Reportage da Tripoli un anno dopo la rivolta che ha messo fine al regime di Gheddafi. Così vendette, razzie e scontri fra tribù rivali insanguinano la strada verso le prime elezioni della nuova Libia. Un paese fuori controllo
da Tripoli Sergio Bianchi
Come per il nostro 25 luglio, dalla sconfitta politico-militare sgorga oggi un fiume di sangue, una scia infinita di vendette e lutti. A un’amica, che per sicurezza chiamiamo solo Samira, hanno rapito il cognato qualche giorno fa, il 18 febbraio. Era sulla strada dell’aeroporto con moglie e tre figli. In pieno giorno una banda di shabab li ha bloccati, ha immobilizzato l’autista, strappato l’anziano uomo dalla macchina e lo ha caricato di peso sul pick-up con la scritta “Katibah Zintan”. Sabato scorso anche la moglie è stata presa mentre si recava a un appuntamento con i rapitori, una banda di guerriglieri che si è insediata in una lussuosa villa “sequestrata” nelle vicinanze dell’aeroporto. Tutti sanno chi sono, ma avvicinarsi è impossibile.
«Li ho cercati, mia sorella e suo marito, in tutte le carceri. Niente», ci dice Samira. «Ho fatto denunce all’ufficio di Mustafà Abdel Jalil, il presidente, di Abdel Rahim al-Kib, il capo del governo provvisorio, e ho personalmente telefonato ai ministri più importanti. Nessuno può fare niente. Sono disperata, oramai siamo solo farisah, prede», balbetta la donna, con lo sguardo terrorizzato.
Ci sono una decina di prigioni segrete solo a Tripoli, tutte porte spalancate verso l’inferno. Il clima è pesante. Tripoli è in mano a circa 250 bande di miliziani armati fino ai denti, che fanno posti di blocco, rubano auto, violentano donne e spesso saccheggiano con l’alibi della rivoluzione. Intendono chiaramente far valere le proprie armi e il proprio peso nell’equilibrio del nuovo potere, al di là di come andranno le elezioni.
I più pericolosi sono gli zintani, gli ex straccioni dei monti Nafusa, che hanno fatto capitolare Gheddafi a Tripoli. Sono una decina di kata’ib (brigate) che occupano l’area dell’aeroporto e le strade che conducono al centro della capitale. «Non intendiamo andarcene da Tripoli perché noi difendiamo la rivoluzione», ci dice un loro leader militare che incontriamo fra gli specchi e gli stucchi dorati della sala convegni del Rixos, dove sembra essersi perfettamente ambientato.
L’altra potente milizia è quella dei misrati, i guerriglieri della città-stato, che oramai opera fuori dal controllo del sistema politico nazionale, ha un proprio aeroporto, collegamenti diretti con vari paesi esteri e sollecita perfino l’ambasciata italiana ad aprire un consolato in città. I guerriglieri di Misurata, che hanno attaccato nell’agosto scorso le truppe di Gheddafi dal mare con una spettacolare operazione navale, occupano oggi l’area strategica del lungomare di Tripoli verso sud-est.
Chi comanda fuori dalle città?
La ricca Misurata è una città martire che ha resistito per mesi all’assedio dell’esercito di Gheddafi, dei miliziani di Bani Walid e Tawargha, dove viveva una comunità libica nera alleata di Gheddafi. Quando il regime è caduto, violenze atroci e indicibili sono state commesse dai thuwwar a Tawargha, oggi una città spettrale, completamente vuota. Ai suoi 40 mila abitanti, che si sono trasferiti a Tripoli, è proibito tornare. La città di Misurata è l’unica che abbia fatto le elezioni municipali, con una larga partecipazione popolare, vinte dai Fratelli Musulmani e, inaspettatamente, da gruppi religiosi locali.
Il confronto territoriale fra le milizie zintani e misrati, in qualche caso anche militare, tende a spostarsi con sempre maggiore frequenza sul piano politico: di fatto non vi è alcun coordinamento fra il ministro dell’Interno, Fawzi Abdelali, ex giudice istruttore di Misurata, e Osama al-Juwali, il ministro della Difesa, di Zintan. Due mondi in costante conflitto, anche se quello della sicurezza dovrebbe essere il maggior nodo da risolvere per l’attuale governo. Come se non bastasse nel Sud del paese sono decine le vittime degli scontri fra le popolazioni tebu e quelle amasikh per il controllo dei ricchi traffici di immigrati africani, armi, droga e benzina.
Il rapporto fra centro e periferia, fra città e tribù, più che la questione islamica, sta diventando il nodo politico primario della nuova Libia. Lo confermano le proteste sempre più frequenti contro il nuovo governo provvisorio, che oramai diventano pubbliche. In piazza Algeria, da settimane, c’è una tenda dove si radunano i disobbedienti dell’ I’tisam.
«Il popolo vuole fatti, non parole», recita uno striscione. In un tazebao l’urgenza di cambiare strada è messa nero su bianco in 16 punti, fra i quali spiccano il federalismo politico (hanno inventato un neologismo arabo: al-lamarkaziyyah), maggiore trasparenza nella suddivisione territoriale dei proventi del petrolio e del gas, che intanto stanno tornando ai livelli ante-guerra civile, ma i cui frutti non si vedono a livello locale.
Prospettiva polverizzazione
Le tensioni territoriali e tribali si sommano alla crisi politica. Il 21 giugno si dovrebbero tenere le prime elezioni politiche della nuova Libia. Si voterà con un sistema all’egiziana, con la maggioranza dei seggi eletti fra personalità indipendenti e una quota di un terzo scelti nelle liste dei partiti. È un sistema che favorisce la polverizzazione politica: 64 sono ad oggi i partiti “registrati”, anche se alcune coalizioni sembrano avere la forza per diventare poli di attrazione politici nazionali.
Il 21 febbraio si è tenuto l’incontro di fondazione della nuova Alleanza nazional-popolare (Tahaluf al-Qawmy al-Wataniy-yah). La guida Mahmud Jibril, l’ex primo ministro e segretario degli Esteri del primo governo di transizione. Jibril ha messo insieme l’intellighenzia laica del paese, come Ali Tarhuni e Abdel Rahman Shalgam, molti quadri non compromessi del passato regime e una quarantina di partitini fra cui le rissose tribù del Fezzan e quelle dei monti Nafusa.
«Noi non concepiamo questa Alleanza come un movimento politico, bensì come una movimento patriottico», ci spiega in un’intervista esclusiva. Jibril tenta di recuperare voti contro i Fratelli Musulmani e si prepara per future alleanze alla loro destra: «La sharia è un elemento vincolante per noi. Ma nella misura in cui è una sharia consensuale. L’islam libico è moderato per sua propria natura, ciò che in arabo si chiama wasatiyyah». Da un mesetto il moderato Jibril ha perfino assunto toni bellicosi anche contro l’Italia, accusata nientemeno che di voler occupare la Libia.
Tra le fila dei suoi supporter ci sono anche gli uomini della Liwa’ Tarabulasah, organizzazione paramilitare fortemente supportata dagli inglesi. Alla testa di queste milizie c’è His-ham Abu Hajar, che ha un passato fra i quadri militari del Fronte di Salvezza nazionale e ha passato gli ultimi dieci anni negli Stati Uniti. Abu Hajar è pessimista sulle elezioni: «Io supporto Jibril, ma vinceranno i Fratelli Musulmani, perché la distanza fra questi politici laici e il popolo è troppo grande. Le elezioni saranno un grande caos: non abbiamo un censimento, anagrafe, sicurezza, direttive chiare. Il potere esistente è nelle mani delle tribù, quelle di Zintan, di Tarhu-na, di Bani Walid, di Gharyan…».
Come se ne esce allora?, gli chiediamo nel suo campo di addestramento, circondato da quadri militari ben preparati e ben armati, forse il primo vero germe di una forza di sicurezza. «Abbiamo un governo gentile ma debole. Quando hai l’autorità? Quando hai soldi e armi. Riguardo ai soldi, il vero bilancio finanziario del governo, anche contando i fondi scongelati, è in rosso.
Armi? Dopo 4 mesi di campagna per il ritiro delle armi siamo riusciti ad avere poco meno di 5 mila combattenti regolari… Giusto per fare un paragone: solo gli shabab sono 100 mila. Quelli di Zintan sono più numerosi delle forze nazionali. Abbiamo 23 mila poliziotti inadeguati». Poi dalla bocca di Abu Hajar esce la parola magica che tante volte abbiamo sentito in Libia in questi giorni: «Qui ci vuole un uomo forte». Sentiremo ancora parlare di loro.
All’estremo opposto del quadro politico, anche i salafiti dell’ex Gruppo combattente si stanno organizzando. «Fra poche settimane annunceremo la nascita di un partito», promette Abdel Hakim Belhaj, attuale capo del Consiglio militare di Tripoli, nel suo ufficio dentro la base dell’aeronautica militare di Mitiga. Un passato nelle file del movimento terroristico Lifg fra la Libia e l’Afghanistan, Abdel Hakim Belhaj spera di seguire il modello egiziano dell’Alleanza an-Nur, che ha ottenuto risultati sorprendenti alle prime elezioni libere post-Mubarak. Ma per Belhaj il compito non è facile, perché deve guardarsi dalle ambizioni di as-Sallabi, un ex fratello musulmano che lo ha anticipato nella fondazione di uno pseudo-partito di matrice salafita a Bengasi e con cui si sta alleando.
Soprattutto fra i suoi sodali vi sono defezioni importanti verso formule più radicali, come quelle di Sami Sadi e Sharif Khalid, leader ideologici del movimento salafita combattente libico. In realtà i salafiti in Libia sono più deboli che in Egitto. Sono una creatura del Qatar e di Al Jazee-ra, ma non hanno vere basi territoriali e ad oggi non godono neppure dell’appoggio di Sadeq al-Gharyani, il Gran Muftì della Libia, d’ispirazione salafita non jihadista e troppo timoroso per schierarsi con Belhaj.
Intanto il 3 marzo a Tripoli è scesa in campo anche la Fratellanza libica, che esce dalla clandestinità. Sotto la nuova guida di Bashir al-Kabti e Abdellatif Karmos i Fratelli Musulmani annunciano il loro partito, «indipendente dal movimento religioso». «Siamo pronti a governare», garantisce Karmos. Il problema è come.