Questa non è un’icona

Chen GuangchengTempi n.19 16 maggio 2012

Lui non scende in piazza a reclamare riforme. Semplicemente ha iniziato ad accettare il cambiamento di sé. La rocambolesca avventura “normale” di Chen, il dissidente cieco che fa vedere i sorci verdi al regime comunista cinese

di Leone Grotti

Se qualcuno gli avesse detto che degli ultimi sette anni ne avrebbe passati più di quattro in prigione per “intralcio del traffico” e oltre due agli arresti domiciliari, forse nel 2005 avrebbe risposto in modo diverso al funzionario del Partito comunista cinese che gli suggeriva: «Lascia perdere la causa, offendere il governo non è cosa indicata. Potrebbero anche vendicarsi». Ma Chen Guangcheng non è il tipo che cede alle minacce: «Chi viola la legge deve prendersi le sue responsabilità».

A sette anni di distanza, dopo avere subito umiliazioni e pestaggi a ripetizione, Chen, il dissidente cieco che ha aperto gli occhi al mondo sulla pratica degli aborti forzati imposti dal regime e che ha creato una delle più gravi crisi diplomatiche degli ultimi 20 anni tra Cina e Stati Uniti, si trova a Pechino con la moglie e i due figli, nel reparto vip dell’ospedale di Chaoyang.

Il 22 aprile è scappato da casa sua, dove il regime lo teneva segregato da 19 mesi, e dopo una fuga solitaria di 17 ore si è rifugiato con l’aiuto di alcuni attivisti all’ambasciata americana. Secondo un accordo raggiunto tra il regime e Washington, con i dissidenti che accusano gli americani di aver sacrificato un uomo sull’altare della diplomazia, Chen potrà recarsi negli Stati Uniti per un periodo di studio alla New York University.

Ma mentre Hillary Clinton canta vittoria, i dissidenti fanno notare che la specialità del governo comunista è quella di non mantenere le promesse. E i segnali negativi non mancano: non si sa ancora quando Chen riceverà il passaporto, due attivisti che l’hanno aiutato sono ai domiciliari, nessuno può visitarlo e la dissidente Liu Yanping è stata arrestata per aver cercato di portare una torta di compleanno al figlio di Chen.

I primi “affronti” al Partito

Nonostante questo, il dissidente cieco non ha rivolto appelli al mondo, non ha profuso denunce a mezzo stampa, anzi, ha ribadito di volere «contribuire al cambiamento della Cina». Chen infatti non è «un pupazzo nelle mani degli Stati Uniti», come sostiene Pechino, non è neanche un attivista, è solo un uomo cieco di 41 anni che vede più lontano degli altri e che non ha mai rinunciato a dire la verità.

Anche se il regime cinese lo dipinge come un ladro e un traditore, Chen Guangcheng non è mai stato un mangia-comunisti o un indignato. Fin da piccolo. All’età di un anno un violento attacco di febbre lo priva della vista e lui, ultimo di cinque fratelli, non frequenta la scuola fino ai 18 anni. Passa l’infanzia tra il lavoro nei campi e i divertimenti che la campagna cinese può offrire a un bambino: è il più bravo del circondario a catturare i pesci con le mani nel fiume e a rubare le uova dai nidi degli uccelli.

Parlando dell’infanzia che gli ha permesso di crescere alto, forte e testardo, Chen dichiara sempre di «essere stato felice». A18 anni arriva la possibilità di studiare e Chen la coglie al volo. Nel 1998 si iscrive alla facoltà di agopuntura e massaggi, l’unica aperta ai ciechi. Ma il suo destino è la legge e se ne accorgerà presto.

Nel 1996, all’età di 25 anni, si impatta per la prima volta con la corruzione del governo locale: i funzionari gli chiedono di pagare le tasse, in barba alla legge statale che esenta i ciechi come lui. E quando si ritrova a difendere i suoi diritti davanti all’esattore, questo gli risponde con una frase che definisce alla perfezione il sistema giustizia in Cina: «Sappiamo che sei esentato dalle tasse, ma noi non rispettiamo la legge. Credi di poter fare qualcosa per impedircelo?».

Invece di stracciarsi le vesti, Chen va a cercare giustizia nelle sedi opportune: prima nella contea di Linyi, poi nella provincia dello Shandong e infine, dopo due tentativi e altrettante porte sbattute in faccia, si dirige con una petizione a Pechino, 640 chilometri a nord di casa sua.

L’anno successivo il governo centrale gli da ragione, lo esenta dal pagare le tasse e obbliga il governo locale a corrispondergli un sussidio annuale di 200 yuan. Per rifarsi, però, i funzionari del villaggio gli confiscano un terzo della sua terra. Chen gli fa causa e vince per la seconda volta. «Il Partito locale cominciò a odiarmi a morte». Un odio che non avrebbe tardato a dimostrargli.

Avvocato fai-da-te

Quando nei dintorni si sparge la voce che c’è un uomo cieco che non subisce i soprusi del Partito ma li combatte impugnando le leggi vigenti, in tanti vanno a chiedergli soccorso. In primis altri non vedenti come lui, che Chen aiuta a farsi valere in tribunale. Così, mentre finisce l’università e si mantiene facendo l’agricoltore, Chen comincia a studiare legge, rendendosi conto che la Cina non poteva cambiare se le sue leggi non venivano rispettate.

E poiché non esisteva il codice cinese in braille, compra qualche libro di giurisprudenza e impara a memoria tutte le leggi che può, facendosele leggere dal padre. Non diventa certo un principe del foro ma in dieci anni riesce ad aiutare più di tremila persone, senza cedere alle tante minacce di morte che riceve.

Al contrario di quello che ha scritto di lui pochi giorni fa il Quotidiano del popolo per screditarlo, Chen non «ama attirare l’attenzione su di sé»; dietro agli occhiali neri che porta perennemente non si nasconde un eroe antisistema, ma un uomo che come tutti ha vissuto successi e fallimenti. Con la consapevolezza che «i casi in sé sono meno importanti della presa di coscienza dei diritti da parte dei cinesi».

Perché l’obiettivo di Chen non è mai stato fare della Cina un paradiso, ma solo rispondere alle richieste di aiuto che provenivano da chi gli stava intorno. «Tutti ripetono che questa società è malata per un motivo o per l’altro. Ma tu hai mai pensato che cosa hai fatto per questa società? Anche se facessi una sola cosa buona, sarebbe già abbastanza».

Parole che Chen non urlava in piazza come fossero slogan, le testimoniava con i fatti. Anche in radio. È durante un programma che conosce sua moglie, Yuan Weijing, una donna tenace come lui che non ha avuto paura di sposare un cieco. Appena uscita dal college, Yuan chiama in trasmissione e si lamenta perché è disoccupata, nonostante sia in possesso di un titolo valido.

E Chen, invece di compatirla, le racconta la sua storia. La donna rimane stupita, lo va a trovare quell’estate e nel 2003 si sposano. Il loro matrimonio viene addirittura trasmesso in diretta dalla tv locale perché intanto Chen è diventato una delle dieci persone più famoso della contea di Linyi. Tutto sembrava perfetto, insomma, fino al luglio 2004.

Lo scandalo degli aborti forzati

Quell’anno il Partito comunista raccomanda ai governi locali di far rispettare la legge sul figlio unico, introdotta nel 1979 per timore che una “crescita sregolata” della popolazione danneggiasse l’avanzata economica del paese. Nella contea di Linyi, Li Qun, il segretario di partito locale, è irreprensibile: per essere promossi di grado è importante avere successo nella “pianificazione familiare”.

In pochi mesi bande armate assoldate dal governo locale entrano nelle case di tutta la contea per costringere ad abortire le donne incinte del secondo o terzo figlio e sterilizzare le altre. Nessuna famiglia sfugge ai controlli. Quelle “colpevoli” ricevono “sessioni di studio” in cui vengono spogliate, torturate e picchiate. La stessa sorte tocca ai familiari dei “colpevoli”, poi ai vicini, poi ai familiari dei vicini. In totale, secondo i calcoli di Chen, 130 mila donne vengono sterilizzate e oltre 520 mila persone perseguitate, detenute e torturate.

Quando il 9 maggio Du Dehong, contadina 33enne, viene sterilizzata a forza, decide di chiedere aiuto al suo vicino di casa. Chen ascolta la sua storia e le propone di fare causa al governo. Comincia così a occuparsi degli abusi del governo locale e a girare con la moglie villaggio per villaggio, per raccogliere testimonianze.

Come quella di Feng Zhongxia, 36 anni e incinta al settimo mese, costretta a fuggire da Maxiagou per non dovere abortire. I funzionari della contea arrestano la sua famiglia e le danno un ultimatum: «Presentati qui e abortisci o strappiamo la pelle di dosso ai tuoi».

In pochi mesi Chen si siede davanti a centinaia di uomini e donne come Feng e ascolta le loro voci. Oltre a sporgere denuncia, autorizza il Washington Posta pubblicare ogni cosa, esponendosi alla rappresaglia del Partito comunista. L’articolo accende i riflettori del mondo sulla Cina e costringe il regime a condannare gli atti dei funzionari di Linyi. Pechino però non gradisce la pubblicità e l’il agosto 2005 permette che Chen e la moglie siano segregati in casa.

Il 6 settembre il dissidente viene prelevato da casa, pestato a sangue e portato davanti a tre testimoni, tra cui l’autore dell’articolo incriminato. Subito dopo lo raggiunge il capo della sicurezza di Linyi, che lo apostrofa così: «Ti sei incontrato di nuovo con un giornalista straniero, è già la seconda volta. Vuoi proprio farti dieci anni di prigione». Chen rimane chiuso in casa per 197 giorni, prima di essere arrestato l’11 marzo 2006.

Il suo avvocato viene più volte minacciato di morte e la polizia fa di tutto per impedirgli di raccogliere testimonianze a favore dell’assistito. Il 18 agosto 2006 il tribunale apre le porte per il processo, ma solo a Chen. Avvocati, familiari e testimoni vengono bloccati all’entrata. Dopo sei giorni il dissidente cieco viene condannato a quattro anni e tre mesi di carcere per avere «distrutto delle proprietà» e «riunito una folla per intralciare il traffico». Successivamente i testimoni che l’hanno accusato chiameranno il suo avvocato per scusarsi: «La polizia ci ha obbligati a parlare torturandoci».

Quando esce di prigione, il 9 settembre 2010, Chen si rende conto che non sarebbe potuto tornare così facilmente alla libertà. Iniziano per lui e la sua famiglia 19 mesi di segregazione in casa, senza poter uscire né far entrare nessuno, controllati 24 ore su 24 da sette telecamere e un centinaio di persone.

Durante una delle frequenti irruzioni di bande armate assoldate dal Partito, Chen e i suoi vengono anche pestati e derubati di carta, penne, televisione, computer. Perfino i giochi della figlia vengono confiscati. E mentre Chen è costretto alla cattività, Li Qun, il segretario comunista di Linyi «che partecipava alle sessioni di pestaggio», viene promosso a segretario del partito di Qingdao, città ben più importante.

«Qui è tutto troppo pericoloso»

II 22 aprile scorso, però, Chen riesce a scappare dall’inferno che il Partito comunista ha preparato per lui. Nonostante il suo desiderio di «contribuire al cambiamento della Cina», è stato costretto ad accettare l’accordo raggiunto tra Pechino e Washington che, paroloni a parte, significa una cosa sola: esilio.

Avrebbe potuto restare in patria, diventare un simbolo. Invece, mentre i giornali controllati dal regime lo infamano, ha scelto di andarsene, perché «qui è tutto molto pericoloso, siamo stanchi, vivi per miracolo, le mie scelte ricadono su persone innocenti» e «i miei figli hanno bisogno di giorni normali».

«Anch’io non mi riposo una domenica da sei anni», ha aggiunto in un’intervista. Rivelando che dietro quegli occhiali da sole scuri c’è ben più che un attivista o un eroe: c’è un uomo in carne e ossa, Chen Guangcheng, l’avvocato cieco che ha messo in crisi il regime comunista cinese senza nemmeno reclamare riforme, ma semplicemente vivendole.

* * *

E IL REGIME SCATENA LA MACCHINA DEL FANGO

Dopo oltre quattro anni di prigione e 19 mesi di arresti domiciliari, il 22 aprile scorso il dissidente cieco Chen Guangcheng riesce a scappare di casa. Con l’aiuto di alcuni attivisti raggiunge l’ambasciata americana a Pechino.

Quando la notizia si diffonde il regime rilascia un comunicato e intima a Washington «di chiedere scusa per avere interferito negli affari interni» della Cina. Chen è pronto a rimanere in ambasciata per anni ma decide di uscire quando scopre che la sua famiglia è minacciata dai funzionar! comunisti. Il 28 aprile si dirige all’ospedale di Chaoyang, con le rassicurazioni di un accordo tra Cina e Stati Uniti: potrà vivere in una città universitaria e studiare legge senza pericolo di ritorsioni.

Arrivato in ospedale e riabbracciata la sua famiglia, Chen si rende conto che non può fidarsi del Partito comunista e chiede agli Stati Uniti di espatriare. Le due potenze raggiungono un compromesso: Chen, «come qualunque altro cittadino cinese, può recarsi all’estero a studiare». La New York University gli propone immediatamente una collaborazione. E mentre lui aspetta con la famiglia i passaporti per esiliare, la stampa di regime demolisce la sua immagine.

Un cronista del Global Times scrive di essere andato a trovare Chen a dicembre. «Mi sono sorpreso nello scoprire che era sconosciuto a tutti nel villaggio, perfino ai tassisti». E continua: «Ammiravo Chen, ma quando ho scoperto che era stato imprigionato perché con il suo pozzo costruito con fondi britannici drenava l’acqua dai pozzi degli altri abitanti e faceva pagare loro tasse molto alte, non sapevo più cosa pensare».

Secondo il China Daily, la versione inglese del Giornale del popolo, Chen non è altro che uno «strumento politico usato da Romney per criticare Obama». Ma chiedere aiuto agli americani è inutile, conclude un altro editoriale, perché «la Cina è un paese dove vige il rispetto della legge e i diritti di tutti sono protetti dalla Costituzione». Il caso di Chen Guangcheng è lì a dimostrarlo