L’Autore constata anzitutto che nella cultura odierna il discorso sulle virtù è frequentemente ritenuto problematico e trattato spesso con diffidente pregiudizio. Per questo, in secondo luogo analizza, sul piano teorico, alcuni concetti-chiave quali necessari presupposti per poter affrontare lo sviluppo di una paideia della virtù in modo costruttivo e sistematico.
Summary
The author reveals first of ali that in today’s culture the discourse on the virtues is frequently considered as problematic and treated with a certain diffidence and prejudice. For this reason, in the second place, the author analyses several key concepts which are a necessary presupposition in order to face the development of a paideia of virtue in a constructive and systematic manner.
di Giacomo Samek Lodovici (2)
1. Un’obiezione ineludibile
In effetti, l’uomo virtuoso viene considerato remissivo, troppo tranquillo, spento, “smorto”. È immaginato come un soggetto che vive in modo rigidamente ascetico. In questa interpretazione, la virtù è intesa spesso come un freno alle passioni e la vita da lei tessuta è concepita come una prassi di rinunce. Insieme a Nietzsche, molti concepiscono la prassi virtuosa come un «odio contro il “mondo”», come una «maledizione delle passioni», come «paura della bellezza e della sensualità» e quindi «una “volontà di morte”, o almeno «un esaurimento, impoverimento di vita», al cui cospetto «la vita deve […], schiacciata sotto il peso del disprezzo e dell’eterno “no”, essere sentita come indegna di essere desiderata, come priva di valore in sé». Ecco perché la morale tradizionale è considerata una «volontà di negazione della vita». (3)
La virtù, inoltre, è ritenuta anche noiosa e uniforme: «Ogni virtù inclina alla stupidità, ogni stupidità alla virtù; “stupido fino alla santità” – si dice in Russia – facciamo in modo di non diventare, infine, per stupidità, anche dei santi e dei noiosi! Non è forse la vita cento volte troppo breve per annoiarsi?». (4) Insomma, nella percezione contemporanea assai spesso l’uomo morale è ritenuto un infelice, un frustrato, un complessato, perché lo si pensa imprigionato in una gabbia di regole, norme, divieti, imperativi e perché si ritiene che egli sia colui che si automutila la possibilità di cogliere le migliori gratificazioni della vita.
Così, secondo l’odierna diffusissima convinzione, tra moralità e felicità c’è un’opposizione insanabile, una scissione irriducibile, che rende più assennato vivere immoralmente ma felicemente. Eppure, da Socrate fino a Tommaso d’Aquino (salvo poche eccezioni) l’uomo moralmente buono, che cioè esercita le virtù, era considerato l’uomo che giunge alla felicità più profonda possibile. C’è un’opposizione tra moralità e felicità?
Oppure è vero, come già dicevano Socrate e Platone, (5) che l’uomo giusto è più felice dell’ingiusto? Se un’educazione alla virtù non si confronta con questa comprensione diffusa della stessa virtù, molto difficilmente potrà sortire dei risultati significativi. E se un educatore non riesce a trasmettere all’allievo una differente concezione della vita moralmente buona, molto difficilmente potrà maieuticamente spronarlo verso la vita virtuosa.
D’altra parte, la difficoltà ad educare alla virtù è oggi accentuata dal diffusissimo emozionalismo, un processo culturale che ha sia aspetti positivi, sia aspetti negativi. Non è possibile qui esaminarlo nel suo complesso, né in questa sede è possibile indicare i suoi pregi, (6) perciò fra poco ci limiteremo solo a menzionarne alcuni aspetti deteriori.
Per il momento, sul piano sociologico, nella nostra epoca va rilevato, come fa Michel Lacroix, il passaggio dall’homo sapiens all’homo sentiens. In effetti, nel nostro tempo, dopo il crollo delle ideologie, le passioni politiche sono spente o comunque molto smorzate, ma alcuni fatti di attualità (vittorie sportive, fatti di cronaca nera, massacri, catastrofi naturali, vere o false epidemie, ecc.) scuotono la psiche collettiva come ondate di shock, mettendone in luce l’iperemotività.
Ciò avviene anche perché i mezzi di comunicazione di massa inducono emozioni e promuovono mobilitazioni emozionali, mostrandoci non solo l’evento ma, come in un pacchetto preconfezionato, l’evento e le emozioni che è dovere (secondo i media) provare. (7) Come dice ancora Lacroix, (8) anche l’ecologismo, non di rado, nasce da e produce sentimenti di paura e devozione per la natura, e diverse pratiche (para) religiose (per esempio il New Age) esaltano stati emotivi che promanano dalla voluttuosa fusione con il cosmo.
Analogicamente, il paranormale e l’occultismo intercettano un desiderio di emozioni forti. (9) Anche «la musica, grembo in cui le nuove generazioni sempre più vivono, è sacra per le emozioni che produce o perché permette di liberarsi dalla rabbia accumulata» (10) durante le proprie esperienze.
Per i giovani, ma anche per i meno giovani, un’altra sorgente imprescindibile di emozioni intense sono le storie sentimentali «dove fondamentale è creare un clima di continua sorpresa, perennemente nuovo. [E] nell’immaginario diffuso l’incanto è legato al fare sesso – emozione per eccellenza – che si vuole piacevolissimo, senza intoppi e fatica e libero dall’impegno di costruire e rilanciare la relazione.
Tutto così facile e bello come in tv o nei film». (11) Non di rado, anche la religione viene coltivata se e finché produce emozioni, cosicché, al supermarket del sacro, viene assemblata una propria religione fai-da-te, vengono presi nelle religioni quegli aspetti, riti e tecniche che producono vibrazioni interiori. Infine, l’uso di sostanze stupefacenti nasce spesso come risposta ad un desiderio di emozioni molto intense, di sensazioni esaltanti, di stati di dissoluzione dell’io in un flusso di emozioni.
Insomma, l’homo sentiens cerca di conseguire un rapporto sensitivo col mondo, che è considerato «una sorgente di emozioni da vivere [i cui costituenti ultimi] non sono atomi di materia, ma particene emozionali», (12) cosicché esiste solo o quasi ciò che è sentito. Molto spesso l’uomo contemporaneo va in cerca di vibrazioni emotive, cerca di alimentare delle continue e sempre più intense emozioni, il suo valore-fine è essere emozionato: «Essere significa sentire», (13) sentio ergo sum. Il suo imperativo morale è: “libera le tue emozioni”. Così, se l’eroe morale greco-medievale era l’uomo virtuoso capace di armonizzare gli affetti e la ragione, quello contemporaneo è il sensation-seeker, che vuole liberarsi dalla ragione.
Dunque oggi è pressoché impossibile promuovere una vita virtuosa se non si dissipa in un allievo l’idea dell’antinomia tra vita buona e spontaneità, tra virtù e felicità, tra virtù ed emozioni.
2. L’infelicità del nostro tempo
Ora, ciò che va mostrato è, in primo luogo, che l’uomo contemporaneo che coltiva come traguardo un tipo di autorealizzazione come quella sopra menzionata non pare essere maggiormente felice rispetto ai suoi predecessori del passato. Infatti, non solo gli uomini felici sono pochi, ma la nostra epoca sembra contrassegnata da una infelicità mediamente molto diffusa.
Alcuni autori hanno rilevato nelle società in cui lo standard di qualità della vita è più elevato, l’esistenza di alcuni indici di infelicità: (14) ad esempio la crisi delle famiglie, certamente favorita da una legislazione differente da quella del passato, ma anche, a nostro avviso, espressione del fatto che molti uomini non trovano più nel matrimonio e nella famiglia uno dei luoghi possibili della propria realizzazione e della propria felicità (il discredito nei confronti del matrimonio e della famiglia è un fenomeno recente; da sempre e in quasi tutte le culture l’uomo ha legato alla nuzialità e alla genitorialità una delle possibili forme di compimento felicitante); l’aumento dei casi di patologie psichiche, molte delle quali (dicono gli psicologi) sono prodotte da una sorta di rassegnazione e di profonda delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso ed alla droga; l’aumento dei suicidi: nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno.
Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più colpita sia il Nord-Est (9,8 %), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 %). Il che prova ulteriormente che non è principalmente il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a determinare l’infelicità.
Se questi indici non dovessero convincerci ci si può comunque basare su alcune ricerche sociologiche, come quelle riportate e commentate da L Bruni, (15) da cui emerge un dato, di cui hanno preso ormai consapevolezza anche molti economisti: nelle società a reddito elevato avere più reddito non ci fa più felici.
Ad esempio, la percentuale degli americani che si autodefiniscono very happy sta diminuendo, a fronte di un forte aumento del reddito pro-capite. L’indice very happy dell‘ U.S. National Surveys’ questionnaire nel periodo 1946-1990 è sceso dal 7,5 al 7 %, mentre il reddito pro-capite è fortemente cresciuto (da 6.000 a 20.000 $). Molte ricerche concordano sul fatto che la felicità sta diminuendo, o almeno non sta crescendo, nelle società con economie avanzate. Eppure questa nostra società sembra molto tenacemente impegnata a conseguire la felicità, anche perché, a partire dall’Illuminismo, si è diffusa nella mentalità degli uomini occidentali la convinzione dell’esistenza di un diritto alla felicità.
Qual è il motivo principale per cui l’uomo contemporaneo, che forse cerca la felicità più tenacemente che in passato, è infelice e forse è anche maggiormente infelice che in passato? Forse si può cominciare ad avanzare un’ipotesi: c’è un nesso tra il modo in cui si svolge la ricerca contemporanea di felicità e la diffusa insoddisfazione del nostro tempo.
3. Il nesso amore-felicità
Per chiarire meglio questo punto bisogna adesso interrogarsi direttamente sulla felicità e sul modo di conseguirla. La felicità è un sentimento interiore di gaudio, di intima esultanza, di gioia e l’uomo la sperimenta di rado e per breve tempo; però può almeno più durevolmente sperimentare un sentimento di contentezza. Essa va distinta dal piacere corporeo, che è invece una sensazione corporea di gratificazione, che noi esperiamo quando una qualche esigenza corporeo-vitale viene soddisfatta. Che il piacere sia diverso dalla felicità lo si può comprendere intuitivamente anche solo mostrando che l’uno può esistere senza l’altra: per esempio, posso provare piacere, perché gusto un buon piatto, perché faccio una nuotata tonificante, ecc., e nondimeno sentirmi interiormente infelice.
Ora, per comprendere quale sia la strada per conseguire la felicità (o almeno la contentezza), prendiamo le mosse dal suo opposto: l’infelicità. Quest’ultima è una condizione di solitudine durevole e continuativa: un uomo realmente e continuamente (non solo temporaneamente) solo è un uomo tremendamente infelice. Certo, abbiamo bisogno di alcuni momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene relazioni significative con nessuno è un uomo terribilmente infelice.
Ci sono persone sole che vivono in pace con se stesse, ma la loro non è realmente una condizione di felicità bensì solo di assenza del negativo, di equilibrio, di assenza di turbamento (l’atarassia a cui anelavano gli stoici antichi), di eliminazione delle possibili ferite che derivano dal rapporto con gli altri, ma non di gioia. Infatti, non si può essere felici da soli,(16) perché l’uomo è un essere sociale.(17)
Questo vuoi dire che i contemplativi che vivono da eremiti sono per forza infelici? No, perché, se Dio esiste, essi non sono realmente soli, bensì in stabile comunione con un Primo Amico. Il punto è che l’uomo è un essere sociale, dunque per essere felici bisogna sentirsi amati; ma ciò non basta per estinguere la solitudine.
Per eliminare la solitudine non basta nemmeno vivere in mezzo agli altri, perché si può restare soli anche in mezzo ad una folla o ad una adunata oceanica se le relazioni con gli altri sono superficiali. Per rimediare alla solitudine bisogna entrare in comunione con gli altri, partecipare a loro la nostra vita e partecipare alla loro vita.
Ora, ciò è reso possibile dall’amore. (18) Infatti, esso è: una forza estatica, che cioè ci fa fuoriuscire da noi stessi, ci proietta verso gli altri, ci fa spostare il nostro baricentro vitale presso gli altri e ci fa «dimorare» presso di loro; una forza unitiva, che cioè realizza l’immedesimazione con gli altri, ci fa entrare in comunione con loro, ci fa vivere la loro vita, ci fa provare le stesse gioie e gli stessi dolori. (19)
Insomma, se l’infelicità consiste nella solitudine, la felicità, che è l’opposto dell’infelicità, deve coincidere con l’opposto della solitudine, pertanto con una condizione di comunione interpersonale, che è possibile instaurare mediante l’amore. Beninteso, questa fuoriuscita da me stesso è possibile solo con l’amore di benevolenza, che è l’amore che vuole il bene dell’altro.
Già in Aristotele amare significa principalmente volere il bene dell’altro e cercare di realizzarlo; del resto, dire “ti voglio bene” vuoi dire “io voglio per te il bene”, “voglio la tua felicità” non la mia. Solo l’amore di benevolenza è veramente estatico e centrifugo, mentre l’egoismo è centripeto, fa rimanere il soggetto in se stesso, determina una prassi di consumo e di utilizzo dell’altro, non certo di donazione, e rinserra l’uomo nelle anguste mura del sé.
Insomma, c’è una connessione tra amore e felicità, di cui è facile trovare delle conferme: infatti, tutto ciò che facciamo per amore ci risulta tanto più gioioso quanto più è intenso l’amore che proviamo o, perlomeno, ci risulta meno gravoso.
Ad esempio, andare tutti i giorni a lavorare per puro senso del dovere è molto faticoso, mentre andare a lavorare per amore di mia moglie e dei miei figli (e per amore di Dio se ho senso soprannaturale) può diventare gratificante, come molte persone possono confermare. Andare dal posto x al posto y per portare un libro può essere gravoso, andare dal posto x al posto y per portare in regalo un libro ad una persona amata (cioè per amore di questa persona) diventa gioioso.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare e ognuno può pensarne di più efficaci, per mostrare che l’amore può trasfigurare le nostre azioni e renderle gioiose, fino al punto che esistono (è un fatto) persone con grande fede che riescono a provare serenità e persine alcuni momenti di felicità anche in condizioni di acuto dolore fisico, perché, per amore, offrono questa loro situazione a Dio perché ne ricavi un bene.
4. Il nesso tra virtù e felicità
A questo punto possiamo forse riuscire a discutere l’obiezione preliminare da cui siamo partiti, quella della contrapposizione tra virtù e felicità. Probabilmente, essa è la conseguenza (20) di secoli di legalismo, che ci hanno abituato a pensare che l’uomo morale, l’uomo che esercita le virtù, sia colui che vive un’esistenza a colpi di senso del dovere, motivato dalla pressione di obblighi, norme, divieti e imperativi.
Ma questa visione dell’uomo morale è sbagliata perché l’uomo veramente morale è l’uomo che vive motivato dall’amore e le vere virtù sono proprio espressioni di amore, (21) come si può comprendere considerando le virtù principali o cardinali, cioè la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza.
Riprendendo e lievemente modificando il discorso di Agostino (22) possiamo dire che le virtù nella loro pienezza sono declinazioni dell’amore: la perfetta temperanza è innervata dall’amore, mi custodisce e mi preserva capace di donarmi a chi amo (l’altro e l’Altro) o, perlomeno, mi rende capace di non trattare gli altri come mezzi, bensì come fini in sé; la giustizia nella sua pienezza è l’amore che realizza il bene di chi amo (che questi sia qualcun altro o me stesso: infatti esiste anche una giustizia verso se stessi), per amore dell’altro e/o per amore di Dio; la perfetta fortezza è innervata dall’amore con cui affronto le difficoltà e gli ostacoli per conseguire il bene di chi amo (me stesso o qualcun altro), per amore dell’altro e/o per amore di Dio; la perfetta phronesis è sospinta dall’amore, e discerne le azioni che procurano il bene di chi amo (me stesso o qualcun altro), che realizzano ciò che è gradito a chi amo (l’altro e l’Altro).
Più precisamente, le azioni massimamente virtuose sono quelle di amore (verso me stesso, verso altri, verso l’Altro) o sono quelle che, in sé, nella loro prima identità, non sono azioni d’amore, però sono motivate da esso e perciò acquistano un’identità ulteriore, (23) diventano anch’esse atti dell’amore.
Se interpretiamo in questo modo l’esercizio delle virtù, se le interpretiamo come espressioni di amore, è possibile rigettare la tesi dell’impossibile conciliazione tra moralità e felicità. Infatti, se c’è una relazione tra amore e felicità e se c’è anche una relazione tra amore e moralità/virtù, allora esiste anche una connessione tra l’autentica moralità e la felicità, perciò l’uomo veramente morale e virtuoso è l’uomo più felice: può sperimentare momenti di felicità e vivere con uno stato d’animo durevole di fondo di contentezza.
Questo ci sembra assurdo perché siamo abituati a interpretare in modo sbagliato la vita morale come una continua sequela di estenuanti doveri e come una reiterata sottomissione a pesanti divieti. Ma, giova ripeterlo, questa non è la vera moralità: l’uomo veramente morale rispetta sì gli obblighi e le norme etiche, ma la sua motivazione è l’amore: andare a lavorare è compiere il proprio dovere, ma l’uomo veramente morale lo fa per amore, dei suoi cari e/o di Dio. Inoltre l’uomo morale compie anche degli atti molto nobili, che non sono per nulla doverosi, come, per esempio, dare la vita per gli altri.
5. Il paradosso della felicità
Se tutto ciò che abbiamo detto è vero, possiamo comprendere le ragioni della diffusione dell’infelicità nella nostra epoca. La nostra società, infatti, è fortemente connotata da stili di vita egoistici o, perlomeno, orientati al conseguimento della propria felicità, ma quanto abbiamo fin qui visto ci consente di comprendere un sorprendente paradosso, di cui sono sempre più consapevoli anche diversi economisti: la felicità la consegue (nella misura in cui essa è accessibile) solo chi non la cerca per se stesso, bensì chi la cerca per gli altri (24).
Possiamo trovare conferme di questo paradosso lungo tutto il corso della storia della filosofia. Persine in autori come Bentham, Mili e Sidgwick (i capostipiti di quella corrente di filosofia morale che è l’utilitarismo. [25]) autori insospettabili perché hanno ritenuto (erroneamente) che l’uomo agisca motivato solo dal proprio egoismo. Secondo Bentham, «per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni dispiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un’altra creatura sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua anima». (26).
Mili aveva proprio notato l’aspetto paradossale della felicità: «Per quanto questa affermazione possa essere paradossale, la capacità cosciente di rinunciare alla propria felicità è la via migliore per il raggiungimento di tale felicità», (27) che è uno scopo che «può essere ottenuto se non lo cerchiamo come scopo diretto. Sono felici (io credo) solo coloro che hanno le loro menti fissate su qualcos’altro che la propria felicità; sulla felicità degli altri, o nel miglioramento dell’umanità». (28)
Un altro autore utilitarista come Sidgwick parla precisamente di un «paradosso fondamentale dell’edonismo» (il quale è una forma di egoismo), consistente nel fatto che ci sono alcuni piaceri che possiamo provare solo distogliendo da essi l’intenzione. È il caso dei piaceri connessi alla benevolenza, che «sembrano richiedere, perché li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perché così facendo ne deriva il nostro». (29)
Perciò, come principale ostacolo per il loro conseguimento, Sidgwick indica esplicitamente l’egoismo: «L’egoismo […] quell’eccessiva concentrazione dell’attenzione sulla propria felicità personale […] rende impossibile all’individuo sentire un qualche interesse per i piaceri e dolori degli altri. La continua attenzione rivolta al proprio io che ne risulta, tende a privare tutte le gioie della loro intensità e del loro aroma, e a produrre una rapida sazietà e la noia» (30).
Al di fuori della tradizione utilitarista le conferme del paradosso della felicità proliferano e ci possiamo limitare solo a qualche esempio. Buona parte della tradizione classica di filosofia morale insegna proprio che la felicità è la conseguenza e l’effetto di una prassi che non è direttamente intenzionata ad essa e che non se la pone come obiettivo, ovvero è il corollario di una vita virtuosa, una sua risonanza.
Nell’età antica lo avevano compreso, per esempio, Aristotele e Seneca; in età medievale, per esempio, Agostino, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino; nell’età moderna, per esempio (oltre a Bentham, Mili e Sidgwick), Leibniz, Shaftesbury, Hutcheson, Smith, Palmieri, Genovesi e Ferguson; nel XX secolo d.C., tra gli altri, Scheier, Weil e Frankl.
In una prima approssimazione possiamo forse allora dire con Scheier (31) che l’uomo può conseguire direttamente i beni più periferici, come per esempio i piaceri sensibili: possiamo sperimentare dei piaceri sensibili, e così diamo soddisfazione ad una tendenza della natura sensibile dell’uomo. L’uomo può produrre beni di consumo, può incrementare la qualità della vita, il benessere e il comfort.
Però questo genere di soddisfazione è deludente, non è ciò che possiamo chiamare felicità. In effetti, come abbiamo già visto, nelle società più avanzate nonostante il benessere e lo standard della qualità della vita siano elevati, ci sono molti segnali di insoddisfazione. Ciò vuoi dire che la felicità più profonda è qualcosa di diverso dalla soddisfazione sensibile e dal benessere. Inoltre, si può notare che l’esperienza umana attesta un fatto: anche la soddisfazione sensibile è condannata alla diminuzione progressiva ed al-l’affievolimento.
È un dato di fatto, cioè, che, a lungo andare, progressivamente, una prassi egoistica ed edonistica, focalizzata sul conseguimento di piaceri sensibili, provoca una diminuzione dello stesso piacere sensibile: produce una soddisfazione sempre minore ed un desiderio che cresce sempre di più, che può addirittura degenerare nella frustrazione e nella patologia. (32) Come dice di nuovo Scheler, «è proprio questo il lato comico e strano dell’uomo che vive secondo i principi della filosofia edonistica, che egli tanto più sicuramente non ottiene il piacere quanto più energicamente ricerca quello stesso piacere». (33)
C’è ormai una letteratura psicologica su questo tema e la conferma psicoterapeutica offerta dall’esperienza clinica della psichiatria contemporanea: «La felicità […] è conseguenza di un’attività vitale non direttamente polarizzata verso di essa con desiderio e ricerca intenzionali. […]. Il clinico può osservare giorno dopo giorno […] che il principio del piacere è in realtà autodistruttivo. In altre parole, la ricerca diretta della felicità è autodistruttiva: è una contraddizione in sé […] proprio nella misura in cui l’individuo comincia a cercare direttamente la felicità, o a sforzarsi di conseguirla, in quella stessa misura non può raggiungerla. Quanto più si sforza di guadagnarla, tanto meno la consegue». (34)
Sempre in ambito psicoterapeutico, la logoterapia di V. Frankl ha ricavato dall’esperienza clinica l’idea che la felicità sia il corollario e la conseguenza dell’adesione ad un valore, nonché l’idea che essi non sia direttamente intenzionabile. Viceversa, «il principio del piacere, portato alle sue più estreme conseguenze, non può che fallire miseramente, e questo per il semplice fatto che da se stesso si ostacola. Quanto più cerchiamo di raggiungere qualcosa con tutte le forze, tanto più è difficile ottenerla». (35)
Del resto, verso la comprensione antropologica di questo fatto siamo già indirizzati dai passi di Bentham, Mili e Sidgwick poc’anzi citati. Infatti, il loro minimo comun denominatore è una qualche connessione tra la felicità più piena e profonda e la relazione interpersonale, tra la felicità e l’amore.
È però una lettura sinergica di Dionigi l’Areopagita e di Tommaso d’Aquino che consente di comprendere a fondo il nesso tra amore e felicità. Infatti, abbiamo già detto che l’infelicità coincide con la solitudine (durevole e continuativa). Ora, per rimediare alla solitudine non basta vivere in mezzo ad altri, giacché si può restare soli anche in mezzo ad una folla. Se l’uomo intrattiene relazioni intersoggettive superficiali non riesce a rimediare alla solitudine ontologico-esistenziale tipica della sua natura che è costitutivamente socievole; perciò, piuttosto, deve arricchire il suo mondo interiore partecipandolo intersoggettivamente ed attingendo alla comunione interpersonale.
Ma a quest’ultima accede solo l’amore di benevolenza, che estaticamente proietta il soggetto verso l’altro, consentendogli di trascenderne le qualità accidentali e di penetrare nei suoi recessi ontologici, producendo l’immedesimazione fino a fargli vivere la stessa vita dell’altro. Insomma, l’infelicità coincide con la solitudine e l’egoismo non la elimina, non consente di accedere alla comunione intersoggettiva, poiché la fuoriuscita dall’io che esso produce è soltanto incipiente e incompleta, e il movimento del soggetto è centripeto, di consumo e non di comunione, e lo rinserra nelle anguste mura del sé.
Se questo è vero, allora, la condotta egoista di chi cerca di conseguire la propria felicità utilizzando gli altri fallisce l’obiettivo della felicità. Un tale soggetto non è in grado di preservare l’amore di benevolenza, cioè nella relazione intersoggettiva non cerca il bene dell’altro in quanto altro, bensì solo in quanto propedeutico alla propria felicità.
Così, trattando gli altri in modo strumentale come mezzi per conseguire la propria felicità, si autoesclude dall’accesso al centro personale e intimo dell’altro che è foriero di felicità profonda. Infatti, se quanto abbiamo detto è vero, se la gioia è la risonanza soggettiva dell’amore che produce la comunione interpersonale, chi agisce utilitaristicamente nei confronti degli altri se la preclude, poiché soltanto l’amore autentico è forza estatica e unitiva e perciò è l’attività connaturale ad una natura ‘aperta’ come quella umana.
Al contrario, una prassi egoistica è una prassi intersoggettiva di consumo e non di comunione, una prassi contrassegnata dalla chiusura e non dall’apertura. Pertanto, questa prassi può essere, nell’immediato, fonte di piacere sensibile, in quanto comporta pur sempre la soddisfazione di una tendenza della natura sensibile dell’uomo, ma non di gioia spirituale, poiché quest’ultima dipende dall’assecondamento della natura umana nella sua globalità, come natura costitutivamente socievole.
6. Felicità ed emozionalismo
Inoltre, sia chi asseconda sempre tutte le sue pulsioni, sia chi si fa invadere dalle emozioni intense (le emozioni shock, cf sotto) e le cerca continuamente, finisce, non subito bensì a lungo andare, per diventarne sottomesso, finisce per mutilare la propria libertà. Il sensation seeker, come l’esteta di cui parla Kierkegaard, non è padrone di sé, perché la sua guida è lo stato d’animo, ed egli vive nell’attimo fuggente, anzi si fa vivere da esso. Vive in una condizione, per così dire, di frantumazione, segue lo stato d’animo del momento e quindi è diviso in tante parti quanti sono i suoi stati d’animo.
In effetti, l’uomo contemporaneo preferisce le emozioni shock, cioè quelle potenti ed intense, «ha bisogno di essere scosso da commozioni, stordito da attività isteriformi, sbalordito da impressioni inedite e potenti». (36) E in una «società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso di esser vivi. La droga, la violenza e l’orrore diventano degli stimolanti che, in dosi sempre più potenti, riescono ancora a suscitare un’esperienza dell’io», (37) cioè a far sentire vivi i soggetti contemporanei.
Sennonché le emozioni-shock atrofizzano molti nostri sentimenti: (38) «Siamo ancora capaci di vibrare per cose semplici e naturali? Lo sguardo di un bimbo, (39) lo stormire del vento fra gli alberi, il canto di un uccello, un quadro, una poesia non ci lasciano molto spesso indifferenti?». Ne emerge un quadro contraddittorio: «Allo scatenamento delle emozioni corrisponde una relativa povertà dei sentimenti», la bulimia di sensazioni forti produce un’anestesia dei sentimenti. «Ci si emoziona molto, ma non si sa davvero più sentire». (40)
In proposito, già Nietzsche diceva in modo chiaroveggente: «La nostra epoca è un’epoca di sovreccitazione, e proprio per questo non è un’epoca di passione; si surriscalda continuamente perché sente di non essere calda – nel suo fondo prova gelo». (41)
Tutt’al più, dopo che il soggetto ha esperito molte emozioni shock, subentra il sentimento della noia. In particolare, chi cerca spasmodicamente emozioni connesse col piacere sensoriale si condanna progressivamente all’assuefazione, perché l’incremento del piaceere sensibile non può procedere oltre un certo limite, superato il quale l’uomo, per così dire, si fulmina come il filamento di una lampadina attraversato da una corrente di tensione troppo elevata.
Ancora, la bulimia di emozioni forti comporta un’alterazione delle relazioni interpersonali. Infatti, il soggetto che vibra di emozioni-shock è fondamentalmente narcisista, è concentrato su se stesso, in ascolto delle proprie sensazioni: solo dopo, a posteriori, quando l’emozione è terminata, le condivide narrandole.
Va anche aggiunto che, poiché il piacere più intenso è quello del tatto, l’uomo emozionale è portato a ricercare soprattutto la percezione tattile e i suoi piaceri (quelli della gola e dell’eros). Il risultato, spesso, è che «l’uomo fatica non poco a trovare un varco per attingere la dimensione più profonda della realtà e specialmente la realtà personale propria e altrui. I rapporti tra gli esseri umani diventano l’incontro di due epidermidi emotive». (42)
Del resto, a questa medesima riduzione delle relazioni solo o quasi solo al loro aspetto emotivo, conduce anche il timore, oggi sempre più diffuso, che le relazioni non possano durare. In tal modo – come spiega Mauro Magatti – la logica di molti soggetti diventa: «prendo tutto quello che riesco nell’immediato, rinunciando a fare progetti per il futuro». (43)
E, comunque, quale che ne sia la ragione, sta di fatto che «all’interno della coppia si insegue – come illustra Eugenia Scabini -. Ci si aspetta empatia in tutti gli aspetti e interessi, ma la totale centratura sul polo affettivo, porta più a provare e riprovare lungo un filone narcisistico, che ad impegnarsi nella costruzione della reciprocità». (44)
Di più, dice Lasch, «uomini e donne affrontano oggi i rapporti personali calcolando attentamente il rischio emotivo. Decisi a manipolare le emozioni altrui proteggendo se stessi da ogni possibile trauma emotivo, coltivano una superficialità difensiva e mantengono un distacco cinico che, pur corrispondendo solo in parte ai sentimenti reali [che provano verso l’altro], diventa rapidamente abituale e in grado di inasprire i rapporti personali». (45)
Ecco perché nei rapporti si pratica il disimpegno e ci si prefigge di tenere sempre le porte aperte per poter eventualmente sciogliere i legami senza ferite non appena lo si desideri, perché la vita deve essere fluida, “liquida”. (46)
Gli uomini contemporanei sono «ansiosi di “instaurare relazioni” ma, al contempo, sono anche timorosi di restare impigliati in relazioni “stabili”, per non dire [peggio ancora] definitive, poiché paventano che tale condizione possa comportare oneri» (47) e possa fortemente limitare la loro tanto agognata libertà di avere proprio altre relazioni. La fragilità dei legami è poi oggi molto accentuata da media e da internet.
Infatti, talvolta le relazioni virtuali soppiantano quelle reali; quando ciò non accade esse tendono comunque a diventare paradigmatiche rispetto a quelle reali: la rete di internet è un contesto che già dal nome suggerisce contatti numerosissimi, in cui è facilissimo entrare e (ciò che più conta) facilissimo uscire: il pregio incomparabile della relazione elettronica è che si può sempre schiacciare il pulsante “cancella”.
Insomma, si pratica il disimpegno per non patire emotivamente, e, simultaneamente, si cerca la massimizzazione emotiva, come già notava Kierkegaard: «Ogni momento della vita non deve avere tanta importanza da non poterlo dimenticare non appena si vuole; d’altra parte ogni singolo momento della vita deve avere tanta importanza da poterlo rammentare a ogni istante». (48)
Ora, l’emozione positiva da un piacere che, come Faust, vorrebbe poter dire: «Attimo fermati, sei pur bello» ed il soggetto sa che l’emozione è senza domani laddove, come dice Nietzsche, «ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità”». (49) Così, una vita solo emozionale è un po’ come un’esistenza sulle montagne russe, cioè dove il picco emotivo si paga con una fase “down” di depressione e dove pertanto si cerca immediatamente di tornare in cima. (50)
Ma chi investe tutto sulla gratificazione emozionale arriva, a lungo andare (si noti bene: a lungo andare, a volte anche dopo molti anni), a percepire la propria vita come non cresciuta, e questo risulta doloroso. «L’emozione, cercata come fine ultimo, non fa maturare la persona, non la nutre, anche se momentaneamente le toglie la sensazione di fame.
Alla lunga, la vita non risulta intensificata, non cresce su se stessa. [Invece, coltivando le virtù], l’uomo diventa progressivamente capace di azioni molto più ricche, come un’atleta che grazie all’allenamento raggiunge prestazioni sempre migliori. Viceversa, quando la sua vita è solo emozionale, la crescita si blocca». (51) Infatti, «la vita spirituale non solo non rinnega o esclude i sensi ma anzi arricchisce e intensifica la stessa sensibilità.
I sensi dell’uomo sono sensi personali; l’apertura e la crescita della vita dello spirito rende i sensi più performativi»; (52) anzi, «solo la vita spirituale salva la sensibilità. Questa, separata da quella, si distrugge nella ricerca dell’espansione illimitata della vita e muore per esaurimento o per insensibilità». (53)
Esemplifichiamo il legame tra sensibilità e spirito. Due persone possono trovarsi di fronte alla stessa cosa ma, al contempo, vederla e sentirla in modo diverso. L’uomo emozionale che vive di emozioni shock subisce l’atrofizzazione dei suoi sentimenti. Per esempio, di fronte all’ Utima cena di Leonardo si sofferma probabilmente per pochi istanti e rimane deluso per la debolissima (o nulla) scarica emotiva che gli provoca.
Se, invece, davanti allo stesso dipinto giunge una persona dal gusto artistico raffinato e dalla vasta cultura, che ha studiato a fondo Leonardo, che inoltre coltiva una vita spirituale di credente e che ha meditato lungamente nei Vangeli l’ultima cena e la successiva passione di Cristo, ecc., allora vede la stessa cosa in un modo diverso rispetto all’uomo emozionale e vive un’esperienza toccante e profonda. Sosta per lungo tempo davanti al dipinto e vi ritorna, se può, anche in seguito. Il sentire di chi ha una ricca vita spirituale diventa sempre più intenso.
Egli (riprendiamo in parte gli esempi che abbiamo già fatto con qualche aggiunta), prova sentimenti intensi per un’opera d’arte, per un paesaggio, per il canto di un uccello, ascoltando un grillo in sera d’estate, per lo stormire delle fronde, per il gorgogliare di un ruscello, per un neonato, per un anziano, per un malato, per un sofferente. Non solo per le grandi cose, ma anche per quelle piccole ed abituali.
È ancora capace di uno stupore, che è segno di giovinezza spirituale, che è simile a quello che prova un bambino che scopre la realtà. E la capacità di provare meraviglia (da cui nasce la filosofia, come dicevano Piatone e Aristotele) è una difesa nei momenti di tedio, di stanchezza, quando si insinua un sentimento di disgusto per l’esistenza, quando le cose piccole ed abituali rischiano di provocarci assuefazione.
Per contro, una prassi concentrata sulla sola dimensione emozionale porta progressivamente ad un’intensificazione del desiderio e ad una diminuzione della sua soddisfazione, anche quando il soggetto raggiunge gli oggetti che desidera: un po’ come bere acqua salata, la quale non disseta, bensì intensifica la sete.
Infatti, come abbiamo detto, la contentezza/felicità umana è il riverbero soggettivo di una prassi innervata dall’amore che instaura la comunione interpersonale, dunque me la precludo se vivo solo consumando cose e persone come combustibile emozionale, perché esplico solo una prassi intersoggettiva assimilativa, e non di comunione, una prassi contrassegnata dalla chiusura e non dall’apertura. Pertanto, riesco ad attingere nell’immediato alla soddisfazione sensibile, in quanto soddisfo pur sempre una tendenza della mia natura umana che è anche sensibile, ma non posso sperimentare la contentezza spirituale.
Così, la felicità è gioia della felicità dell’altro, (54) come ha efficacemente affermato anche Leibniz in età moderna, spiegando che essa è delectatio in felicitate alterius, o (nel caso in cui l’altro non sia felice) gioia del cercare la felicità dell’altro. (55) In proposito Kierkegaard impiega un’immagine sintetica: «La porta della felicità si apre verso l’esterno», (56) cioè amando gli altri.
Lo stesso concetto si trova in Seneca: «Nessuno può vivere felice se bada solo a se stesso, se tutto rivolge al proprio interesse»; (57) in Bernardo dì Chiaravalle: «Ogni vero amore è senza calcolo e, ciononostante, ha ugualmente la sua ricompensa; esso addirittura può ricevere la sua ricompensa solo se è senza calcolo»; (58) in Shaftesbury: «Partecipare alla gioia o alla felicità degli altri [è ciò] da cui dipendono i più grandi di tutti i nostri piaceri»; (59) in Hutcheson: «Quando agiamo generosamente sperimentiamo la gioia di vedere gli altri felici»; (60) in Genovesi: «È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri»; (61) in Adam Smith: «Nella sua [dell’uomo] natura ci sono chiaramente alcuni principi […] che gli rendono necessaria l’altrui felicità»; (62) in altri economisti del XVIII sec., come Palmieri e Ferguson; (63) in Scheler. (64)
Insomma, «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente»(65) e ciò comporta che «l’uomo […] non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono (66) sincero di sé». (67)
Del resto il paradosso della felicità non è nemmeno l’unico che si possa riscontrare nell’esperienza umana, dove in altri casi si verifica il fatto che certi fini ci sfuggono proprio se cerchiamo di raggiungerli direttamente. Basta pensare al sonno: a meno di non assumere farmaci, quando non riusciamo a dormire è controproducente sforzarsi intenzionalmente di prender sonno e, se lo facciamo, finiamo per restare svegli.
Oppure si pensi all’oblio: possiamo sforzarci di ricordare qualcosa, ma è controproducente sforzarsi di dimenticare alcunché, in quanto, se ci adoperiamo intenzionalmente per farlo, il risultato è quello di rinforzare il ricordo di ciò che vogliamo dimenticare.
Torniamo allora al paradosso della felicità. Se, per le ragioni viste, la felicità è la conseguenza, la risonanza, l’effetto di una prassi che non se la pone direttamente come obiettivo, allora essa è qualcosa di gradito, di sperato, di desiderato, ma non può essere cercata direttamente, dunque ci accade come un dono, come un beneficio, come grazia.
Abbiamo visto che soltanto l’amore autentico consegue la felicità accessibile all’uomo, mentre la ricerca diretta della felicità personale, in cui consiste l’egoismo, se la preclude. La felicità è allora un dono, un dono divino, proprio perché la si consegue solo con l’amore di benevolenza, il quale, per definizione, non cerca la propria felicità, quanto, piuttosto, la felicità altrui (altrimenti non sarebbe amore di benevolenza).
Che fosse un dono divino lo aveva intuito già Aristotele: se c’è qualche cosa che è «dono degli dei agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani». (68)
7. La felicità perfetta
Nel corso delle precedenti pagine abbiamo visto che l’uomo che vive per amore vive più momenti felici ed è durevolmente più contento; ma adesso va altresì detto che anche tale uomo non è mai pienamente felice. Cerchiamo allora di comprenderne il motivo. Si tratta di riflettere sul sentimento della delusione.
L’uomo, precisamente, può sperimentare due tipi di delusione. La delusione per uno scopo mancato: volevo un buon lavoro e non l’ho avuto, volevo fare un viaggio e non l’ho fatto, volevo possedere una bella casa e non l’ho posseduta, volevo essere amato e non sono stato amato, ecc., e perciò sono insoddisfatto; e la delusione per uno scopo conseguito, la delusione, cioè, che proviamo perché il conseguimento di un certo scopo non ci soddisfa come ci eravamo aspettati: volevo un buon lavoro e l’ho avuto, volevo fare un viaggio e l’ho fatto, volevo una bella casa e l’ho posseduta, volevo essere amato e sono stato amato, ecc., eppure, ogni volta, contrariamente alle mie aspettative, pur avendo investito moltissime energie per cogliere questo scopo, non sono appagato.
Questo secondo tipo di delusione ha una natura rivelativa, perché consente di comprendere che l’oggetto del desiderio umano non è rinvenibile in nessuna esperienza finita. La struttura antropologica è quella di un essere essenzialmente inquieto.
Cerchiamo dunque di precisare la vera dinamica del desiderio, tornando alla delusione dell’obbiettivo conseguito. Come nota Tommaso d’Aquino, quando raggiungiamo i nostri obiettivi non li apprezziamo più e desideriamo altre cose, cioè il desiderio non viene appagato da essi. (69)
Per tutti questi oggetti vale l’«esperienza del disinganno», (70) cioè «la delusione non del successo mancato, bensì del successo conseguito», (71) vale a dire la frustrazione che accompagna il raggiungimento di un fine a cui anelavamo come se fosse stato il fine ultimo, ma che si rivela non definitivo.
Tali scopi ci fanno sperimentare «quel sentimento che si insinua in noi quando abbiamo ottenuto qualcosa che volevamo e che ci suggerisce che ciò che volevamo veramente non lo abbiamo raggiunto». (72)Perciò, dopo aver sperimentato questa seconda forma di delusione, operiamo, a posteriori, una relativizzazione di un fine che, per un certo tempo, ci era parso senza rivali. In tale frangente, nel momento in cui esperiamo la delusione che ci provoca ogni bene finito, possiamo allora avere come un’epifania del Bene Infinito.
Quando facciamo l’esperienza della delusione, comprendiamo che questa, «ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l’insaziabilità dell’uomo, va tuttavia vista […] ottimisticamente, come l’indizio che è un’altra la felicità che è conforme al livello spirituale degli esseri umani». (73) È allora che possiamo avvederci che la catena dei disinganni non è originata dalla natura particolare di questo o di quel bene finito, ma dall’aver trascurato la parzialità comune ad ogni bene finito, insomma, dal cuore dell’uomo sgorga un desiderio radicale e profondo che non è il desiderio di qualsivoglia bene finito, bensì il desiderio di un Bene Infinito.
Così, questo secondo tipo di delusione mostra che l’uomo è perennemente insoddisfatto non perché ha conseguito questo o quel bene invece che un altro, non per la particolare natura di questo o quel bene che ha conseguito, bensì per via della natura finita di tutti questi beni, la quale è incapace di appagare il desiderio umano. Quest’ultimo, dunque, è un desiderio di relazione con un Bene Infinito, una sete che nient’altro può soddisfare.
Di più, sappiamo già che la felicità è legata alle relazioni interpersonali, precisamente è legata alle relazioni interpersonali animate dall’amore. L’esperienza della delusione dello scopo conseguito, così, ci fa comprendere che solo una totale e definitiva e indefettibile relazione di comunione con una Persona Infinita, cioè con Dio, può dare soddisfazione all’anelito del nostro desiderio.
Una comunione definitiva e indefettibile, e non provvisoria e parziale come quella che gli uomini religiosi coltivano durante la loro vita biologica. Come ha detto S. Weil: «Quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima». (74) E quale sia Itaca per l’essere umano ce lo indica Agostino: «Ci hai fatti per te Signore, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in Te». (75)
Note
1) Questo testo riprende, facendo alcune aggiunte, i seguenti lavori: Samek Lodovici Giacomo, La sintesi filosofica: l’uomo e la felicità, in Bonferronì Marzio (a cura di), Human satisfaction, Milano, Franco Angeli 2005,147-163 e Samek Lodovici Giacomo, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Milano, Vita e Pensiero 2010.
4) lo., Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi 1968, vol. VI, tomo II, 135-136.
21) Cf Agostino, I costumi della Chiesa contro i manichei, e. 15, oppure La città di Dio, XV, 22.
22) lo., I costumi della Chiesa cattolica e i costumi dei Manichei, 1,15, 25, id., La città di Dio, XV, 22.
23) Sul piano teologico, poi, la carità è la radice e la forma (non la materia) di tutte le azioni virtuose, in quanto può ordinarle tutte all’amore di Dio (cf Tommaso d’Aquino, De caritàte a. 3).
24) Cf Bruni, L’economia, la felicità e gli altri.
25) Per un’indagine sull’utilitarismo cf Samek Lodovici Giacomo, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Milano, Vita e Pensiero 2004.
26) Bentham Manuscripts, University College, CLXXIV, 80, cit. da Goldworth Amnon, Editorial Introduction, in The Collected Works of Jeremy Bentham, Oxford, Clarendon Press 1983, XIX.
27) Mill John Stuart, L’utilitarismo, Milano, Sugarco 1991,33.
28) I D., Autobiografy and Literary Essays, in Collected Works I, Toronto-London, University of Toronto Press, Routledge and Kegan 1981,146.
29) Ivi 85.
30) Sidgwick Henry, I metodi dell’etica, Milano, II Saggiatore 1995, 527.
31) Scheler Max, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Milano, San Paolo 1996,426.
49) Nietzsche Friedrich Wilhelm, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano, Adelphi 1968, vol. VI, tomo I, 278.
50) «Mi meraviglio di cadere nell’angoscia – e tuttavia! Non smetto di giocare: è la condizione dell’ebbrezza del cuore. […]. Giocare è sfiorare il limite, andare il più lontano possibile, e vivere sull’orlo dell’abisso!» (Bataille Georges, Su Nietzsche, Milano, SE Studio Editoriale 1994,112).
51) Brighina, La verità del desiderio.
52) Sul piano teologico, dice Agostino, che parla alla luce della sua esperienza personale, «ad ogni uomo che si converte a Dio vengono trasformate la delectatio e le deliciae. Infatti esse non gli vengono sottratte ma mutate» (Agostino, Esposizioni sui salmi 74, 1).
53) Brighina, L’ideologia dell’uomo senza difetti, prò manuscripto.
54) Tommaso d’Aquino, Somma teologica, IMI, q.28, a. 1.
55) Leibniz Gottfried W., Codice diplomatico di diritto delle genti, in lo., Scritti politici e di diritto naturale, Torino, UTET 19652, 159. Questo, secondo Agostino (Discorsi, Roma, Città Nuova 1979,368,1), è anche uno dei significati espressi da Le, 9,24: «Chi pensa soltanto a salvare la propria vita la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria vita per me la salverà». A parere di chi scrive, questa convinzione è soprattutto espressa in Le, 12, 31 : «Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».
56) Kierkegaard Soren, Aut-Aut, in lo., Opere, Firenze, Sansoni 1972, 10.
57) Seneca, Lettere a Lucilio, Torino, UTET 1969, 211.
58) Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, Cambridge1926, 32.
59) Shaftesbury, Saggio sulla virtù e il merito, Milano, Einaudi 1946, 125. Cf anche. 72. 77 e 78.
60) Hutcheson Francis, An Inquiry into the Originai of Our Ideas of Beauty and Virtue, Indianapolis, Liberty Fund 2004,141.
61) Genovesi Antonio, Autobiografia e lettere, Milano, Feltrinelli 1963, 449.
62) Smith Adam, Teoria dei sentimenti morali, Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli 1995,81.
63) Cf bruni, L’economia, la felicità e gli altri 117-119.
64) Scheler Max, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Cinisello Balsamo, San Paolo 1996, 426 ss.
65) Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica all’inizio del ministero pontificale: Redemptor hominis n. 10 (4 marzo 1979), in Enchiridion Vaticanum (EV)/6, Bologna, Dehoniane 1980, 1194.
66) Ovviamente, solo l’Onnipotente può sempre donare (Kierkegaard Soren, Diario VII A 181, tr. it. n. 1017), ma ciò non toglie che anche l’uomo possa talvolta farlo.
67) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: Gaudium et Spes n. 24 (7 dicembre 1965) in EV/1, (19708) 1395. Questa citazione, quelle della nota precedente e della nota 55 non costituiscono un’abdicazione del metodo filosofico di questo scritto al principio di autorità: i testi citati, infatti, esprimono delle verità che sono accessibili alla comprensione filosofica senza bisogno di qualsivoglia fede.
68) Aristotele, Etica Nichomachea 1,1099 b, 10-15.
60) Tommaso d’Acquino, Summa Theologicae, I-II, q. 2, a. 1.
70) Lotz Johannes Baptist, Esperienza trascendentale, tr. it., Milano, Vita e Pensiero 1993, 229-234.
71) Samek Lodovici Emanuele, La felicità e la crisi della cultura radical-illuminista. Atti del Seminario Internazionale di Studi di Montebelluna (a cura di G. Petrobelli e C. Rossitto), Padova, Libreria Editrice Gregoriana 1980, 37.
72) Spaemann Robert, Felicità e benevolenza, Milano, Vita e Pensiero 1998, 28. Su questo tema si veda anche Blondel Maurice, L’azione: saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica, Cinisello Balsamo, San Paolo 1993.
73) Samek Lodovici E., La felicità e la crisi della cultura radical-illuminista 38.
74) Weil Simone, L’ Attesa di Dio, Milano, Rusconi1972, 144.
75) Agostino, Confessioni 1,1.
989, tomo III, 30-31