di Anna Bono
Diceva don Luigi Giussani nel lontano 1986: “La cultura occidentale possiede dei valori tali per cui si è imposta come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo (…) tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo: il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo; (…) il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo tra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo; la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di San Paolo: “ogni creatura è bene”; il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea di un disegno intelligente. Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso. Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertà”.
Si deve a queste caratteristiche se l’Occidente cristiano ha realizzato progressi morali, intellettuali, scientifici, tecnologici e produttivi superiori a quelli di ogni altra società; e se – unico nella storia umana – l’Occidente considera giusto solo un mondo in cui tutti abbiano pari opportunità di contribuire a realizzare sempre nuove conquiste materiali, intellettuali e morali e di goderne i frutti.L’incertezza su ciascuno di questi valori, il suo indebolimento, se non la sua negazione, compromettono il futuro della civiltà che su di essi è stata edificata, le sue conquiste. Non c’è bisogno di immaginare le conseguenze. Basta guardare al resto del mondo, dove altri valori guidano il comportamento umano, individuale e collettivo.
Il lavoro, ad esempio, visto come schiavitù e impedimento: la prima conseguenza è che delle attività lavorative è incaricato chi occupa status inferiori, mentre gli status superiori, acquisiti e ascritti, esentano dal lavoro. In Africa l’ambita condizione di anziano è uno status riservato ai maschi che vi accedono non appena i loro figli escono dalla prima infanzia – durante la quale entrambi i sessi affiancano le donne nelle loro attività lavorative – e sono quindi ritenuti in grado di svolgere i lavori degli adulti.
Per tradizione, onore e orgoglio di un uomo africano è poter dire appunto di essere “anziano”, di aver cioè generato figli maschi ora capaci di lavorare al posto suo. Le donne africane invece invecchiano, ma non diventano “anziane”: aiutate dai figli bambini, loro compito è lavorare fino alla fine dei loro giorni, sollevate dalla fatica soltanto dalle nuore. A ciò corrisponde una condizione sottoposta, marginale e inferiore permanente.
I maschi non solo lavorano per un breve periodo della loro esistenza, ma, anche durante quel periodo, svolgono poche attività poiché la maggior parte dei lavori domestici, di assistenza e produttivi sono assegnati alle donne e ai bambini. Bisogna aggiungere che una tenace resistenza al cambiamento ha fatto sì che gli africani continuassero nei millenni a disporre di tecnologie rudimentali, inadatte a moltiplicare la resa della fatica umana. Si spiegano così la povertà e la precarietà delle condizioni di vita delle comunità africane tradizionali: seconda, generale conseguenza del lavoro malvisto e schivato.
All’operosità occidentale, tuttavia si contrappongono esempi africani portati a modello di saggezza e di migliore qualità della vita. L’antropologo Alberto Salza ha esaltato i Boscimani del Kalahari che lavorano in media 18 ore alla settimana (intendendo per lavoro tutte le attività necessarie a provvedere ai propri bisogni) e trascorrono il resto del tempo riposando, parlando, cantando e ballando, mentre la “folle” civiltà occidentale costringe quasi a 18 ore quotidiane di attività. Salza appartiene a una scuola di pensiero molto seguita che biasima da decenni l’Occidente “insaziabile”, sostenuta dai movimenti ambientalisti che vedono nel lavoro industriale, nelle economie di mercato e nello stile di vita occidentale una minaccia all’ambiente.
Lo sprezzo per il lavoro trova consensi inaspettati. I missionari cristiani, ad esempio, dovrebbero sapere meglio di chiunque che dal lavoro dipende prima di tutto la qualità della vita. Eppure portano anch’essi a modello le comunità tribali: presso le quali intanto si prodigano distribuendo beni essenziali che non si ammette possano mancare a una persona umana, ma che quelle comunità non sono in grado di produrre né di procurarsi. La casa Editrice Missionaria Italiana nel 2001 pubblicava un libro di Christoph Baker intitolato Ozio, lentezza e nostalgia, un’esortazione a ribellarsi al lavoro, accompagnata alla condanna – si spiegava nella presentazione del testo – del “mito dello sviluppo”.
L’autore della presentazione, Francesco Grasselli, spiegava anche che c’è una povertà felice mentre regna il vuoto esistenziale tra i ricchi, dicendosi grato dell’arte di vivere insegnata da Baker, del suo prezioso “decalogo”, fondato sul rifiuto di lavoro, fretta e responsabilità, per l’avvento di una nuova civiltà: in luogo di quella cristiana occidentale?