, secondo un testimone, anche donne anziane che lanciano pietre dai balconi (17).
Questo sostegno, tuttavia, si rivela relativamente di breve durata. Dopo i primi scontri, numerosi presunti militanti islamisti vengono arrestati e Ayn Sharms è sottoposta a un coprifuoco che provoca la chiusura anche del mercato aperto. Se la gente è furiosa, per via degli arresti arbitrar} e del caos generalizzato, in pochi, tuttavia, sembrano disposti a correre il rischio di essere arrestati o di subire ritorsioni per il loro coinvolgimento con gli islamisti e molti giovani si tolgono il loro galabiyyas bianco (tradizionale abito lungo, diventato un simbolo per gli islamisti) per indossare un paio di pantaloni e si radono la barba per evitare di essere perseguiti.
A seguito dell’imposizione del coprifuoco, ritorna la calma e svanisce ogni tipo di presenza visibile degli islamisti, e al-Jamaa al-Islamiyya è costretta ad agire in clandestinità, ma persine la loro presenza clandestina nei quartieri sembra debole (18).
Un processo simile ha luogo a Imbaba, che, dopo la roboante proclamazione, da parte dei militanti, della “Repubblica Islamica di Imbava”, diventa sede di un’importante operazione di polizia, nel 1992, in cui vengono schierati 14.000 poliziotti per circondare l’area e arrestare i presunti militanti.
In quel momento i rapporti tra al-Jamaa e la popolazione locale sembrano già essere diventati tesi, dopo che la “lotta contro la corruzione” dei militanti si era trasformata in una campagna di coercizione, e anche se i cittadini sono riluttanti a collaborare con la polizia, le forze di sicurezza incontrano poche resistenze e non vi sono resoconti di residenti apertamente schierati con al-Jamaa.
Alla luce dell’escalation della violenza gli abitanti si allontanano dal gruppo e anche Imbaba torna alla calma in tempi relativamente brevi (19). In entrambi i casi il crescente isolamento sociale dei militanti a livello locale conduce al loro ritiro da questo quartieri e contribuisce a un cambiamento dei loro repertori di azione in direzione di una campagna terroristica a livello nazionale.
Come diretta reazione agli incidenti di Aym Shams, al-Jamaa effettua una serie di attentati verso obiettivo politici, tra cui un attacco contro il Ministro dell’Interno, Zaki Badri, nel dicembre 1989. Il gruppo di Imbaba è apparentemente diviso dopo gli eventi del 1992, con alcuni membri che lasciano il gruppo mentre altri si radicalizzano.
Una fazione di membri di Al-Jamaa provenienti da Imbaba è ritenuta responsabile di una serie di attentati dinamitardi ai caffè posti nelle piazze centrali del Cairo nel 1993 (Haenni 2005, 118-122, 125-128), mentre altri militanti lasciano il quartiere per frequentare campi di addestramento in Afghanistan e al loro ritorno partecipano alla campagna terroristica in altre zone del paese.
In altre parole, durante l’escalation degli scontri, il clima di supporto nei confronti di al-Jamaa al-Islamiyya in questi quartieri si erode a causa della repressione della polizia, e sia gli abitanti sia i giovani simpatizzanti ritirano il proprio coinvolgimento nel gruppo. Il graduale isolamento, quindi, costringe i militanti alla clandestinità o ad abbandonare le aree, e al tempo stesso rafforza un processo di radicalizzazione che comporta un mutamento dei repertori di azioni, dagli sforzi compiuti a livello locale per creare spazi islamizzati, verso una campagna terroristica a livello nazionale, rivolta contro il governo, ma anche verso bombardamenti indiscriminati verso la popolazione civile.
Nell’alto Egitto la posizione di al-Jamaa al-Islamiyya è ancora più forte che al Cairo. Qui il gruppo ha costruito un largo seguito tra gli studenti e in molte città e villaggi ha il controllo su numerose moschee e quartieri (Hafez 2004, 84). In alcuni casi, simpatizzanti e seguaci ritirano presto il loro coinvolgimento con al-Jamaa, non appena iniziano i problemi con la polizia, come, per esempio, riporta al-Berry a proposito della sua scuola secondaria di Assiut, dove “abbiamo perso il terreno conquistato in modo ancor più veloce di quanto lo avessimo conquistato” (al-Berry 2002, 64).
Ma in larga parte la popolazione, e in particolare, per quelle componenti più attive, il supporto sembrava più resistente, e sviluppato nell’insurrezione violenta, marce di protesta da parte dei simpatizzanti di al-Jamaa attraverso miglia d’individui.
Ma anche nell’alto Egitto ha luogo un processo di isolamento e di radicalizzazione, che ha inizio, similmente, con una erosione del supporto sotto la pressione di scontri violenti, ma che è aggravato da una dinamica evolutiva che si sviluppa a partire dalle battaglie sempre più violente di al-Jamaas per riconquistare il controllo sulla popolazione.
Nell’Alto Egitto, le conseguenze della violenta rivolta (e contro-rivolta) sulla popolazione civile è enorme. I villaggi sono sottoposti a coprifuoco, migliaia di giovani vengono arrestati, e l’economia locale è condotta a un punto morto (Roussillon 1994, 237-239; Rapporto HWR 1993). All’inizio, tuttavia, le misure repressive della polizia sembrano piuttosto aumentare il risentimento tra la popolazione e il mantenimento del sostegno per gli islamisti sembra impedire qualsiasi forma di collaborazione con le forze di sicurezza (20).
La situazione sembra cambiare verso la fine del 1993, dopo che la polizia inizia a mostrare un certo contenimento nella zona di Assiut, ma anche dopo che i rapporti tra al-Jamaa e la popolazione diventano via via più tesi a causa di azioni sempre più coercitive e violente di “proibizione del male”, che comprendono, come sopra riportato, non solo percosse gravi, ma anche aggressioni con l’acido e altre atrocità. Inoltre, nella seconda metà dell’anno 1993, al-Jamaa non solo intensifica i suoi attacchi contro i poliziotti, ma istalla anche un certo numero di bombe nei caffè e in altri luoghi pubblici della città, avendo come target la popolazione civile (21).
L’indebolimento del sostegno sembra dunque accompagnato da una lenta crescita della volontà di collaborare con la polizia, cui i militanti reagiscono con una campagna di minacce e omicidi di presunti informatori, con la conseguenza di minare ulteriormente le relazioni di supporto con le comunità locali. Ad Assiut, e in particolare a Mallawi, che diviene il centro di attacchi violenti dal 1994 in poi, al-Jamaa colpisce un numero crescente di residenti musulmani, che sono accusati di avere tradito con la polizia i militanti (22).
Con il passare del tempo, la categoria delle persone definite come “traditori” si allarga e comprende non solo gli individui accusati di fornire informazioni alla polizia, ma qualsiasi forma di coinvolgimento con le autorità: guardie del villaggio, sceicchi delle moschee locali che accettano il controllo governativo, autisti di trattore che hanno contribuito a spianare i campi di canna da zucchero (utilizzati dai militanti come nascondigli) (23).
Inoltre, questi attacchi diventano sempre più brutali e sfociano in una campagna di atrocità che terrorizza la popolazione scoraggiandola dal collaborare con la polizia. In diversi incidenti segnalati tra il 1995 e il 1997, i militanti uccidono e decapitano presunti informatori di fronte agli abitanti dei villaggi, che sono costretti a guardare l’esecuzione (24).
In qualche caso poi, gli attacchi contro le guardie del villaggio, contadini o i poliziotti locali innescano un altro modello di interazione violenta tra al-Jamaa al-Islamiyya e le comunità locali: cicli di vendetta in cui i familiari attaccano le famiglie dei militanti islamisti e viceversa. Nel novembre 1994, per esempio, al-Jamaa uccide una guardia a una moschea di un villaggio vicino a Mallawi. I familiari della vittima allora, poco dopo si vendicano con il padre di uno degli assalitori.
A ciò i militanti rispondono uccidendo due membri di questa famiglia e, qualche settimana più tardi, assalendo la moschea uccidendo nove persone, tra le quali due membri della stessa famiglia (25).
In sintesi, nel caso di Al-Jamaa al-Islamiyya, le dinamiche di interazione tra militanti e settori del loro ambiente sociale contribuiscono a un processo di radicalizzazione che comporta forme di azione sempre più violente e, infine, l’uso di forme estreme di violenza. Nel loro sforzo di “proibire il male”, i militanti rispondono ai segni di resistenza attraverso un mutamento delle loro strategie dall’al-davva (chiamata del popolo all’Isiam) all’imposizione di un ordine morale attraverso l’uso della forza. Durante le insurrezioni violente, i militanti rispondono ai segni di declino del supporto con gli assassinii di presunti informatori, che si evolvono in campagne di violenza terrorista contro le comunità locali.
Le due dinamiche, in un certo senso, si auto-rinforzano. La crescente violenza contro la popolazione mina ulteriormente il supporto e conduce a un maggiore isolamento sociale dei militanti. Come indica il resoconto di al-Berry, questo processo è accompagnato da un cambiamento di prospettiva verso la popolazione, che alla fine degli anni Ottanta comincia a includere nozioni che legittimano non solo la lotta violenta contro gli infedeli, ma anche contro la comunità musulmana.
Egli cita un documento interno dal titolo “la lotta contro la comunità che rifiuta di accettare la Legge di Dio”, che dichiara che “si tratta di combattere e attaccare l’intera comunità che rifiuta l’applicazione (anche di una sola) delle leggi di Dio. Questo è un obbligo, Questa lotta è una fonte di virtù ancora maggiore di quella contro gli infedeli” (26).
3. Completando il triangolo: interrelazioni tra polizia, gruppi militanti e le loro constituency
In entrambi i modelli di sviluppo sopra accennati le interazioni tra al-Jamaa al-Islamiyya e le sue constituency sono strettamente intrecciate con le interazioni tra militanti e polizia, formando un triangolo di dinamiche che si rafforzano a vicenda. In tal modo, possono essere identificati tre modelli tipici di interconnessione all’interno di questo rapporto triangolare.
In primo luogo, eventi locali e conflitti tra i militanti e la popolazione, possono provocare l’intervento della polizia, come per esempio ad Ayn Shams, dove la fustigazione pubblica di un uomo da parte di membri di al-Jamaa fa scalpore e costringe le autorità a reagire, o all’Università di Assiut, in cui il ricorso alle molestie da parte dei membri di al-Jamaa porta al coinvolgimento delle autorità universitarie e poi della polizia.
Eppure, in molti casi, le interazioni locali con la popolazione sembrano costituire meno un “innesco” isolato di coinvolgimento della polizia, quanto essere parte di un processo intercorrelato, in cui la crescente influenza e audacia di al-Jamaa nei contesti locali diventa una sfida e li conduce a un conflitto con le autorità locali, che si trasforma gradualmente in una dinamica di competizione politica che a poco a poco si sposta a livello regionale e poi a livello nazionale.
Una seconda dinamica riguarda l’inasprimento delle tensioni tra militanti e popolazione locale, causato dai crescenti scontri con la polizia. Ad Imbaba, per esempio, i gruppi militanti diventano sempre più aggressivi nei confronti della popolazione, dopo che sono cominciati i problemi con le forze di sicurezza, come spiega un abitante intervistato da un giornalista: “gli islamisti erano [solo] un fastidio, fino a quando sono iniziati gli scontri con la polizia. Da quel momento hanno colpito chiunque si trovasse nel mezzo” (27).
Un processo simile, seppur molto più violento, ha luogo durante l’insurrezione dell’alto Egitto, dove le operazioni di polizia e gli arresti dei militanti (sospetti) non solo radicalizzano la “lotta contro la corruzione” dei militanti, ma innescano anche la loro ricerca di “informatori” che, sullo sfondo del conflitto violento, si evolve una lotta per il controllo sulle comunità locali.
In questo modo, lo sviluppo degli scontri violenti con la polizia e i cambiamenti nei rapporti si fondono in un processo in cui il movimento militante si trasforma gradualmente in un gruppo clandestino, sempre più isolato, e nel quale la causalità di entrambi gli sviluppi difficilmente può essere separata: l’escalation della violenza comporta crescenti tensioni nel rapporto tra i militanti e le loro constituency e crea la necessità di passare a forme clandestine di azione al fine di evitare di essere perseguiti, in questo modo contribuendo ad una graduale erosione dei rapporti con le loro constituency.
In terzo luogo, l’erosione del sostegno tra la popolazione locale intacca la capacità dei militanti di resistere alle pressioni della polizia e di evitare la persecuzione, conducendo ad una tipica dinamica di isolamento sociale, all’indebolimento della campagna insurrezionale, ma anche una radicalizzazione delle pratiche violente.
Nelle aree di Assiut e Mallawi, le violente campagne dei militanti sembrano vacillare e la polizia sembra in grado di spingere i militanti fuori delle aree – anche a causa della loro perdita di sostegno nelle comunità locali, in un momento in cui sentimenti, tra quei settori un tempo simpatizzanti con al-Jamaa, si sono già rivolti contro il gruppo. Verso la metà del 1994, il numero di attacchi nell’area di Assiut diminuisce rapidamente, ma aumenta nella regione di al-Minya, per diminuire nuovamente solo dopo circa due anni (28).
Dal 1996 in poi, i resoconti di militanti nascosti nei campi di canna da zucchero o nei canali di irrigazione prosciugati diventano più frequenti, indicando che questi non riescono a trovare rifugio nei villaggi. L’isolamento sociale contribuisce così alla sconfitta graduale dei militanti nel loro conflitto con la polizia.
Ciò è, tuttavia, accompagnato anche da una perdita di controllo sulle pratiche violente. Dal 1996 in poi, il numero dei “massacri” contro Cristiani o civili Musulmani e contro i turisti stranieri aumenta, culminando nell’attacco a Luxor, in cui vengono uccisi 58 turisti e quattro guardie egiziane (29).
Dalla prospettiva relazione qui proposta, questo sviluppo può essere interpretato come (in parte) il risultato della perdita di controllo sulle pratiche violente insite nell’orientamento normativo dei militanti verso le loro constituency e dall’indebolimento dei meccanismi di controllo sociale insiti in questa relazione.
Il fatto che i gruppi militanti si identifichino con una popolazione quale comunità per la quale combattono e che dipendano dal supporto pratico e morale di queste comunità, comporta un’influenza che può condurre i militanti ad adattare le loro azioni in reazione alle critiche e alle resistenze percepite. L’isolamento sociale dei militanti non solo mina la loro influenza, ma implica un’esasperazione delle ostilità in relazione al loro nemico, così come in relazione a queste constituency.
4. Conclusioni ed elementi di comparazione
Questo articolo sostiene che esiste una particolare relazione tra i gruppi militanti e quelle parti della popolazione individuate come loro constituency, e che all’interno di questa relazione, possono svilupparsi modelli di interazione che contribuiscono ad un processo di radicalizzazione.
Questa relazione è influenzata dalle interazioni (violente) tra i militanti ed i loro avversari (le forze di sicurezza dello Stato). Ma allo stesso tempo, i rapporti tra i gruppi militanti e il loro ambiente sociale influiscono in maniera cruciale sullo sviluppo della campagna di insurrezione, formando così un rapporto triangolare che modella i processi di violenza politica.
Nel caso di al-Jamaa al-Islamiyya, possono essere identificati due meccanismi di base che rafforzano questo processo, in primo luogo, l’idea dei militanti di creare una vera società islamica prevede un programma di trasformazione dell’ordine sociale e culturale della comunità musulmana (lotta alla corruzione nella società), che provoca risentimenti e innesca un ciclo di rifiuto e di radicalizzazione, che culmina nel tentativo di imporre norme di condotta morale con la forza, che, contribuendo, a sua volta, ad un’ulteriore perdita di sostegno.
In secondo luogo, l’indebolimento del supporto durante l’escalation violenta degli scontri con la polizia innesca una dinamica di isolamento sociale e di radicalizzazione, in una duplice dinamica di ritiro e di disimpegno, con i militanti che si allontanano dalle arene locali per impegnarsi in campagne terroristiche nazionali (o internazionali), oppure in una lotta violenta per il controllo della comunità, in cui i militanti reagiscono a ciò che percepiscono come un tradimento, cercando di forzare e terrorizzare la popolazione
Dell’adeguarsi e nel non collaborare con il loro nemico, distruggendo così tutto ciò che rimane delle relazioni di sostegno nelle comunità locali.
L’argomento causale qui riguarda la dinamica del processo piuttosto che la sua origine: in una certa misura, al-Jamaa è più “radicale” rispetto ad altre parti del movimento islamista fin dall’inizio, in particolare nell’enfasi che pone su un rigido ordine morale. Tuttavia, la sua radicalizzazione verso l’utilizzo di forme estreme di violenza contro la popolazione è il risultato di una dinamica di risentimento, violenza, ritiro e isolamento sociale.
Quali sono le condizioni alle quali emergono questi meccanismi? E questi possono essere riscontrati in altri processi di violenza politica? Quest’analisi si basa su un singolo caso studio ed i suoi risultati non possono essere immediatamente generalizzati. Tuttavia, a partire da questa base, alcune considerazioni comparative possono essere effettuate.
La prima riguarda il fatto che al-Jamaa al-Islamiyya sia un movimento islamista e il grado in cui questo particolare “carattere” modella le relazioni con le sue constituencies. In effetti, i programmi di lotta contro la corruzione morale e il comportamento “non islamico” di al-Jamaa è in qualche misura caratteristica comune dei gruppi islamisti, ma non di tutti. Mentre questo elemento sembra preponderante tra gruppi come l’algerino GIÀ, risulta molto più ridotto in casi come Hamas, or Hizbullah, e la al-Jahad egiziana clandestina, per esempio, non si dedica per niente a questo tipo di attività.
Nel caso di al-Jihad, le interazioni avvengono a un livello molto più astratto, attraverso dichiarazioni pubbliche e atti di “propaganda tramite le azioni”, che facilitano un processo di disimpegno dalla scena egiziana, piuttosto che la forma della radicalizzazione violenta in diretta interazione con la popolazione osservata nel caso di al-Jamaa al-Islamiyya.
In altre parole, i gruppi islamisti sono bel lungi dall’essere uniformi per quanto riguarda il rapporto con il loto ambiente sociale, così come nei modi in cui questo rapporto si sviluppa.
I criteri strutturali rilevanti per il confronto, quindi, sembrano essere le forme dell’impegno dei militanti con le loro constituency e la misura in cui i militanti cercando di trasformare – e quindi porsi contro – l’ordine sociale e culturale della comunità; al-Jamaa al-Islamiyya rappresenta un movimento militante islamista relativamente grande che si confronta direttamente con la popolazione locale, e pone una straordinaria enfasi sulla “islamiz-zazione” delle comunità locali e sulla lotta contro la “corruzione morale”.
Quando si allarga il confronto, fino ad includere i gruppi militanti non islamismi, troviamo delle somiglianze sorprendenti riguardo a questi criteri, per esempio nel caso di alcuni movimenti sociali rivoluzionari, come Sendero Luminoso in Perù. In questi casi, è prevista una trasformazione culturale della società in nome della visione della nuova società dei militanti, che va in parallelo con un’imponente trasformazione delle tradizioni e degli aspetti della vita quotidiana e può causare una simile dinamica di rifiuto e di radicalizzazione.
Una seconda osservazione riguarda la dinamica di isolamento e di radicalizzazione che ruota attorno al controllo delle informazioni e della collaborazione. Come dimostra Kalyvas nella sue teoria della violenza nelle guerre civili (Kalyvas 2006, 146), questa dinamica sembra – in una certa misura – comune alle insurrezioni violente, in cui tutti i gruppi militanti devono affrontare sfide simili, al momento di confrontarsi con un nemico militarmente superiore.
Ciò nonostante, il modello di sviluppo è legato all’indebolimento delle relazioni di supporto, e per questo può differire i casi in cui il sostegno è basato, per esempio, sulla solidarietà di tipo comunitario, che sembra molto più resistente sotto pressione. Le relazioni tra movimenti etno-nazionalisti sembrano non solo in grado si sostenere la persecuzione e la pressione dell’escalation, ma anche di esercitare un grado molto maggiore di controllo sulla campagna violenta dai militanti.
* * *
(*) Stefan Malthaner è Ricercatore presso l’Institute for Interdisciplinary Research on Violence, alla Bielefeld University. Attualmente è Max Weber Fellow presso l’European University Institute, email: stefan.malthaner@uni-bielefeld. La traduzione dall’inedito in inglese è a cura di Luca Raffini
1) Cfr. inter alia Hafez 2004 e 2004b. Sui processi ài framing e diframe alignment cfr. Snow, Rochford, Worden, Benford ( 1986) e Benford e Snow (2000).
2) L’islamismo è qui definito secondo la definizione di Hafez (2004a): “per islamismo intendo individui, gruppi, organizzazioni e partiti che vedono nell’Islam una dottrina politica di riferimento che giustifica e motiva l’azione collettiva in rispetto di quella dottrina” (2004a, 4-5).
3) Per proteggere gli intervistati, non sono citati nomi e luogo e data delle interviste sono identificati solo in termini relativamente generici.
4) Alle elezioni per i consigli degli studenti, che danno un’indicazione approssimativa dell’influenza di al-Jamaa al-Islamiyya nelle università, il gruppo ottiene una maggioranza dei seggi nel 1985-1986 (interviste con i leader studenteschi di al-Jamaa ad Assiut, Inghilterra, marzo 2006. Cfr anche Springborn 1989, 226-27; Fariborz 1999, 149). La lettura religiosa settimanale di Al-Jamaa viene verosimilmente seguita da un numero di studenti compreso tra 1.000 e 2.000 e una dimostrazione di protesta per l’uccisione di uno studente nel maggio 1986 attrae un numero di persone stimato attorno alle 15.000 (Fariborz 1999, 150).
5) Intervista con ex leader di al-Jamaa, Londra, luglio 2005.
6) Intervista con leader studentesco di al-Jamaa di Assiut, Inghilterra, marzo 2006.
7) Interviste con i residenti di Ayn Shams, Cairo, dicembre 2004, marzo 2005; su Imbava si veda il resoconto di Haenni (2005, 40-42, 73-78), nel settimanale Al-Ahram, Dicembre 1992,17-23.
8) AP, 19 luglio 1992.
9) Sul concetto di radicalizzazione si veda anche McCauley e Moskalenko (2008), e Sedgwick (2010).
10) Questa auto-rappresentazione è apparentemente confermata anche contro le evidenze. Nel 1997, quando l’insurrezione in Egitto è chiaramente indebolita, uno dei leader del gruppo all’estero ancora dichiara: “La Gama’a Islamiyya è diffusa in tutti i principati egiziani, […] e riceve un forte sostegno dal popolo. […] Molti stanno continuando ad aderire a Gama’a”. Intervista pubblicata in Nida’ul Islam, aprile-maggio 1997.
11) Intervista con ex leader di Al-Jamaa, Inghilterra, giugno 2007
12) Intervista con ex leader di Al-Jamaa, Inghilterra, giugno 2007
13) Intervista con abitante di Assiut, aprile 2004; al-Berry 2002, 55; Rubin 1990, 73; Ramadan 1993, 162-163.
14) Intervista con abitante di Assiut, aprile 2004.
15) Cit. in Mukrim M. Ahmad, “Al-Mussawar”, 4055, 28 giugno, 2002, 8-10.
16) Cit. in Haenni 2005, 104, traduzione a cura dell’autore.
17) Intervista con un abitante di Ayn Shams, Cairo, dicembre 2004.
18) Interviste personali ad abitanti di Ayn Shams, dicembre 2004-marzo 2005.
19) Intervista personale con un giornalista locale, Cairo, febbraio 2004; Haenni 2005, pp. 125-128; vedi anche Al-Ahram (settimanale), 10-16 dicembre 1992, 17-23 dicembre 1992.
20) Come riportato da un rapporto del Ministro degli Interni Abdel Halim Moussa su un attacco violento: “In conseguenza del potere esercitato dagli islamisti sul villaggio, nessuno tra gli abitanti si fa avanti per testimoniare. Nonostante l’avvenimento sia accaduto alla piena luce del sole, la polizia deve ancora riuscire a trovare un solo testimone”, citato in Al-Ahram (settimanale), 7-13 maggio 1992.
21) Rapporto dell’organizzazione Egiziana per i Diritti Umani (EOHR), estratto pubblicato inAl-Ahram (settimanale), 22 gennaio- 2 febbraio 1994.
23) Vedi il rapporto di AFP, 27 febbraio 1996; Al-Ahram, 14 aprile 1994.
24) AFP, 14 settembre 1995; DPA, 3 agosto 1995, 25 ottobre 1996. In questa fase del conflitto, l’uccisione di collaboratori è diventata, come afferma un attivista dei diritti umani a Mallawi, la principale forma di violenza da parte dei militanti nell’area (citato in DPA, 25 ottobre 1996)
25) Vedi AFP, 8 dicembre 1994; AFP, 3 giugno 1995; AP 5 giugno 1995.
26) Citato in al-Berry (2002, pp. 43-44), traduzione dell’autore.
27) Abitante di Imbaba, citato in Al-Ahram (settimanale), 17-23 dicembre 1992.
28) Vedi l’event-data analysis nell’Alto Egitto in Malthaner (2011b, 170-172).
29) Sul massacro di Luxor vedi: Police Federale Suisse: “Louxor: Synthése de Pattentat du 17 novembre 1997” (Polizia Federale Svizzera, marzo 2000).
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