Molti vescovi e preti pensano di risolvere il declino della fede scommettendo sui giovanissimi. È un grave errore, obietta il professor Pietro De Marco: saranno gli adulti a decidere la riuscita o no del prossimo Anno della Fede. Il caso dell’Italia
di Sandro Magister
Per papa Joseph Ratzinger, infatti, è lo spegnersi della fede anche in tanti paesi di antica cristianità la difficoltà maggiore che la Chiesa oggi attraversa. Nella sua Germania, nelle regioni orientali, quelli che non credono in nessuna religione sono ormai maggioranza. E così nella Repubblica Ceca. Mentre in Irlanda è in atto un crollo repentino paragonabile solo a quello già sperimentato dal Quebec, passato in pochissimi anni da regione cattolicissima ad area largamente scristianizzata.
Ma anche in quella “eccezione” che è considerata l’Italia, dove perdura un cattolicesimo di popolo con una Chiesa fortemente presente e radicata, i rischi di un vicino ed esteso affievolimento della fede sono reali. È uscito in questi giorni un libro scritto da due sociologi della religione, Massimo Introvigne e PierLuigi Zoccatelli, che quantifica e analizza la presenza di atei in un’area della Sicilia centrale i cui indicatori coincidono spesso con quelli della media nazionale.
Il libro ha per titolo “Gentili senza cortile” ed è stampato dalle Edizioni Lussografica di Caltanissetta. Gli autori hanno rilevato una presenza di atei “forti”, che cioè motivano il loro ateismo con ragioni ideologiche, nella misura del 2,4 per cento della popolazione. Sono per lo più anziani e di antica militanza comunista. Accanto a loro vi sono degli atei “deboli”, che cioè considerano Dio e la religione irrilevanti per la loro vita, dove contano solo il lavoro, il denaro e le relazioni affettive. Sono il 5 per cento e sono prevalentemente giovani e istruiti.
Ma gli autori si spingono oltre. Alle due cerchie degli atei “forti” e degli atei “deboli” aggiungono la cerchia dei “lontani” dalla Chiesa cattolica e da qualsiasi altra religione. Una cerchia a loro giudizio molto vasta, superiore al 60 per cento della popolazione.
“I ‘lontani’ sono persone – scrivono i due autori della ricerca – che nella grande maggioranza non si dicono atee ma hanno perso ogni contatto con la religione: vanno in chiesa solo per i matrimoni e i funerali, e se pure si dicono religiose o spirituali, mettono insieme credenze disparate. Si tratta ormai di una solida maggioranza degli italiani”.
La tesi di Introvigne e Zoccatelli si presta a critiche. Essi tendono a far coincidere i cattolici soltanto con coloro che vanno a messa ogni domenica o quasi. Quando in realtà il cattolicesimo italiano si caratterizza per le modalità molto varie in cui si esplica, anche di osservanza bassa e intermittente, e comprende proprio un gran numero di coloro che i due autori escludono come “lontani”.
Un’analisi del cattolicesimo italiano per molti aspetti opposta a quella di Introvigne e Zoccatelli è, ad esempio, quella che ha fatto Pietro De Marco, dell’Università di Firenze, anche lui sociologo della religione, in questo servizio di www.chiesa: Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno “Chiesa di popolo”
Anche il professor Paolo Segatti, dell’Università di Milano, concorda nel riconoscere la perdurante impronta cattolica di larga parte della popolazione italiana. Ma nello stesso tempo, con una indagine pubblicata su “Il Regno” del 15 maggio 2010, Segatti ha messo in guardia, per primo, da un rischio che incombe sul futuro della fede cattolica in Italia.
La sua indagine ha messo in luce, infatti, una frattura drammatica tra i nati dopo il 1970, e più ancora dopo il 1981, e le precedenti generazioni: “Sembra veramente di osservare un altro mondo. I giovanissimi sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici”.
Il crollo è così netto da far sparire anche le differenze che nelle generazioni adulte intercorrono tra uomini e donne, queste ultime di solito molto più praticanti. Tra i giovanissimi anche le donne vanno pochissimo in chiesa, al pari dei maschi. E se si pensa che la fede è generalmente trasmessa ai bambini dalle madri o comunque prevalentemente da donne, è facile intuire che tale trasmissione rischia di interrompersi, quando gli attuali giovanissimi saranno divenuti padri e madri.
È questo l’aspetto più drammatico di ciò che i vescovi italiani e lo stesso Benedetto XVI chiamano “emergenza educativa”. A questa emergenza – che non è solo italiana ma di molti paesi – la Chiesa cattolica tende spesso a rispondere scommettendo su una pastorale che mette al centro, appunto, i giovanissimi.
Se sono essi il punto dolente, si pensa, è su di loro che si deve agire. A loro misura. Nella speranza che da adulti anche la loro fede si faccia adulta. Ma è giusto fare così? Per il professor De Marco no, è un errore grave.
E qui di seguito spiega perché.
FORMARE ANZITUTTO GLI ADULTI CON CONTENUTI DA ADULTI (1)
di Pietro De Marco
Leggiamo che dei vescovi del Veneto – ultimo caso di una serie, non solo in Italia – intendono rivoluzionare tempi e ordine dei sacramenti dell’iniziazione cristiana per bambini ed adolescenti, moltiplicando “pedagogicamente” eventi, gesti rituali e simboli. Ma il problema critico della “emergenza educativa”, generale e cristiana, come pure la preoccupazione dell’Anno della Fede, non sono dati anzitutto dagli adolescenti. E comunque non sarebbero da affrontare con pedagogie da “scuola attiva” che a questa emergenza hanno contribuito.
Il problema è dato piuttosto dagli adulti, che sono poi i fedeli laici adulti nella massima estensione sociologica del termine (2). Consideriamo il primo generatore di “emergenza”, ossia la “tradizione”, la trasmissione della fede e della cultura tra generazioni. La formazione è la cultura stessa di una civiltà consapevole di sé. L’adulto vi conferma e vi mette alla prova la propria costituzione, l’avvenuta socializzazione.
Se esiste qualcosa come una “formazione degli adulti” essa è, anzitutto, l’esistenza adulta messa alla prova. Ma l’adulto è contemporaneamente in costitutiva relazione con le generazioni più giovani. Con queste egli è sempre in una relazione sociale asimmetrica, nell’età e nel ruolo.
Una società è cultura e pratica dell’asimmetria generazionale. In più, l’adulto è la controparte dei processi e dei traumi di identificazione che accompagnano la costruzione dell’identità personale. Insomma, è l’ambiente prevalente dell’essere in formazione, anche quando gli adolescenti si rifugiano in comunità di pari, naturali o elettroniche.
L’ambizione pedagogistica contemporanea immagina l’adulto come un perenne “sé” da formare, quindi come un perenne allievo dell’educatore illuminato. Ma non è così. L’adulto resta, in ogni momento, l’attore dominante e libero della scena sociale. Senza dimenticare che questo “altro” rispetto all’adolescente è, in effetti, una organizzata costellazione di differenze e conflitti. Così la socializzazione familiare è sfidata ed erosa dalla concorrenza di tutte le altre pratiche formative. Così la scuola, rispetto ad altre “agencies”.
La condizione adolescenziale è, insomma, capillarmente influenzata da reti di adulti in competizione tra loro ed esse stesse instabili nel tempo. Se, dunque, l’adulto è l’ambiente della persona in formazione e se questo ambiente è, per di più, fluido e conflittuale – da “emergenza educativa”, appunto – dobbiamo ricondurre proprio lui, l’adulto, al centro della preoccupazione educativa cristiana. Contro il sentire prevalente, propongo le tesi seguenti.
A. La fiduciosa scelta di dare agli adolescenti la priorità e talora l’esclusiva nella strategia pastorale è un errore. La pastorale ordinaria ha fatto la scommessa di fondare sugli adolescenti, sui “giovani” in accezione generica ed emotiva, la formazione cristiana, che è divenuta così l’unica formazione esistente nelle chiese (3). Ma questa formazione è per definizione inadeguata agli adulti. E di conseguenza sarà inadeguata agli stessi soggetti che ora si formano, una volta che siano divenuti adulti.
L’evidenza di questo errore è di ogni giorno. Cosa resta al giovane divenuto adulto? Restano delle “narrazioni” su Gesù e dei buoni sentimenti o ideali, cioè tutta la debolezza della catechesi contemporanea. Dico debolezza, poiché la trasmissione di un “credendum” necessario, di un insieme di verità di fede, già per chi abbia oltrepassato l’infanzia e sia entrato nell’adolescenza, non può essere “narrativa”.
Le tracce cristiane infantilistiche, così, si rivelano improvvisamente marginali rispetto a ciò che nel mondo adulto conta, anche quando l’adulto chiede a sé e agli altri di “dare ragione della speranza” (1 Pt 3, 15). Per parte sua il mondo vitale degli adulti, se non contrasta, neppure conferma, né alimenta, né, tantomeno, aggiorna la “paideia” cristiana ricevuta dall’adolescente. Non lo può, non lo vuole.
B. La diffusa strategia pastorale a favore di adolescenti si caratterizza inoltre, a mio avviso, per tre pericolose convinzioni.
1. La convinzione inconfessata che si tratti di un impegno più facile – data la presunta plasticità del “sé” adolescenziale – e in quanto “basico” destinato a risultati permanenti.
2. La convinzione anti-adultistica che nasconde un atteggiamento di sufficienza difensiva nei confronti dell’uomo comune, come pure del credente senza particolari qualifiche, magari del devoto; una convinzione nella quale clero e laicati “impegnati” spesso convergono. La “scelta prioritaria per il povero” è accompagnata spesso da questo dispregio nei confronti del credente di “classe media”.
3. La convinzione anti-intellettualistica e fideista di potere, attraverso i giovani, fare opposizione al “logos” cattolico, alla coerenza razionale e alla formulazione di contenuti e di argomenti, che sono invece necessarie alla “fides” del cristiano adulto.
Contro queste convinzioni e pratiche teologico-pastorali, largamente condivise e diffuse, ritengo che nella formazione cristiana la “edificazione” dell’adulto non possa restare un capitolo facoltativo, rimandato al domani, sospeso sul presunto successo della formazione dell’adolescente, oggi.
È invece proprio la “edificazione” dell’adulto che deve costituire, oggi, una pratica diretta e primaria della pastorale cattolica. Non è vero che giovani “ben formati” saranno per ciò stesso dei buoni adulti. Nel corso degli anni il giovane è “socializzato” potentemente da processi di identificazione ed emulazione, da nuovi saperi e comunità comunicative, da impreviste possibilità di realizzazione di sé, tutto mediato dagli adulti; chi lo aiuterà a incrementare parallelamente il suo intelletto di fede?
Se gli adulti di riferimento non sono, oggi, coerentemente guidati (4) a confermare la formazione cristiana anzitutto in se stessi, come adulti, quindi nella comunicazione intergenerazionale, la formazione alla visione cattolica del mondo (5), offerta oggi agli adolescenti nella pastorale, è già a rischio di fallimento.
Chi insegna alle giovani generazioni cristiane deve contrastare sul suo terreno un insidioso teorema del Novecento pedagogico, in parte ereditato da Rousseau. È il teorema che vuole favorire l’autoformazione degli adolescenti, perché si “deculturino”. E nello stesso tempo vuole riportare gli adulti a scuola, perché l’intelligencija possa “rieducarli”. A che cosa? Al nulla. È quello che resta della Rivoluzione. Non è poco e non deve essere vincente.
NOTE
1) Intendo “adulto” nell’accezione antropologica: l’individuo costituito ormai nella sua autonomia dalla cura parentale e comunitaria. L’analisi non guadagna granché dall’uso valutativo etico o psicologico di “adulto” inteso in opposizione a “immaturo”; tanto meno dalla evocazione della formula occasionale e abusata di Dietrich Bonhoeffer sul “mondo adulto”. Per questo adotto l’espressione “contenuti [di fede] da adulti” e non “contenuti adulti”, che esistono solo nella mente dell’intelligencija.
2) A cominciare dai laici adulti che si qualificano come “adulti” perché emancipati dal passato cattolico, che pesano nelle parrocchie, fino ai credenti marginali con pratica saltuaria o ai credenti “a modo mio”.
3) Non parlo di movimenti e istituti di perfezione nelle diverse accezioni e sviluppi. Qui intendo solo ambienti e prassi della pastorale ordinaria.
4) Dico “guidati” non attraverso corsi o conferenze occasionali, per pochi, ma nel discorso “erga omnes”. L’aula degli adulti è, infatti, lo spazio pubblico, a cominciare da quello ove avviene la predicazione. Sembra accadere il contrario: i parroci evitano gli adulti, forse perché non sanno cosa dire loro, né come direttori spirituali né come guide intellettuali. E come si potrebbe pretenderlo, ormai? La cultura d’élite del postconcilio ha deprezzato o distrutto, assieme alla direzione spirituale, l’apologetica, disarmando così, attraverso i media cattolici e i seminari, l’intelligenza e la spiritualità di generazioni di laici e di preti. Oggi ci restano i cascami di tutto ciò.
5) Dico “visione cattolica del mondo” a ragion veduta, perché circola tra gli educatori e i pastoralisti l’idea insidiosa che l’educazione cristiana necessaria e sufficiente sia l’educazione dell’uomo, nella memoria di un Gesù “uomo [e credente] perfetto”. Da ciò il pedagogismo attivistico, nella catechesi e nella stessa liturgia, non solo per i “ragazzi”. Se questa dovesse essere l’alfabetizzazione religiosa cui nella stampa cattolica di punta si invita la Chiesa, meglio sarebbe proteggere quel tanto di fede cattolica che resta negli adulti legato alla memoria del vecchio catechismo, vista anche l’ignoranza che si ha del nuovo.