Alessandro Catelani, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena, analizza criticamente l’idea che l’abolizione della sovranità sia indispensabile per garantire la pace fra le Nazioni e la tutela dei diritti umani, sottolineando come la sovranità non sia assenza di limiti e di regole, ma significhi che l’ordinamento statale si pone in posizione di parità rispetto agli altri Stati e perciò ogni limitazione non può essergli imposta che con il suo consenso. Tutti gli Stati moderni liberi e democratici sono sovrani e nello stesso tempo riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo.
Inoltre, i rapporti tra i popoli mostrano che soltanto il rispetto dell’identità culturale di ciascuno di essi, attraverso il riconoscimento della loro sovranità, può garantire la pace fra le Nazioni. Per questo lo studioso non crede che l’Unione politica europea possa realizzarsi a immagine degli Usa, perché questi rappresentano un’unica Nazione, mentre in Europa esiste una civiltà europea, ma non un’unica Nazione, sicché un livellamento nell’unità violerebbe l’identità culturale di ciascuna Nazione, quale deve essere fatta valere attraverso la sua sovranità.
Infine, non è dimostrabile che ciò che viene deciso a livello sopranazionale sia necessariamente più attendibile di ogni decisione adottata all’interno dei singoli Stati, dato che è pur sempre opera umana. Per i diritti umani, pertanto, devono essere rispettate le decisioni dei singoli Stati democratici, nei cui confronti ogni interferenza contrasta con i diritti all’autodeterminazione delle loro popolazioni.
di Alessandro Cateani
A livello internazionale — e per quello che riguarda l’Europa, comunitario — le limitazioni sono talmente intense da far apparire a molti come ormai imminente la fine stessa dell’organizzazione statale, almeno così come tradizionalmente intesa, in quanto basata sulla sovranità. Quello che resta della sovranità statale non sarebbe che un retaggio del passato, destinato ben presto a scomparire, per lasciare il posto a una società multietnica dominata dalle organizzazioni internazionali, senza confini di territorio né di Nazione.
La crisi della sovranità non sarebbe che una pri ma tappa di un processo irreversibile di estinzione. Ci si deve pertanto chiedere quanto questa tendenza sia destinata ad accentuarsi, ovvero se vi siano degli ostacoli insuperabili alla sua affermazione.
Si ritiene assai spesso che l’abolizione della sovranità sia indispensabile per garantire la pace fra le Nazioni, così come per tutelare in tutto il mondo i diritti umani. L’abolizione della sovranità si identificherebbe con la creazione di una società più giusta e più equa, da costruire per un futuro migliore.
Si deve obiettare a questo comune modo di vedere che la sovranità non si identifica con il diritto di opprimere altri Stati, perché esiste, nel periodo storico in cui viviamo, un complesso di norme che mirano a garantire la pace tra i popoli e a tutelare i diritti umani di ogni persona e che sono universalmente accettate; così che è solo la loro violazione che può consentire eventuali abusi. Considerare come attuale un’identificazione della sovranità con la violenza e la sopraffazione sarebbe giuridicamente e storicamente errato.
La legalità nei rapporti internazionali non solo coesiste, ma anzi presuppone, il riconoscimento della sovranità. Questo è stato dichiarato dalla Carta dell’Onu, la quale non ha tutelato soltanto i diritti umani, ma anche la sovranità degli Stati e l’uguaglianza tra i popoli (art. 2). Queste prerogative, come appare con chiarezza dalla Carta dell’Onu, non sono fra di loro in contrasto.
Lo Stato sovrano non è quello legibus solutus, ma è quello che conserva la propria indipendenza da interferenze esterne. La sovranità non è assenza di limiti e di regole, ma significa solo che l’ordinamento statale si pone in posizione di parità rispetto agli altri Stati, e che ogni limitazione non può essergli imposta che con il suo consenso.
Attualmente ogni Stato non ha il diritto di aggredire gli altri in quanto sovrano, ma soltanto può, all’interno del proprio ordinamento, prendere decisioni che non siano imposte dall’esterno. La sovranità ha ancora, sotto questo riguardo, un suo significato ben preciso, in quanto si identifica con il diritto degli Stati di governarsi attraverso i propri organi esponenziali.
Al contrario, è l’unione coattiva di popoli che disconosce la sovranità di ciascuno di essi la fonte prima di ogni contrasto. La presenza, all’interno di uno stesso Stato, di etnie diverse, inevitabilmente determina il predominio di una razza sull’altra – o perché più numerosa, o per altri motivi -, il che porta inevitabilmente ad accesi contrasti, che possono anche sfociare in conflitti sanguinosi.
Le fusioni di popoli distinti, anche se giustificate da affinità etniche e culturali, hanno creato difficoltà insormontabili, e non hanno condotto a risultati soddisfacenti. In Europa, uno Stato multietnico quale l’Impero austroungarico, pur se gestito ottimamente, è stato distrutto da quella spaventosa tragedia per l’umanità che è stata la Prima guerra mondiale. In epoca più recente – solo per citare alcuni, anche se assai significativi, esempi — l’Unione Sovietica si è dissolta dopo la fine del regime totalitario che l’aveva istituita, ereditandola dall’impero zarista.
E così sono scomparse, anch’esse in coincidenza con la fine del comunismo, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, quest’ultima con sanguinosissime guerre fratricide. In Africa, la composizione multietnica degli Stati è la causa prima della loro debolezza, dovuta a contrasti che spesso si concludono in maniera cruenta, attraverso terribili guerre intestine.
I rapporti tra i popoli mostrano con chiarezza che soltanto il rispetto dell’identità culturale di ciascuno di essi, attraverso il riconoscimento della loro sovranità, può garantire la pace fra le Nazioni.
Sul piano interno, ci si può chiedere che relazione intercorra tra la sovranità degli Stati e i diritti dei soggetti appartenenti alle sottostanti collettività; e pertanto se si pongano fra loro in contrasto, o se viceversa siano compatibili.
Per la tutela dei diritti umani
La sovranità non contrasta con la tutela dei diritti umani da parte di un ordinamento, perché in epoca moderna uno Stato sovrano, se accetta i princìpi di libertà e di democrazia, riconosce al suo interno i diritti umani, e all’esterno coopera per una pacifica convivenza tra i popoli. Il concetto di sovranità non è davvero in contrasto con quello di Stato di diritto. Tutti gli Stati moderni liberi e democratici sono sovrani, e nello stesso tempo riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo.
La sovranità è solo assenza di poteri sovraordinati, e in quanto tale può coesistere con l’accettazione del principio di legalità e con la tutela dei diritti inviolabili della persona. È l’imperio della legge che garantisce i diritti fondamentali. E la legalità coesiste in pieno con la sovranità dell’ordinamento entro il quale viene fatta valere.
Anche sul piano interno dunque la sovranità, come assenza di autorità sovraordinate, non si identifica con il potere di commettere abusi, ma è soltanto un requisito degli ordinamenti statali nei quali sono inseriti i consociati.
Non è la sovranità dello Stato, ma l’assenza del principio di divisione dei poteri che può provocare la violazione dei diritti umani; oppure, anche in presenza del formale riconoscimento di questo principio, lo Stato può disconoscere il pluralismo ideologico e consociativo, e basarsi sul predominio di un partito unico. Ma questo nulla ha a che vedere con la sovranità, la quale è prerogativa che ha, come si è detto, ben diversa portata e significato.
Nell’ottica di una tutela globale dei diritti umani, basata su una concezione giusnaturalistica, dovrebbero essere i tribunali e le organizzazioni internazionali a garantire un’adeguata salvaguardia dei diritti della persona, contrastando le deviazioni che possono verificarsi all’interno dei singoli Stati; e la sovranità di questi ultimi non dovrebbe essere di ostacolo a tali interferenze.
In realtà la tutela internazionale dei diritti umani, basata sul disconoscimento della sovranità, ha i suoi limiti e i suoi inconvenienti, che è doveroso sottolineare. I vantaggi che dovrebbero derivare da una tutela internazionale dei diritti umani sono di fatto vanificati da un rapporto di forza. Per gli Stati totalitari ogni garanzia dei diritti umani effettuata da organismi internazionali può dirsi di fatto quasi sempre inesistente, in quanto richiederebbe, per essere concretamente fatta valere, una guerra, che difficilmente gli Stati avranno intenzione di fare.
Qualora vi sia uno Stato totalitario consolidato, che al suo interno disponga di un potere assoluto, un’azione esterna volta ad abbatterlo non ricorre di consueto nei rapporti internazionali. Ci si limita ad adottare sanzioni economiche la cui efficacia è, disgraziatamente, assai limitata. Si può aggiungere che anche in presenza di un intervento esterno, come è accaduto in questi ultimi anni, le difficoltà di far valere realmente i diritti umani sono apparse evidenti.
La tutela multilivello si presta invece, pur con diversificate modalità, ad avere la sua efficacia all’interno degli Stati liberi e democratici, i quali a tale scopo rinunciano alla propria sovranità. In questi casi, tuttavia, le interferenze esterne sono in grado di alterarne i meccanismi della legittima rappresentanza politica, violando il diritto di autodeterminazione dei popoli.
L’inserimento degli Stati nella comunità internazionale è talmente intenso, e così incisivo è il condizionamento sia politico sia economico sia, prima ancora si direbbe, psicologico, che tale condizionamento si presta a qualunque abuso, e a violare inevitabilmente i diritti umani delle corrispondenti popolazioni.
Ogni interferenza appare, in ultima analisi, priva di una sua giustificazione. Non vi è alcun motivo per attribuire un’efficacia sopraordinata alle decisioni adottate a livello sovranazionale, rispetto a quelle proprie dei singoli Stati, perché questa sovraordinazione si basa sull’assunto, del tutto indimostrabile, che quello che viene deciso a livello sopranazionale sia necessariamente più attendibile di ogni decisione adottata all’interno dei singoli Stati.
Quello che viene deciso a livello internazionale è pur sempre opera umana; così che il maggior pregio di quelle decisioni, anche quando eventualmente sussista, è sempre un fatto puramente accidentale.
Per la materia dei diritti umani pertanto, a differenza di quanto può accadere in altri settori nei quali la cooperazione può proficuamente portare anche a decisioni adottate a livello internazionale, devono essere rispettate le decisioni dei singoli Stati, perché non vi è alcuna ragione per contrastarli, e per svalutarne il contenuto a favore di organismi comunitari o internazionali.
Il ricorso a questi ultimi, e la preminenza che può essere loro attribuita, ha un significato unicamente per gli Stati che violano e non riconoscono i diritti umani; ma non può averne alcuna per gli ordinamenti liberi e democratici, nei confronti dei quali ogni interferenza di tale natura contrasta con i diritti all’autodeterminazione che spettano alle popolazioni che ne fanno parte.
La situazione che attualmente ricorre a livello internazionale per la tutela dei diritti umani appare quindi esattamente antitetica rispetto a quella che viene prospettata per giustificare le limitazioni alla sovranità statale: le ingerenze sovranazionali sono largamente ammesse, e costituiscono un gravissimo abuso nei confronti degli Stati che rispettano i diritti umani, mentre sono quasi sempre escluse nell’unica ipotesi in cui potrebbero avere una loro reale efficacia e una valida giustificazione, e cioè nei confronti degli Stati totalitari, nei quali quegli abusi realmente hanno luogo.
L’idea di una tutela piena e incondizionata dei diritti umani in ogni parte del mondo rientra nei sogni dell’umanità, ma è assai difficilmente realizzabile.
Sovranità & integrazione I europea
Queste considerazioni devono essere applicate anche, con i dovuti adattamenti, all’integrazione europea. In modo particolare per l’Europa si è da molti auspicata l’abolizione di ogni sovranità degli Stati membri, per giungere alla creazione di uno Stato sovranazionale che tutti li ricomprenda.
La situazione attuale non sarebbe altro che il primo passo di un lungo cammino diretto a tale scopo. Una soluzione del genere non sarebbe però soltanto concretamente irrealizzabile – come viene universalmente riconosciuto -, ma anche lesiva dei diritti delle popolazioni che dovrebbero entrare a farne parte. In Europa esiste una civiltà europea, ma non esiste un’unica Nazione europea, bensì Nazioni fra di loro estremamente differenziate, la cui unificazione forzosa verrebbe a ledere il loro diritto inalienabile all’autodeterminazione.
L’integrazione europea si è tradotta in un processo di unificazione che da molti è stato seguito con il fervore di un dogma, per reazione all’esasperato nazionalismo che ha portato agli orrori della Seconda guerra mondiale; ma questa così diffusa concezione mostra ormai, a distanza di tanti anni, in maniera sempre più marcata, i suoi inevitabili limiti.
Il processo di unificazione che, superando la fase attuale che alla sovranità impone solo certi limiti, venisse portato alle estreme conseguenze, arrivando alla formazione – come da molti viene auspicato – di uno Stato unitario, contrasterebbe con il diritto di autodeterminazione dei popoli.
Lo Stato federale non è un assetto istituzionale idoneo a rappresentare culture diverse. Lo Stato federale, anche se basato sul conferimento di amplissimi poteri agli Stati membri, è un assetto istituzionale idoneo a rappresentare un’unica Nazione, sia pure diversificata nelle varie parti del suo territorio, per caratteristiche proprie, ambientali e culturali.
L’esempio di Stato federale che comunemente viene addotto, per auspicare un adeguamento degli Stati europei a un analogo assetto istituzionale, è quello degli Stati Uniti d’America. Ma si tratta di un modello tutt’altro che pertinente, il cui richiamo appare in felicissimo e gravemente errato: gli Stati Uniti d’America, nonostante i loro immensi confini, rappresentano pur sempre un’unica Nazione, dotata di un’unica lingua, di una cultura e di ideali comuni, e che presenta una compattezza e una solidità indiscussa e ammirevole; mentre questo non sarebbe certo il caso dell’Unione europea, che sarebbe formata da popoli dotati di lingua, razza, cultura e modi di vita diversi.
Si tratta di due realtà, più che differenziate, antitetiche: tra lo Stato federale che rappresenta un’unica Nazione in America e lo Stato federale d’Europa la differenza è infinita; così che un livellamento in Europa mirante a garantire un’omogeneità che non tenga conto delle caratteristiche culturali dei popoli che ne fanno parte sarebbe lesivo dei diritti inviolabili di questi ultimi. Metterli sullo stesso piano sarebbe un errore gravissimo.
In Europa un appiattimento e un livellamento nell’unità violerebbe l’identità culturale di ciascuna Nazione, quale deve essere fatta valere attraverso la sua sovranità.
Il processo di integrazione europea deve procedere a tutti i possibili livelli di cooperazione, perché fondamentale per lo sviluppo del nostro continente, e per valorizzare al massimo la comune civiltà europea; ma tale processo, per procedere efficacemente, e per creare un organismo veramente in grado di funzionare, e soprattutto per salvaguardare i diritti dei popoli che ne fanno parte, deve rispettare la sovranità degli Stati.
Una riunione indifferenziata dei popoli d’Europa in un Parlamento comune, che fosse dotato di poteri sovrani, violerebbe l’identità culturale delle Nazioni chiamate a farne parte, e il loro diritto a determinare un proprio indirizzo politico, attraverso libere istituzioni rappresentative.
Un’eventuale maggioranza trasversale può rispettare, qualora si formi, la volontà delle popolazioni interessate; ma ciò costituisce una mera accidentalità delle sue decisioni. Qualora invece non vi sia una volontà che comprenda quella della maggioranza dei rappresentanti dei singoli Stati, la valorizzazione esclusiva del numero non rispetterebbe le diversità culturali e i corrispondenti diritti di ogni popolo ad avere un proprio indirizzo politico.
In tali casi, le decisioni non verrebbero prese dalla collettività nazionale dei Paesi che vi abbiano aderito, ma da altri popoli, sulla base di una maggioranza esterna a ciascuna Nazione, che in quelle ipotesi violerebbero la sovranità di queste ultime. E si tratterebbe pertanto di un potere centrale che non terrebbe conto delle caratteristiche culturali delle Nazioni che vengano a trovarsi in minoranza, e del loro diritto a esprimere un proprio indirizzo politico.
Autodeterminazione dei popoli
Spesso si considerano gli ostacoli che si frappongono al processo di unificazione europea come particolarismi da combattere e da eliminare, nell’ambito di un più illuminata visione della civiltà europea. Ma si tratta di un’interpretazione errata e semplicistica di una realtà la quale è radicalmente diversa da come viene comunemente prospettata: un unico Parlamento sovrano rappresentativo di più popoli implicherebbe che alcuni popoli possano imporre ad altri la propria volontà; il che sarebbe lesivo del diritto di autodeterminazione di questi ultimi, quale è garantito sia dalla nostra Costituzione sia a livello internazionale.
Per la nostra Costituzione, il rispetto della sovranità popolare è garantito dal 2° comma dell’art. 1, secondo cui: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». E tale precetto costituzionale non è che la riaffermazione, sul piano interno, del diritto di autodeterminazione dei popoli che è espressamente riconosciuto come inalienabile anche a livello internazionale (art. 1, paragrafo 2, della Carta delle Nazioni Unite; art. 1, paragrafo 1, del Patto internazionale dei diritti civili e politici, risalente al 1966, e recepito in Italia dalla L. 881/1977, nonché art. 20, paragrafo 1 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli).
Tale diritto è fondamentale: imporre una politica agli Stati che non la condividono non è cosa diversa dall’imporre ai consociati l’ideologia di un’istituzione che non li rappresenta, secondo un’impostazione tipicamente totalitaria.
Ciascun popolo ha diritto di adottare liberamente un proprio indirizzo politico, secondo la propria identità culturale. Una politica unitaria di più popoli può essere auspicabile, ma deve essere liberamente assunta.
Il disconoscimento e la svalutazione dello Stato a favore di organismi sovranazionali deve avere dunque dei limiti, che sono quelli dei diritti che gli Stati rappresentano, e che non possono essere fatti valere che tramite il rispetto della loro sovranità. Questa è la prerogativa giuridica che allo Stato è indispensabile per adempiere alla funzione sua propria: violarla sarebbe lesivo dei diritti umani delle sottostanti popolazioni.
Ogni Nazione è un ben distinto centro di interessi che non può essere ignorato, in quanto deve essere rappresentato adeguatamente, a livello istituzionale, da uno Stato dotato di sovranità. Non è vero che lo Stato come organismo, come entità esponenziale di una collettività, non abbia più una sua ragion d’essere e una sua giustificazione, e che le limitazioni alla sovranità statale siano destinate a progredire all’infinito, fino ad annullarla completamente.
Lo Stato sovrano è l’unico organismo in grado di rappresentare una popolazione, una collettività dotata di una propria cultura, con propria razza, lingua e modo di vita.
Non esiste come struttura istituzionale, e a livello pertanto organizzativo, un ordinamento diverso da quello statale per rappresentare una Nazione, quale entità dotata di una cultura propria. Insistere quindi nel condannare la sovranità come fonte di ogni male sarebbe errato. È proprio invece dalle interferenze esterne che arrivano – a volte persine con il pretesto di tutelare i diritti umani — le più gravi minacce alla libertà e alla vita democratica dei popoli in ogni parte del mondo.